Un’etica del confine

Nella prospettiva di una riconsiderazione delle varie "architetture" dei rapporti internazionali, che e' uno degli aspetti del processo che va sotto il nome di revisione della "governance" globale, Predag Matvejevic (con un intervento pubblicato nel "Mattino" di oggi) propone una rivisitazione radicale dell'idea di confine o di frontiera, non certo per perorare un'impraticabile "abolizione" universale dei confini tra gli stati, quanto per suggerire che essi dovrebbero trasformarsi in sempre piu' in luoghi di connessione piu' che di separazione e "respingimento". C'e' materia per un dibattito intenso, tornero' sull'argomento.
L’antica e sempre nuova questione delle frontiere e dei confini riemerge in un momento decisivo della nostra storia: tanti Paesi provenienti dall`Altra Europa sono diventati membri dell`Unione europea e gli altri si preparano di entrarci.Le frontiere devono a un tempo cambiare e comunque rimanere uguali a se stesse, sottoposte contemporaneamente a un controllo costante e rigoroso per respingere coloro la cui presenza non è desiderata né benvenuta. Le stesse persone che hanno vissuto, ancora ieri, tra frontiere bloccate, che dovevano superare con artifici e a volte pagando il prezzo della umiliazione, oggi si vedono chiamate a diventare i guardiani attenti di quelle barriere e a sorvegliarle rigorosamente. C`è un paradosso in questo ruolo. Non è difficile immaginare un polacco che impedisce a un russo o a un ucraino di passare attraverso il suo territorio. Ma come si comporterà un ungherese quando si presentasse davanti a lui un altro cittadino con la stessa nazionalità, che provenga dalla minoranza ungherese della ex Jugoslavia? 0 uno sloveno che, a una ventina di chilometri da Zagabria, debba fermare un croato con il quale in passato aveva condiviso una sorte comune? I vecchi particolarismi potrebbero facilmente ridisegnare le frontiere interne dell`Europa incoraggiatì da ogni tipo di nazionalismo, di regionalismo, di localismo, di devoluzionismo e da altre tendenze simili che si manifestano con arroganza e alle quali ogni idea di convergenza o di sintesi rimane estranea. Si tratta di ripensare, di fronte a queste tendenze irrazionali verso la divisione e la separazione, ciò che si potrebbe chiamare una nuova architettura della frontiera o, perché no, una nuova etica del confine. La cultura avrebbe sicuramente da dire le sue parole, se non fosse così messa ai margini nella elaborazione del progetto europeo, chiamata in soccorso molto raramente o solo per liberarsi la coscienza. Non sarebbe dunque inutile lasciare libere alcune idee che riguardano il tema e tentare di definirlo diversamente, confrontandolo con le consuetudini concrete che conosciamo, vecchie e nuove. Conviene prendere nuovamente in considerazione le diverse nozioni di permeabilità delle frontiere-confini, della loro accessibilità, della permessività, della fragilità, della «doganalità» e della «custodialità» in riguardo. Alcuni di questi termini sono da inventare o da ridefinire, e ciascuno merita una riflessione particolare. In questo contesto mi viene alla mente un antico esempio che già Tacito evocava nell`introduzione della sua «Germania»: a fianco delle cosiddette frontiere naturali, come il Reno e il Danubio, o come alcune catene di montagne, si crea spesso una frontiera particolare imposta dalla paura reciproca. «Mutuo metu», diceva il vecchio storico, facendo una felice allitterazione. Questo sentimento è ben noto a una buona parte di noi esuli, in particolare a quelli umiliati e offesi, che dovevano viverlo in passato durante la Guerra Fredda. E’ inutile oggi parlare ancora una volta delle cortine di ferro e dei muri simili a quello di Berlino. I processi di globalizzazione e di mondializzazione - quando non consistono semplicemente nell`imporre un nuovo ordine mondiale - presuppongono un riesame della natura stessa della frontiera e del confine. La crisi che stiamo vivendo tutti ci spinge in questo senso. È ben chiaro che una vera alleanza fra gli Stati non può essere immaginata con delle frontiere rigide o poco permeabili. Il nostro pianeta si confronta, ogni giorno con più insistenza, con le richieste che vengono da un ordine umanista, morale, etico: la richiesta di diminuire se non di abolire i confini tra ricchi e poveri, tra uomini ben nutriti e altri affamati, tra istruiti e analfabeti. I teorici e i protagonisti della globalizzazione di ieri sembravano dimenticare che la cultura europea aveva già conosciuto al suo interno vari movimenti a tendenza universale o, se preferiamo, mondialisti: il cosmopolitismo dei Lumi, l`ecumenismo in campo religioso, l`internazionalismo in politica, quello che non era compromesso dal comunismo di tipo staliniano. La cultura stessa dovrebbe ricordarlo a questi teorici, se non fosse scoraggiata come appare. Queste tendenze, anche se ai nostri giorni sono minimizzate, non potranno essere sostituite da un’unificazione mondiale a buon mercato. Mi fermo qui, e so bene che spesso si offre un’immagine ingenua, a volte ridicola, proponendo in questo testo una qualunque idea morale. La nostra proposta è molto più modesta: mettere in evidenza alcune contraddizioni nel momento in cui sì crea una nuova architettura non solo del nostro del Vecchio continente ma forse anche del mondo intero.

Il Pianeta della Grande Occasione




Il pensoso giornalista e scrittore Ryszard Kapuścińki, giramondo con una sua personalissima ma funzionale “bussola etica”, ci ha lasciato pagine illuminanti sulla questione dell’incontro con l’altro e sul tema del dialogo.



Ogni volta che l’uomo si e’ incontrato con l’altro, ha sempre avuto davanti a se’ tre possibilita’ di scelta: fargli guerra, isolarsi dietro a un muro o stabilire un dialogo. Nel corso della storia vediamo l’uomo esitare in continuazione tra queste opzioni, scegliendo l’una o l’altra a seconda della situazione e della cultura. E’ mutevole nelle sue decisioni, non sempre si sente sicuro, non sempre sente la terra salda sotto i piedi. Quella della guerra e’ un’opzione difficilmente giustificabile: penso che ne escano tutti perdenti, poiche’ e’ una sconfitta dell’essere umano che rivela la sua incapacita’ di intendersi, di immedesimarsi nell’altro, di mostrarsi buono e intelligente. In questo caso l’incontro con l’altro si conclude sempre tragicamente nel sangue e nella morte. Nel mondo moderno l’idea che induce l’uomo a erigere grandi muraglie e a scavare profondi fossati per mantenersi isolato dagli altri e’ stata definita come la dottrina dell’apartheid. Un concetto erroneamente limitato alla sola politica del regime, oggi scomparso, dei bianchi del Sudafrica. In realta’ l’apartheid veniva gia’ praticato in tempi remoti. Semplificando, si tratta di un’ideologia secondo la quale chiunque non appartenga alla mia stessa razza, religione e cultura e’ libero di vivere come vuole, purche’ alla larga da me. La cosa, tuttavia, e’meno semplice di quanto sembri. In realta’ abbiamo a che fare con una dottrina proclamante la fondamentale ed insanabile disuguaglianza che divide il genere umano. (...) L”incontro con l’altro viene definito da Emmanuel Lévinas come un “evento”, anzi come l’”evento fondamentale”, il limite estremo dell’esperienza umana. Lévinas, come sappiamo, appartiene al gruppo dei filosofi del dialogo quali Martin Buber, Ferdinand Ebner e Gabriel Marcel (ai quali in seguito si unira’ Józef Tischner). (...) Per quanto riguarda il rapporto nei confronti dell’altro e degli altri, questi filosofi respingevano l’opzione della guerra in quanto causa di distruzione; criticavano la scelta dell’indifferenza e dell’isolamento, sostenendo invece la necessita’, anzi il dovere etico dell’apertura, dell’avvicinamento e della benevolenza.(......) Comunque sia, il mondo in cui stiamo entrando e’il Pianeta della Grande Occasione. Un’occasione non incondizionata, ma alla portata solo di coloro che prendono il proprio compito sul serio, dimostrando automaticamente di prendere sul serio se stessi. Un mondo che se, da un lato, offre molto, dall’altro chiede anche molto e dove cercare facili scorciatoie significa spesso non arrivare da nessuna parte. Vi incontreremo continuamente il nuovo altro, lentamente emergente dal caos e dalla confusione del mondo contemporaneo. Puo’ darsi che questo altro scaturisca dall’incontro tra le due opposte correnti che formano la cultura del mondo moderno: la corrente che globalizza la nostra realta’ e quella che consenva le nostre diversita’, la nostra unicita’ e irripetibilita’. Puo’ darsi che egli ne sia il frutto e l’erede. Per questo dobbiamo cercare di stabilire con lui un dialogo e un’intesa. L’esperienza di tanti anni trascorsi in mezzo agli altri di paesi lontani mi insegna che la benevolenza nei loro confronti e’ l’unico atteggiamento capace di far vibrare la corda dell’umanita’.

L'unica famiglia umana



Un testo straordinario di Dionigi Tettamanzi, tratto dal suo nuovo libro Non c'è futuro senza solidarieta' (ed. San Paolo)







Mi verrebbe d'iniziare con l'antica citazione biblica: "Amate dunque il forestiero, poiché anche voi foste forestieri nel paese d'Egitto" (Deuteronomio 10,19). Come a dire, che il fenomeno migratorio, sia pure in modalità e intensità diverse, accompagna sempre la storia dei popoli. E che esso deve suscitare, come prima e più immediata forma di solidarietà, la condivisione obiettiva di una medesima situazione. (...) Ma qual è la situazione da noi oggi, nelle nostre città e nei nostri paesi? Potrei rispondere in termini quanto mai sintetici dicendo, anzitutto, che troppe volte e con troppa insistenza negli ultimi tempi si è pensato agli stranieri soltanto come a una minaccia per la nostra sicurezza, per il nostro benessere. Con l'immediata conseguenza che il peso dei pregiudizi e degli stereotipi hanno impedito un dialogo autentico con queste persone, finendo per causare spesso il loro isolamento, relegandole così in condizioni che hanno provocato e provocano illegalità e fenomeni di delinquenza. Ma la realtà presenta anche un'altra faccia: noncuranti delle tante e, troppe, eccessive polemiche, molte persone - in modo silenzioso e nel nome della propria fede e di un alto senso umanitario - hanno operato e continuano ad operare per assistere questi "nuovi venuti " nei loro bisogni elementari: il cibo, un riparo o, degli indumenti, la cura dei più piccoli.(...) Cade qui una riflessione elementare, la cui forza razionale invincibile conduce all'adesione, anche se poi la prassi, purtroppo, può divenirne una smentita. Ci sono così tante "etnie" e "popoli" diversi, ma tutte le etnie hanno la loro radice e il loro sviluppo nell'unica etnia umana, così come tutti i popoli si ritrovano all'interno del tessuto vivo e unitario dell'unica famiglia umana. (...) Troviamo qui l'approccio culturale nuovo che deve caratterizzare la nostra valutazione e il nostro comportamento - certo nel segno della solidarietà ora affermata - nei riguardi dei migranti. Lo indicavo così nel Discorso alla Città per la Vigilia di Sant'Ambrogio 2008: "Occorre, con una visione complessiva del fenomeno, guardare agli immigrati non solo come individui, più o meno bisognosi, o come categorie oggetto di giudizi negativi inappellabili, ma innanzitutto come persone, e dunque portatori di diritti e doveri: diritti che esigono il nostro rispetto e doveri verso la nuova comunità da loro scelta che devono essere responsabilmente da essi assunti. La coniugazione dei diritti e dei doveri farà sì che essi non restino ai margini, non si chiudano nei ghetti, ma - positivamente - portino il loro contributo al futuro della città secondo le loro forze e con l'originalità della propria identità". Riprendendo ora la riflessione generale, vorrei riproporre qualche spunto nel segno di una concretezza quotidiana e con un riferimento più specifico alle due realtà della famiglia del lavoro. Il primo passo da compiere dovrebbe condurci a superare una paura: quella che ci impedisce di riconoscere in pienezza l'uguale dignità sul lavoro degli immigrati. In realtà, per non pochi di noi essi sono visti come una minaccia, non solo perché considerati come uomini e donne che disturbano la tranquillità del nostro quieto vivere e del nostro paese, ma anche perché a noi "rubano" il lavoro. E se invece vengono accolti, rischiano di essere trattati come una forza lavoro a buon mercato, in particolare per quelle attività che noi ci rifiutiamo di compiere perché ritenute troppo faticose o poco dignitose. Ma, anche in mezzo a difficoltà e incomprensioni, diverse forze sociali danno prova di solidarietà attiva con i migranti, creando nuove forme di accoglienza e di inclusione sociale, a cominciare dal lavoro. Si tratta di una testimonianza cristiana e civile forte in un contesto di fin troppo facile contrapposizione. Una testimonianza non astratta e fuori della storia, ma in grado di avviare una integrazione all'insegna della solidarietà e della legalità, che diventa dono per tutti e risposta non secondaria alla domanda di sicurezza legittimamente posta da città spaventate e non poco preoccupate, anche per i segnali sconfortanti che vengono dalla cronaca quotidiana. Una testimonianza che deve interpellare tutti e ciascuno. (....) Non è spontaneo per nessuno in queste occasioni rifarsi e ispirarsi allo spirito più radicale del Vangelo e c'è per tutti il rischio di chiudersi in una eccessiva preoccupazione di se stessi, che ci fa scoprire sovente la nostra più grande miseria morale. È importante allora acquisire innanzitutto una reale conoscenza della situazione e delle persone, nelle loro qualità positive, nei loro limiti e nelle loro differenze. Solo così riscopriremo gli aspetti positivi della loro nuova presenza, le risorse culturali e religiose di cui sono portatori, la loro capacità di essere protagonisti in diversi ambiti, non appena offriamo loro l'opportunità di farlo. (..) È onesto - ed è bello - riconoscere l'apporto che tanti immigrati danno alla vita delle nostre città e, in termini certo più ristretti ma quanto mai concreti ed efficaci, alla vita delle nostre famiglie. Tanti - in assoluta prevalenza donne - appena giunti in Italia da paesi stranieri si fanno carico - nelle case degli italiani d'origine - dei servizi della casa, della cura dei bambini, dell'assistenza agli anziani e malati. Ed è con spirito di ammirazione e di gratitudine che dobbiamo riconoscere che queste stesse donne - le chiamiamo "badanti" - con i loro figli sono le prime persone che pagano il costo di una separazione forzata, dell'esclusione dai diritti, della privazione per se stesse e per i propri familiari. Di conseguenza, come non chiedere che - insieme ai vantaggi che vengono a noi dalla loro presenza e attività - si giunga presto a riconoscere i loro giusti diritti e a migliorare le loro condizioni di lavoro?

"Meticciato" e nuove identita'


Riprendo gli appunti scritti in occasione della presentazione del libro di Paolo Gomarasca, Meticciato: convivenza o confusione? (Marcianum Press, Venezia 2009). Una riflessione bella e profonda sulle "contaminazioni" delle identita'. Per Gomarasca, "il multiculturalismo promette 'riconoscimento reciproco', ma contemporaneamente rinuncia ad una 'comprensione sociale condivisa'". Il multiculturalismo si limita, per cosi' dire, a stabilire delle regole minime di coesistenza pacifica. Manca pero' la relazionalita' tra le culture che esso istituzionalizza.Vi e', in altre parole, l'assenza di una dimensione "interattiva", in quanto il multiculturalismo non richiede ne' prevede alcun apprendimento reciproco fra le culture. Gomarasca tenta di proporre un nuovo modello, atto a "superare le aporie delle politiche multiculturali"; un progetto politico "realmente disponibile a generare solidarieta' tra estranei". Gomarasca compie un raffinatissimo "excursus" (in "dialogo ideale" con Hegel, Kant, Marx, Gramsci, Habermas, Derrida, Deleuze, Rorty, Taylor, Fayad...) sulla nozione di meticciato, inoltrandosi nella letteratura della "conquista" e in quella "post-coloniale", precisando che il concetto di "meticcio" non ha nulla a che vedere con la percezione di una "ibridazione" o semplice sommatoria. Nel pensiero "meticcio" sembra porsi l'alternativa tra una concezione del meticciato come "ibridismo indiscriminato" e "nomadismo delle differenze". Per superare tale dicotomia, occorre tentare la strada di un "pensiero non meticcio del meticciato". Il "meticcio" inteso in questo senso specifico
e' un novum che nasce dalla relazione dell'uno con l'altro, ma che non puo' essere ridotto ne' all'uno ne' all'altro.

Gomarasca precisa che
non si tratta di un semplice effetto aggregato dell'uno e dell'altro singolarmente presi, come se fosse possibile sommare le loro rispettive culture, bensi' di un effetto emergente, che risulta dallo scambio, dalla relazione (aperta e imprevedibile) dell'uno con l'altro (....) La nuova identita' e' davvero terza perche' nasce dall'aver messo creativamente in gioco la propria identita' nella relazione con l'identita' dell'altro. E non c'e' vita buona (....) senza questo interesse di legame.

Mi sembrano poi straordinarie le considerazioni di Gomarasca sulla difficolta' di ricostruire un percorso della fraternita' (come specificazione o anche come "ragione" del meticciato) a prescindere dall'analogo concetto di "filiazione". Con tale categoria Gomarasca compie
un tentativo di declinare a livello antropologico la fondamentale co-appartenenza di tutte le cose nell'essere. (.....) La storia ci mostra (...) che l'ossessione per la purezza, per l'esclusivita', conduce a un vicolo cieco. Viceversa, la filiazione, come riconoscimento di un'origine comune, e' condizione necessaria della vita buona.

Il Muro, la Rete, la Barriera. Filosofia della separazione


Profondo e pervaso da un autentico senso etico e' il testo di David Hare sul Muro o Rete di separazione o Barriera difensiva (a seconda dei punti di vista e dei luoghi considerati) che separa fisicamente Israele dalla Cisgiordania (o i brandelli che di essa rimangono per il futuro o futuribile Stato palestinese) pubblicato sul numero del 30 aprile della "New York review of books". E' la cronaca di un viaggio in un luogo del mondo in cui una nazione fa registrare l'84 percento dei suoi cittadini a favore di questa "separazione strutturata", che sembra ormai rispondere non piu' solamente ad una legittima esigenza difensiva (per quanto esasperata e soddisfatta maldestramente ed illusoriamente) ma ad una sorta di rassegnata "filosofia della separazione". Ed e' abbastanza ironico che di questo si parli mentre invece sembra perdere vigore la pur irrinunciabile prospettiva dei "due popoli, due Stati". La nuova filosofia della separazione prospetta una "separazione in casa", un modello "cipriota" i cui caratteri non sembrano affatto attagliarsi al confronto israelo-palestinese. Una separazione che rischia di coinvolgere anche gli stessi arabi israeliani (cioe', per essere chiari: cittadini israeliani). Il Muro, dunque. Qualche dato fornito da Hare: il progetto completo prevede uno sviluppo per una lunghezza di 486 miles, che corrisponde all'intero confine orientale di Israele, e dovrebbe essere completato l'anno prossimo, nel 2010. Piu' che un muro, e' un complesso sistema di ostacoli, largo dai 30 ai 150 metri, del valore di 2 miliardi di dollari (circa 2 milioni di dollari al chilometro) e che comprende trincee, reti a carica elettrica, torrette di controllo, blocchi di cemento, posti di blocco, stretti pattugliamenti stradali, filo spinato. Quando Tony Blair fu nominato inviato per la ricostruzione economica dei Territori Palestinesi, nel giugno del 2007, c'erano 521 posti di blocco israeliani in Cisgiordania; oggi ce ne sono 699. La cosa che piu' mi ha colpito e' che in una terra arida sono stati abbattuti, per erigere il Muro o Barriera, ben 120.000 alberi. Il Muro non rispetta in molti punti la Linea Verde, vale a dire il confine provvisorio tra Israele e Cisgiordania. Ben 140.200 coloni israeliani vivono gia' oggi tra la Linea Verde e il Muro, che ha "sconfinato". Inversamente, 93.000 Palestinesi vivono "al di qua" del Muro, pur trovandosi entro la Linea Verde. Su tutto e su tutti - osserva Hare - domina un sentimento di paura che nessuna rete di protezione, muro di cinta o barriera difensiva puo' dissipare. Da una parte e dall'altra. Come afferma David Grossman, "la sopravvivenza diventa il nostro unico scopo. Viviamo al fine di sopravvivere, non per vivere. Voglio cominciare a vivere. Voglio delle porte nel Muro."