Paura dell'Islam?


Lo spirito che anima questo libro dei coniugi Zahoor Ahmad Zargar e Renata Rusca Zargar ("Paura dell'Islam", edizioni Caravaggio) e' bene espresso dalla citazione di Gandhi in apertura e dalla novella “Melchisedech e il Saladino” riportata in chiusura nella postfazione. La citazione del Mahatma merita di essere riportata: “Io credo alle verità di tutte le grandi religioni del mondo. Non ci sarà pace durevole sulla terra fino a quando non impareremo non solo a tollerare, ma anche ad avere riguardo per le fedi diverse dalla nostra. Uno studio rispettoso dei detti dei vari maestri dell’umanità è un passo in direzione di questa stima reciproca”. La novella conclusiva, invece, fa parte del Decameron di Boccaccio, ma era già presente in una raccolta precedente di autore sconosciuto ed era probabilmente derivata da un testo arabo del XII secolo: racconta di un interrogativo molto imbarazzante posto dal Saladino ad un saggio ebreo, Melchisedech, su quale delle tre religioni, giudaica, cristiana od islamica, fosse la migliore. Il saggio si trasse fuori dall’insidiosa domanda ricorrendo con intelligenza ad una parabola ed arrivò alla conclusione che ognuna crede di essere prediletta da Dio, ma quale sia veramente la migliore lo sa solo il “Padre”. Saladino non ebbe nulla da obiettare. Gli autori sottolineano che anche oggi quello che conta è la fedeltà al proprio messaggio spirituale e non il senso di superiorità che rappresenterebbe un’implicita denigrazione dell’altro. Un obiettivo di questa pubblicazione è fornire elementi di conoscenza per comprendere ragioni antiche e recenti di una conflittualità che viene spesso esasperata da deformazioni dovute ad una storiografia, che, in entrambi i versanti, ha difficoltà ad osservare ed analizzare gli eventi in modo spassionato. Un altro obiettivo, forse ancora più importante, è l’informazione “di prima mano” sui cinque pilastri dell’Islam e sul loro significato, nonché sulla figura e sulle opere di Mohammed; sappiamo bene quanta superficialità e banalizzazione ostacoli una conoscenza effettiva ed alimenti sottovalutazioni e pregiudizi. In particolare, ad esempio, in riferimento al Paradiso si rimarca la necessità di non fossilizzarsi in una interpretazione letterale della descrizione coranica, che ha dato luogo a tanti “invidiosi” sarcasmi, dimenticando od ignorando, aggiungerei, che già nelle scritture ebraiche e cristiane l’analogia con le nozze viene spesso utilizzata per dare un’idea della felicità e della leggerezza che si verifica nell’unità con l’Eterno. Viene anche ricordato il grande apporto della cultura fiorita nel mondo islamico in campo filosofico, artistico, letterario e scientifico alla civiltà mediterranea, che ci riguarda da vicino, ma anche ad altre civiltà. Tutto questo non è noto al grande pubblico, ma spesso sfugge anche ad un pubblico più colto. Uno spazio adeguato viene riservato alla “questione della donna” nell’Islam: vengono opportunamente distinte le indicazioni del Corano da prassi etniche e tribali che sono sopravvissute in popolazioni che pure hanno assunto come via spirituale l’Islam, prassi che sono destinate a diventare residuali fino all’estinzione in un mondo ormai largamente interconnesso ed interdipendente. Si è parlato molto in questi anni di “Scontro di Civiltà”: direi che è stata un po’ la trasposizione ideologica di grandi tensioni geopolitiche, legate alla preoccupazione crescente nei paesi industrializzati per la sopravvivenza dei propri complessi sistemi economico-produttivi così legati alle fonti energetiche che sono per lo più localizzate in paesi a maggioranza musulmana. Oserei dire che questa è la “Paura Madre” che ha alimentato l’islamofobia contemporanea, proprio mentre sul piano strettamente religioso sono aumentate le aperture; infatti, anche se molta strada resta da fare, l’orizzonte del dialogo e del pluralismo religioso è irreversibile: in passato non era affatto così … Tornando alla parola chiave “Paura”, vorrei collegarmi alla considerazione che gli autori stessi fanno circa il dato della paura dell’altro come costitutivo dell’umano: riflesso difensivo che può travalicare il fisiologico e diventare distruttivo fino all’assurdo. Affermava Gandhi che la non-paura produce prima o poi non-violenza (“ahimsa”= innocenza, nel senso letterale di non nuocere). Allora vorrei dire che il compito degli “operatori” e delle “operatrici” di pace dovrebbe essere innanzitutto riconoscere e prendersi cura delle paure, soprattutto latenti, e mettere in moto dinamiche di incoraggiamento per prevenire le violenze che diventano inevitabili se “l’altro” è vissuto come una “minaccia per me”. Ne conseguirebbe, fra l’altro, ad esempio, che la risposta al razzismo non dovrebbe essere l’antirazzismo, nel quale facilmente scivola “l’impazienza progressista”, ma la facilitazione degli incontri per la conoscenza reciproca e la scoperta di quanto ci accomuna, che deriva dall’unica identità indiscutibile che è quella di esseri umani. Mi piace ricordare che “Liberi dalla paura” è anche il titolo molto significativo della raccolta di scritti del premio Nobel per la Pace Aung San Suu Kyi, che con il coraggio della non violenza si batte nel suo paese, la Birmania, per l’affermazione dei diritti civili ostacolati dalla dittatura militare. Per concludere con una nota di fiducia verso il superamento delle contrapposizioni religiose e culturali, vorrei portare all’attenzione due eventi di speranza ai quali abbiamo assistito negli ultimi mesi in occasione di fatti per il resto tristissimi,cioè i tragici lutti nazionali di L’Aquila e di Viareggio: la preghiera fianco a fianco di un vescovo romano-cattolico e di un’autorità religiosa musulmana; è una traccia preziosa da seguire per consolarci e diventare amici nei dolori e nelle gioie.(Luigi De Salvia, segretario generale sezione italiana “Religions for Peace”)

La dignita' politica dell'Africa


"Ensuring peace and security in Africa: implementing the new Africa-EU partnership and developing co-operation in de-mining and disarmament" e' il titolo di un convegno che ha avuto luogo al Ministero degli Esteri il 7-8-9 ottobre 2009. L'evento e' stato organizzato in dal Ministero degli Esteri, dall’Istituto Affari Internazionali (IAI), insieme alla Commissione Europea e all’Unione Africana (UA). I lavori, aperti dal Ministro Franco Frattini, sono proseguiti con gli interventi di Romano Prodi, Presidente del comitato Onu/Ua sulle azioni di peacekeeping, e di rappresentanti delle istituzioni e UA, mentre la discussione e' stata moderata dal Vice-Presidente vicario dello IAI, Gianni Bonvicini. Il convegno al quale hanno collaborato la Compagnia di San Paolo, l’Istituto dell’UE per gli Studi sulla sicurezza (EU-Iss), Chatham House, e il Centro di ricerca e di formazione sullo Stato in Africa (Crea), costituisce il lancio e la prima fase di un progetto di ricerca, destinato a fornire un contributo, sia in termini di analisi accademica, sia di proposte operative, alla realizzazione di una collaborazione Unione-Europea-Africa, nel campo della pace e della sicurezza. Le ulteriori fasi del progetto prevedono due seminari di esperti. Il primo, agli inizi del prossimo anno, presso l’EUISS di Parigi, (finanziamento e supporto delle strutture africane di pace e sicurezza), e il secondo, a giugno/luglio 2010, presso Chatham House a Londra (processi decisionali negli Stati africani e nelle organizzazioni regionali). La terza fase, conclusiva, sarà centrata su un seminario da tenersi in Africa per presentare i risultati della ricerca. I lavori della Conferenza si sono articolati in tre sessioni dedicate rispettivamente all’attuazione della nuova strategia congiunta EU-Africa; alle missioni di peace keeping/peace building dell’Unione Europea e di quella Africana; al coordinamento dell’Unione Europea con gli altri donatori internazionali nel sostenere gli sforzi africani in tema di pace e sicurezza. A margine si e' svolto un seminario di esperti sui temi dello sminamento e del controllo delle armi leggere. L'Istituto Affari Internazionali ha fatto la seguente sintesi dei lavori:
Coinvolgere la società civile africana nella ricerca della sicurezza e nella ricostruzione ed evitare sovrapposizioni nelle cooperazioni euro-africana e fra Paesi africani: sono le direttrici del progetto di studio internazionale per la pace in Africa che prende l’avvio da un convegno svoltosi per tre giorni alla Farnesina. La ricerca, guidata dallo IAI, l’Istituto Affari Internazionali di Roma, durerà un anno: obiettivo è capire come rendere concrete la volontà d’azione per la sicurezza e la ricostruzione dell’Unione africana (Ua), e l’assunzione di responsabilità dell’Unione europea (Ue), nella consapevolezza che le difficoltà dell’impresa - logistiche, militari, finanziarie, sociali, politiche - richiedono un forte coordinamento e soprattutto una volontà di realizzazione degli impegni assunti dagli organismi internazionali, Onu, G8 e Ue. Al termine dei lavori, il vice-presidente vicario dello IAI, Gianni Bonvicini, organizzatore del convegno, ha indicato che la ricerca si articolerà lungo tre temi e si svilupperà in seminari a Parigi e a Londra, mentre le conclusioni saranno affidate a una conferenza in Africa. Le direttrici della ricerca guidata dallo IAI, così come delineate da Bonvicini, sono le seguenti:
1) Fare in modo che le diverse regioni economiche dell’Unione africana riducano ed evitino sovrapposizioni di competenze e competizioni, che potrebbero contrastare le prospettive di integrazione, specie sul fronte della sicurezza: la razionalizzazione è importante per fare decollare l’Ua;
2) Rendere più efficace il partenariato strategico fra Ue e Ua: le spese e l’azione per l’Africa dell’Unione europea sono note, mentre gli stanziamenti e gli interventi dei singoli Stati, pur sovente utili, sono meno noti. Anche qui si tratta di evitare sovrapposizioni e, soprattutto, di stornare il sospetto di un perseguimento degli interessi nazionali;
3) Organizzare e fare partecipare la società civile africana ai progetti di sicurezza e ricostruzione, perché le azioni non rispondano solo a priorità dei governi ma anche dei cittadini: senza sicurezza, anche gli aiuti allo sviluppo rischiano di finire in un buco nero di sprechi e corruzione. “Si tratta – sintetizza Bonvicini - di spiegare agli africani che cosa abbiamo fatto di buono nell’Unione europea e di renderli partecipi, facendo loro capire che la sicurezza può essere, anche in Africa, un motore dell’integrazione, come lo è stata in Europa”.Il convegno di Roma, organizzato dal Ministero degli Esteri italiano e dallo IAI, con la Commissione europea e l’Unione africana, era centrato sul tema “garantire la pace e la sicurezza in Africa” e mirava proprio a iniziare un approfondimento su come attuare la nuova partnership tra Europa e Africa e su come sviluppare in particolare la cooperazione nei settori dello sminamento e del disarmo. Al simposio hanno collaborato la Compagnia di San Paolo, l’Istituto dell’Ue per gli studi sulla sicurezza (EU Iss), Chatham House e il Centro di ricerca e di formazione sullo Stato in Africa (Crea). Nella sessione d’apertura, il ministro degli Esteri Franco Frattini aveva insistito sulla necessità di “un nuovo patto” tra Europa e Africa “per la sicurezza e la stabilità”. E Romano Prodi, presidente del comitato Onu/Ua sulle azioni di peacekeeping, aveva sottolineato l’esigenza di passare, nei rapporti con l’Africa, dalla fase del bilateralismo a quella del multilateralismo. Dopo il dibattito d’apertura sul dialogo politico e la cooperazione inter-istituzionale tra l’Ue e l’Ua, con Frattini, Prodi e rappresentanti di alto rango delle istituzioni Ue e Ua, i lavori sono proseguiti con sessioni e tavole rotonde su temi specifici, fino alle conclusioni odierne, affidate a Bonvicini. Sono ormai anni che l’Africa è al centro dell’attenzione della comunità internazionale: Onu, Ue, G8, agenzie specializzate come la Banca Mondiale e l’Fmi. E il convegno di Roma s’è svolto mentre in Vaticano è in corso il secondo Sinodo Africano, che Papa Benedetto XVI ha voluto centrato sul tema ‘La Chiesa in Africa al servizio della riconciliazione, della giustizia e della pace’.L’Italia ha dedicato sforzi e iniziative per sostenere un sempre maggiore ruolo dell’Unione europea in Africa, un impegno che è stato ribadito al G8 dell’Aquila e che vede il nostro paese capofila nelle azioni di training del personale africano sul modello dei nostri carabinieri Per aiutare l’Unione africana ad affrontare e risolvere i conflitti che continuano a svilupparsi (Guinea Bissau, Somalia, Darfur, ex Zaire, nonché il terrorismo e la pirateria marittima), l’Unione europea e l’organizzazione africana hanno varato nel 2007 a Lisbona un partenariato congiunto euro-africano: l’Ue dà un forte sostegno finanziario, di supporto logistico e di training alle forze di polizia e militari africane, affinché possano concretamente attuare il principio delle “soluzioni africane ai problemi africani”. E con l’entrata in vigore imminente del nuovo Trattato, l’Ue sarà meglio attrezzata per fare fronte a queste sue responsabilità.


Su questi importanti temi ho condiviso quanto scritto da Romano Prodi (che ho salutato in occasione del Convegno, come si vede dalla foto) in un recente articolo (L’Africa ha dignità politica. Il mondo lo riconosca,"Il Messaggero", 20 settembre 2009)
Si discute tanto e si fa tanto poco per l’Africa. Il grande “continente nero” continua infatti ad essere oggetto e non soggetto della politica mondiale. Quando nascono conflitti così tragici da contare i morti a centinaia di migliaia come in Ruanda, Sudan o Somalia l’opinione pubblica si commuove e per un po’ di tempo si mobilita. Poi tutto viene dimenticato, lasciando alle poche migliaia di soldati delle Nazioni Unite e dell’Unione Africana l’impari compito di gestire le sanguinose conseguenze di queste guerre, così come alle associazioni non governative e ai missionari di fare fronte alla tragedia quotidiana dei più diseredati. Intanto le vendette e gli assassini continuano senza sosta e senza nemmeno avere l’onore della cronaca. Ormai le guerre africane non sono guerre tra Stati, ma fra etnie, gruppi tribali o semplicemente per bande armate che si schierano ora con i governi ora contro i governi. È una storia infinita, che da decenni vede i conflitti diffondersi da Paese a Paese attraversando i confini artificiali tracciati in passato dalle potenze coloniali senza tener conto di etnie, religioni, caratteristiche geografiche e risorse naturali. In questo quadro ogni grande potenza adotta una sua “politica africana” costruendo rapporti bilaterali con i Paesi a lei legati: la Francia con i Paesi francofoni, la Gran Bretagna con quelli anglofoni, gli Stati Uniti soprattutto con i Paesi petroliferi del West Africa, mentre la Cina adotta una politica veramente continentale, curando relazioni intense con la quasi totalità dei Paesi africani, cioè cinquanta su cinquantatré. Il tutto in una logica prevalentemente bilaterale cioè da Paese a Paese. Il che significa, dal punto di vista economico, impedire ogni possibilità di sviluppo futuro di tutti i Paesi africani che, da soli, non raggiungeranno mai la forza e le economie di scala per costruire strutture capaci di competere con il resto del mondo. Nemmeno le più grandi nazioni del continente come l’Egitto, il Sud Africa e la Nigeria hanno la dimensione sufficiente per costruire una solida economia nazionale. Il commercio tra i Paesi dell’Africa è minimo (raggiunge solo il 10 % del loro commercio estero totale) perché mancano infrastrutture, accordi ed istituzioni che li leghino tra di loro. Dal punto di vista politico la rigorosa applicazione del concetto statuale ereditato dalle potenze coloniali impedisce di tener conto delle realtà più complesse, come le tribù, le etnie, le appartenenze religiose o i tradizionali rapporti o interessi consolidati nei secoli. Per far fronte a questo è nata l’Unione Africana che, raccogliendo tutti i 53 Stati africani (eccetto il Marocco) tenta con fatica di costruire una unità politica ed economica del continente. È un’unione imperfetta, embrionale e con poteri limitati ma è tutto ciò che il continente può preparare per organizzare il proprio futuro, anche per l’indubbia qualità di alcuni suoi leaders. Le grandi potenze sono però riluttanti a riconoscere ed aiutare questa realtà (solo la Commissione europea lo ha fatto) e non ritengono mai prioritaria la necessaria collaborazione tra i Paesi africani. Anche nel delicato settore del peace -keeping soprattutto la Francia e la Gran Bretagna sembrano fare resistenza a dotare l’Unione Africana dei mezzi e dell’assistenza necessaria perché possa progressivamente contribuire a costruire e a mantenere la pace nel continente. La motivazione di questa politica è che l’Unione Africana non è ancora pronta a svolgere questo compito. Ciò è certamente vero ma essa non sarà mai pronta se non riceve fiducia, mezzi, assistenza e aiuto per raggiungere questo obiettivo. Siamo insomma in un dilemma apparentemente senza soluzione: da un lato si deve constatare che l’Unione Africana non può, allo stato attuale, svolgere il compito di promuovere la convivenza e lo sviluppo degli Stati africani, mentre dall’altro, le tradizioni e gli interessi del passato non permettono che essa progredisca in questa direzione.In tale quadro il presidente Obama si presenta come la nuova speranza. Ha fatto discorsi splendidi sull’Africa sia al Cairo che in Ghana, ha scelto inviati speciali molto più saggi e flessibili dei precedenti come il generale Gration per il Sudan, ma non ha ancora preso alcuna decisione concreta nel segno del cambiamento. Non c’è ancora una nuova politica americana per l’Africa. Intanto la crisi economica morde l’Africa in modo ancora più violento di quanto non si prevedesse, esasperando ulteriormente le tensioni e la spinta verso l’immigrazione. Non si può continuare a biasimare la Cina per la sua eccessiva presenza in Africa (presenza che costituisce per molti aspetti un’opportunità) senza proporre, insieme alla stessa Cina, una nuova e diversa politica. Una politica che tenga conto delle diversità e degli interessi comuni, dei nuovi ruoli che debbono giocare le etnie, le tribù e le appartenenze religiose. Una politica che, nello stesso tempo, preveda un rafforzamento dei compiti e dei poteri dell’Unione Africana. Gli aiuti economici e l’assistenza umanitaria sono indispensabili, ma non bastano. Per costruire la pace e la collaborazione tra i diversi Paesi del continente africano occorrono nuovi strumenti politici.

Insieme nella differenza: si, possiamo!

Ricevo dalla Segreteria Religioni per la Pace - Italia il seguente comunicato relativo ad un'iniziativa importante.
Ci avviamo alla giornata del 27 ottobre, la data che il comitato promotore ha scelto per l’VIII ricorrenza annuale da dedicare al dialogo ecumenico cristiano-islamico. Perché questa data? Non pochi ricorderanno che il 27 ottobre 1986vi fu un evento di portata storica, non solo per le religioni, in una città simbolo della ricerca di pace come ASSISI. Per la prima volta rappresentanti delle religioni convocati da Giovanni Paolo II si presentarono fianco a fianco, in pari dignità, per esprimere al mondo l’impegno a lavorare per la conciliazione nella vasta e complessa famiglia umana, percorsa da inquietudini e rivalità alimentate anche da relazioni tra le religioni, soprattutto passate, ispirate alla competizione ed all’esclusione reciproca anche violenta. Quel giorno è stato posto un seme, preparato da molte esperienze profetiche precedenti, che ha dato già molti frutti e molti di più ne darà anche grazie al nostro lavoro congiunto. Gli amici del gruppo promotore della giornata di dialogo cristiano-islamico hanno voluto scegliere questa data proprio per il carattere emblematico della contrapposizione storica tra islam e cristianesimo che oggi vogliamo superare a maggior ragione per la novità del panorama multietnico che si va delineando anche in Italia. In passato la giornata veniva collocata alla fine dl Ramadan, che, come è noto, varia di anno in anno secondo il calendario lunare. Noi però vogliamo invitare le altre componenti del comitato promotore ad un ripensamento per il prossimo anno e prevedere giornate di dialogo specifico in occasione delle grandi festività delle varie tradizioni per condividere significati e messaggi spirituali universali impliciti in questi eventi che scandiscono il senso del trascorrere del tempo per i popoli e le persone in una molteplicità di linguaggi ma con un riferimento comune ad un “Oltre” non riducibile all’esperienza immediata. Nello stesso tempo vorremmo proporre di restituire alla data del 27 ottobre il carattere di incontro interreligioso a tutto campo, facendone la GIORNATA DELL’ACCOGLIENZA DELLA PLURALITA’ RELIGIOSA, naturalmente aperta anche alle convinzioni umanistiche non religiose. Proprio in questi giorni, ad esempio, è tornato di attualità il confronto sull’insegnamento della religione nelle scuole pubbliche. Sicuramente è compito di tutti preparare adeguatamente le condizioni concrete perché la religione non sia più relegata a materia marginale “tollerata”, ma diventi il luogo di ascolto delle domande esistenziali di senso che i giovani si vanno via via ponendo ed alle quali con delicatezza le varie tradizioni religiose ed umanistiche possono offrire il proprio patrimonio sapienziale e le proprie esperienze vissute, che non solo aiutino il travaglio giovanile a livello individuale ma preparino le nuove generazioni ad un’integrazione nel pluralismo nella società, responsabilità alla quale tutti siamo chiamati se vogliamo prevenire scenari conflittuali insostenibili e regressivi e procedere verso una sicurezza condivisa.

Religione e relazioni internazionali. Un inquadramento metodologico

Il fenomeno religioso suscita crescente interesse tra gli analisti di politica internazionale. Esso è oggi largamente considerato un elemento chiave per una corretta e più approfondita interpretazione degli eventi mondiali. Tale tendenza è in netto contrasto con l’atteggiamento assunto dai cultori della disciplina delle relazioni internazionali nel recente passato, in quanto la maggior parte degli analisti occidentali ha per lungo tempo di fatto escluso la religione dai parametri ritenuti fondamentali per lo studio della scena internazionale. Dopo l’11 settembre è sorto tuttavia un ricchissimo dibattito sul tema, anche al di là degli schemi strumentali dello «scontro di civiltà». La riflessione su questo tema risente però di tre condizionamenti: in primo luogo, della tendenza ad includere la religione nel novero dei fenomeni «culturali» in senso lato; in secondo luogo, dell’inclinazione a «comprimere» la domanda identitaria nel solo fenomeno religioso; infine, della tentazione di imboccare la scorciatoia di una (pericolosa) sovrapposizione tra la nozione di civiltà e quella di area geo-politica nella quale una determinata religione risulta professata dalla maggioranza della popolazione. Tuttavia, anche a prescindere da queste importanti caratterizzazioni, se molti sembrano essere d’accordo sul fatto che la religione costituisce uno dei fattori che maggiormente e in diversi modi influenzano le relazioni internazionali, non sempre è chiaro o univoco il giudizio sulle conseguenze ( e sul «segno») di tale influenza.
Sul versante negativo, si potrebbe menzionare la convinzione che i conflitti religiosi tendano ad estendersi oltre i confini nazionali e a trasformarsi spesso in fenomeni transnazionali di impervia soluzione. Tra gli aspetti positivi di tale complessa equazione si potrebbe annoverare il ruolo sempre più rilevante svolto dalla religione nella promozione di forme organizzate e istituzionalizzate di collaborazione internazionale, anche al fine di accrescere la «legittimità» di norme e pratiche della «società internazionale». Un modo per evitare di restare imbrigliati in un complesso intreccio di interpretazioni (apologetiche o liquidatorie) circa la funzione della religione nelle relazioni internazionali consiste anzitutto nel collocare la religione, dal punto di vista internazionalistico, tra i fattori strutturali e non tra quelli culturali dello scenario mondiale. Da questo punto di vista, la religione avrebbe la stessa consistenza strategica della questione della non-proliferazione nucleare. La teoria delle relazioni internazionali è giunta infatti oggi a livelli di sofisticata concettualizzazione della problematica nucleare, o di quella attinente alla liberalizzazione degli scambi mondiali, ma appare poco attrezzata (o poco incline) alla comprensione del fenomeno religioso come di una delle determinanti dell’ordine (o disordine) mondiale.

Integrare la religione nella teoria delle relazioni internazionali: vantaggi e pericoli.

La rinascita globale della religione rappresenta oggi un aspetto del processo - in atto a livello planetario - di definizione identitaria; un processo che vede coinvolti gli individui come le comunità, le istituzioni e più in generale le diverse strutture sociali. Attorno a tali identità culturali e religiose si verificano fenomeni di mobilitazione di massa e si generano situazioni di crisi; da qui nasce l’esigenza di nuove categorie analitiche anzitutto per «decifrare» tali sfide. La disciplina delle relazioni internazionali, in particolare, non può più oggi trascurare le virtù e le pratiche delle comunità di credenti radicate in una varietà di tradizioni religiose nel mondo. L’attuale scena mondiale è caratterizzata dall’emergere di una crisi strutturale delle relazioni internazionali, accompagnata da una crescente manifestazione di pluralismo culturale, come espressione di disparate forze centripete, territorialmente radicate, che intendono reagire all’omologazione nella tecnopolis globale. Si rende sempre piu’ evidente la dicotomia tra la globalizzazione in quanto tendenziale generalizzazione di un modello di sviluppo e le aspirazioni universalistiche, che trovano talvolta proprio nelle religioni un fattore di declinazione e di articolazione problematica. Tutto ciò rende necessaria la formulazione di una nuova e più adeguata teoria politica internazionale dell’«ordine mondiale», per quanto coniugato in temini pluralistici e di diffusione/diversificazione poliarchica di potenza, e dunque tutt’altro che monolitici. Un nuovo «concetto prospettico» dell’ordine mondiale dovrebbe ipotizzare una rinnovata struttura normativa per una società internazionale al contempo multiculturale e globalizzata, policentrica e universalizzante. Essa dovrebbe, inoltre, fornire gli strumenti teorici per analizzare con maggiore accuratezza il ruolo che la religione si sta con sempre maggiore forza ritagliando sullo scenario planetario. E’ evidente che riconoscere tale potenzialità alla religione implica un rovesciamento della prospettiva in base alla quale le diverse civiltà del mondo, e con esse le diverse fedi religiose, siano inevitabilmente destinate allo scontro.
Da questo punto di vista, la tesi che considera le religioni come un fattore endogeno di conflitto si divide in une filoni fondamentali: da una parte, la concezione «essenzialista e primordiale» della religione, ritenuta, assieme alle contrapposizioni etnico-culturali, come fonte di insanabili fratture; dall’altra, la concezione «modernizzante e strumentale», che ritiene la religione uno strumento malleabile a piacimento da parte del potere politico per ottenere consenso e mobilitazione di massa a scopi di accrescimento della propria capacita’ di influenza sia all’interno che sullo scenario internazionale. In questo secondo caso, la religione verrebbe a rafforzare i fenomeni securitari che investono in modo massiccio le forme politiche contemporanee. L’iniziativa «Alliance of Civilizations», lanciata nel 2005 dall’ONU, si fonda invece sulla convinzione che la diversità delle civiltà e delle culture sia una caratteristica fondamentale della società umana e una forza utile al progresso umano, poiché la natura stessa delle diverse civiltà le porterebbe alla reciproca interazione. La religione è indubbiamente da annoverare – in modo certamente non esclusivo - tra i caratteri fondamentali delle civiltà, che tuttavia non rappresentano affatto dei corpi monolitici senza differenziazioni interne e soprattutto non sono entità fissate nel tempo e nello spazio una volta per tutte. Da questo punto di vista, si potrebbe persino osservare che proprio le religioni, nonostante il loro bagaglio dogmatico, rappresentano oggi uno dei fattori più dinamici (e talvolta critici) di cambiamento e di mobilità all’interno delle grandi civilizzazioni. Non va sottaciuto, d’altra parte, il rischio, anch’esso presente, di sovrastimare il ruolo della religione a livello internazionale, enfatizzando eccessivamente l’influenza di approcci normativi tendenti al confronto tra questioni non-negoziabili e il pluralismo culturale, e ad assegnare improprie funzioni in senso lato politiche a leaders religiosi. Inoltre, focalizzare troppo l’attenzione sui principi religiosi fondamentali potrebbe far passare in secondo piano più complesse e articolate interpretazioni di fenomeni strutturali come la violenza politica, i conflitti armati e le vaste asimmetrie nella ripartizione delle risorse e delle capacità a livello globale.

Il ruolo della religione nella prevenzione dei conflitti e nella loro soluzione.

La religione può inoltre rappresentare un importante elemento di multi-track diplomacy. E’ necessario focalizzare l’attenzione sulla possibilità di applicare la tradizione moderna dell’«etica delle virtù» al mondo «pratico» della diplomazia e delle relazioni internazionali. In situazioni di conflitto e scontro, gli esponenti delle principali religioni mondiali possono fornire il «capitale sociale» in termini di networks sociali e di (ri)costruzione della fiducia reciproca, condizione essenziale per creare le condizioni della «pace sostenibile». Il processo di peace-building, inteso in modo dinamico, non-meccanicistico e generale, non inizia o finisce con il lancio o la fine di un’operazione di peace-keeping. In questa fase la religione può svolgere la limitata ma essenziale funzione di fattore di de-escalation del conflitto. Il peace-building è in principio una forma di risposta a cedimenti della struttura sociale e del contesto politico-istituzionale, ivi incluse le radicate contrapposizioni culturali che possono essere alla base di un conflitto. In particolare, il riconoscimento reciproco e la riconciliazione a livello nazionale e transnazionale rappresentano processi, spesso innescati da comunità o leaders religiosi, che possono contribuire ad individuare un terreno comune per far emergere un pluralismo più «profondo» (deeper pluralism), vale a dire stabile, costruttivo e non oppositivo, e un «cosmopolitismo radicato» (rooted cosmopolitanism), cioè «non apolide», ma anzi saldamente innestato nel tessuto sociale e culturale locale.
Per cogliere appieno le potenzialità del ruolo della religione in situazioni di «ricostruzione della pace» è necessaria una riconcettualizzazione dell’idea stessa di pace, che esplori la sua stretta connessione con le nozioni di giustizia e di riconciliazione. Questo processo di arricchimento semantico dell’idea di pace è alla base di iniziative «bottom-up» di prevenzione e risoluzione dei conflitti, o di ricostruzione post-conflittuale, capaci di ottenere risultati migliori di quelli raggiunti attraverso strategie «top-down», caratterizzate dal proceduralismo e da principi giuridici di stampo (solamente) liberale.

Attori religiosi non statali e transnazionali. Dinamiche e sfide.

Il ruolo degli attori transnazionali nelle relazioni internazionali contemporanee è materia ampiamente studiata ed analizzata. Non lo è altrettanto la funzione delle organizzazioni e dei leaders religiosi. Il quadro di riferimento generale dovrebbe essere costituito dall’emergere di una «società transnazionale» pluralista e complessa. Le interazioni transnazionali tra attori religiosi (sia di carattere personale che nella forma di scambio di idee e comunicazione di «pratiche») possono implicare varie espressioni di soft power. Nell’analizzare tali fenomeni si dovrebbe prendere atto che le unità centrali nella teoria delle relazioni internazionali, vale a dire gli Stati sovrani di tipo «westphaliano», non sono più le uniche strutture rilevanti per l’ordine internazionale, la stabilità, la cooperazione e la pace. Il crescente pluralismo degli attori internazionali dovrebbe indurre a tenere in maggior considerazione le potenzialità di nuove «comunità epistemiche globali» che si dedicano a migliorare la governance globale e in generale a rafforzare la cooperazione mondiale. In questa chiave di lettura, la religione dovrebbe cessare d’apparire necessariamente come una minaccia alla mutua comprensione tra le civiltà, per essere considerata invece come uno degli elementi centrali di una società civile transnazionale pluralistica e culturalmente differenziata. In questo contesto, dovrebbe essere dedicata speciale attenzione al significato simbolico di eventi come incontri di leaders religiosi mondiali globali e il relativo impatto sull’opinione pubblica internazionale. Tali incontri servono anche a costruire e consolidare nuove pratiche trasversali di solidarietà, di cooperazione e mobilitazione internazionale, di un «ethos» globale, anche come risposta alle nuove sfide ed alle incombenti minacce planetarie.

Il voto agli immigrati

La partecipazione politica, strumento d'integrazione
E' stato depositato il 19 ottobre alla Camera il un progetto di legge che ha come primi firmatari deputati di maggioranza e di opposizione per riconosce il diritto di voto per le elezioni amministrative ai cittadini extracomunitari regolarmente residenti in Italia da almeno cinque anni. Il voto agli immigrati più stabili - Primi firmatari della proposta di legge bipartisan sono Walter Veltroni (Pd), Flavia Perina (Pdl), Roberto Rao (Udc), Leoluca Orlando (IdV), Salvatore Vassallo (Pd). Nei prossimi giorni saranno raccolte nuove adesioni e il progetto sarà presentato pubblicamente in attesa di sollecitarne la calendarizzazione nei lavori della Camera: "L'approvazione del testo - si legge in una nota dei promotori - costituirebbe un primo passo concreto per promuovere l'integrazione di persone che in molti casi già partecipano pienamente alla vita civile delle comunità locali in cui risiedono, sono rispettose delle relative consuetudini, lavorano con dedizione, pagano le tasse, hanno figli che vanno a scuola con i bambini italiani, condividono con i cittadini italiani le stesse esigenze e gli stessi problemi connessi alla fruizione dei servizi pubblici". La presentazione congiunta del progetto da parte di esponenti di diversi gruppi dimostra, secondo i promotori, che "su questi temi è possibile, oltre che necessario, un confronto tra tutte le forze politiche nazionali". Sempre il 19 ottobre è stata depositata alla Camera la proposta di legge, a firma della deputata pd Luisa Bossa, per estendere i diritti degli stranieri regolarmente soggiornanti in Italia con carta di soggiorno anche ai loro figli maggiorenni. "La mia proposta di legge - dice Bossa - ha come obiettivo quello di sanare una odiosa discriminazione della nostra legislazione. I figli degli stranieri in possesso della Carta di soggiorno, al compimento del diciottesimo anno d'età, vedono ristretti i loro diritti e potrebbero scivolare nella clandestinità. Questi ragazzi - sottolinea Bossa - hanno passato gran parte della loro vita in Italia, hanno studiato qui, ma al compimento dei diciotto anni perdono alcuni diritti collegati allo status dei genitori" e se non studiano o non trovano un lavoro rischiano di diventare clandestini. Un'altra proposta in tema di immigrazione è stata presentata dal Partito radicale nel corso di un presidio con oltre tremila immigrati organizzato a Roma per chiedere una sanatoria per tutti gli immigrati che hanno un lavoro e che sono rimasti esclusi dalla regolarizzazione per il lavoro domestico: "Abbiamo proposto una legge - ha detto Emma Bonino, vicepresidente del Senato -, firmata sia dalla destra che dalla sinistra, per regolarizzare chiunque abbia un lavoro. Non è lo Stato che deve decidere se legalizzare chi fa un mestiere o no. L'impegno è che la legge venga calendarizzata. Non sarà facile, perchè questo è un periodo in cui non prevale la ragione ma altro, come i calcoli elettorali".

Parlare con il nemico? (parte sesta)

Il tema del "negoziato con il nemico" è affrontato in modo organico da Deepak Malhotra (cf. Deepak Malhotra, Without Conditions. The Case for Negotiating With the Enemy,“Foreign Affairs”, september/october 2009), che osserva come tutto il dibattito su questo punto rappresenti in realtà un ritorno alla diplomazia. Tuttavia la questione pone dilemmi difficili da risolvere, specie nei casi in cui il «nemico» si caratterizza per l’uso sistematico e talvolta arbitrario della violenza. Nella grande maggioranza dei casi, è proprio la persistenza della violenza il motivo principale del rifiuto dei governi ad intavolare trattative. Inoltre il ricorso alla violenza nei casi in cui i negoziati siano stati attivati produce il risultato di far deragliare (ed è spesso una strategia deliberata di gruppi estremisti) proprio il processo negoziale in quanto tale. D’altra parte, l’avvio di trattative in una situazione in cui non vi sia stata ancora una rinuncia alla violenza da parte di alcune espressioni organizzate della parte avversa può contribuire ad isolare gli estremisti o comunque a ridurre il consenso di cui eventualmente godono presso una popolazione. La questione delle pre-condizioni si pone in due modi diversi: in primo luogo, esse riflettono una scelta strategica, e cioè considerare improponibile qualunque contatto senza una previa rinuncia alla violenza; in secondo luogo, le pre-condizioni possono costituire condizioni anto-imposte, come quella che prescrive di non potersi sedere al tavolo con quanti abbiano le mani grondanti di sangue. Da una parte, se si rinuncia a porre pre-condizioni nei casi in cui esse sono utili e necessarie, si rischia di compromettere la stessa efficacia dei negoziati; dall’altra, se le pre-condizioni sono mal concepite essere possono addirittura cancellare ogni prospettiva di soluzione diplomatica. Due casi in cui sono state poste pre-condizioni, quella richiesta all’«Irish Republican Army» e consistente nella deposizione delle armi in modo previo rispetto ad ogni coinvolgimento dello Sinn Féin (ala politica dell’IRA) nel processo di pace nord-irlandese e quella che Israele ha imposto ad Hamas di cessare ogni attacco contro il territorio e la popolazione israeliana prima di cominciare il negoziato con l’Autorità Nazionale Palestinese, hanno condotto ad esiti opposti. Nel primo caso, la richiesta di pre-condizioni ha funzionato, nel secondo invece ha impedito lo stesso riavvio dei negoziati. Ciò si deve, secondo Malhotra, al fatto che porre pre-condizioni occorre sempre considerare due aspetti preliminari. In primo luogo, è necessario verificare se la controparte sia o meno in grado di soddisfare alle richieste. Spesso infatti le pre-condizioni sono enunciate senza riguardo dei condizionamenti che l’avversario deve a sua volta affrontare o senza valutare i limiti dell’effettiva influenza o potere della controparte ad esempio nei riguardi di altri attori presenti nel suo campo. In secondo luogo, occorre chiedersi ragionevolmente se l’accettazione da parte dell’avversario delle pre-condizioni non finisca per pregiudicare ed indebolire sin dall’inizio la sua stessa posizione negoziale. Le pre-condizioni hanno dunque senso se e solo se rispettano questi due criteri: l’avversario è in grado di osservarle (o farle osservare da altri); il loro rispetto non compromettere in modo strutturale la capacità negoziale dell’avversario. Questo implica, in pratica, che non dovrebbero mai essere poste pre-condizioni senza una chiara comprensione della prospettiva dell’avversario e delle restrizioni che l’avversario a sua volta subisce nel suo stesso campo. Nel caso della pre-condizione auto-imposta che si fonda sul convincimento che non ci si debba mai sedere al tavolo negoziale con quanti si siano resi responsabili di fatti di sangue, ed in particolare di azioni terroristiche, essa ha la virtù della purezza e della coerenza ideologica, ma non consegue alcun risultato pratico: se tutti intorno al tavolo hanno le mani pulite, i governi hanno poche possibilità di conseguire quanto invece in molte circostante essi giustamente ritengono essere la questione fondamentale, l’oggetto stesso del negoziato: la cessazione della violenza. La tendenza a moltiplicare le pre-condizioni, dettate spesso da motivi del tutto estranei alla logica interna del negoziato, ad esempio per tener conto del tasso di approvazione dell’opinione pubblica o per non fornire argomenti di possibile critica ad avversari politici, ha portato molti approcci negoziali ad una posizione di stallo o addirittura ha impedito il nascere di qualunque seria e credibile prospettiva negoziale. Questa situazione di blocco negoziale è divenuta talmente pervasiva e prigioniera di una logica circolare, che talvolta la semplice abolizione di qualunque pre-condizione costituisce una mossa diplomatica più prespicace di ogni altro impervio esercizio di affinamento del set delle precondizioni. Non a caso Barack Obama, già in campagna elettorale aveva fatto riferimento alla disponibilità (allora generica, precoce e alquanto temeraria) a negoziare col nemico senza alcuna pre-condizione.

Un Nobel meritato


Li ha anticipati tutti, Barack Obama, i commentatori più saputelli e gli epigoni di Solone nella politica internazionale. E lo ha detto lui per primo, di non essere sicuro di «aver meritato» il Premio Nobel per la pace che gli è stato conferito per il 2009. Ma la giuria ha precisato, nella sua motivazione, che il Premio era stato assegnato ad Obama non tanto per qualche successo conseguito per la pace (è ancora troppo presto), ma «per il suo straordinario sforzo per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». In effetti, si tratta, come è stato detto da più parti, di un «premio al metodo» e di un «premio al futuro». Obama sin dai primi passi della sua Presidenza ha cambiato profondamente il clima dei rapporti internazionali. Basti ricordare i messaggi al mondo islamico (ed in particolare il discorso del Cairo), la sua iniziativa a favore del disarmo nucleare («l’opzione zero») lanciata sulla piazza di Praga, il recente discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha sancito il pieno «ritorno» degli Stati Uniti nel multilateralismo. Molti sono i dossier sui quali Obama si è impegnato contemporaneamente: dalla questione del programma nucleare iraniano alla complessa situazione in Afghanistan, dal processo di pace israelo-palestinese al graduale ritiro del contingente militare americano in Iraq. Tanti fronti aperti, tutti assai impegnativi e cruciali per la pace nel mondo. Impensabile che vi potessero essere risultati immediati. Tante voci che rappresentano il cosiddetto pensiero “realista” delle relazioni internazionali hanno obiettato che la politica di apertura di Obama si sarebbe sinora rivelata improduttiva. Un interessante articolo dell’«Economist» ha definito la strategia di Obama come «teoria quantitativa della politica estera», per sottolineare proprio l’impressionante successione di iniziative e prese di posizione innovative e per certi versi rivoluzionarie assunte da Obama nell’arco di pochi mesi. Basti elencare quanto e' avvenuto solo nel settembre 2009: Obama ha presieduto un incontro, da lui fortemente voluto, con il Presidente dell’Autorita’ palestinese Abu Mazen e il Primo Ministro israeliano Netanyahu; ha delineato il suo programma per fronteggiare il cambiamento climatico alle Nazioni Unite; ha presieduto una sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dedicata alla non-proliferazione; ha guidato un Vertice del G-20 (che ha investito del ruolo di "forum privilegiato" per la trattazione dei temi della "governance" economica globale informale); ha rivisto profondamente le strategia di difesa missilistica in Europa e dell’Europa, che aveva creato una forte contrapposizione con la Russia; ha avviato contatti diretti a Ginevra con gli Iraniani sulla questione del programma nucleare di Teheran. Rimane il serio problema della stabilizzazione dell’Afghanistan, rispetto alla quale Obama deve compiere scelte difficili, soppesando il giusto equilibrio tra aspetti militari e aspetti di ricostruzione del tessuto sociale, civile ed economico del Paese, per conseguire un minimo di sicurezza per gli Afghani e coinvolgere tutti i Paesi della regione in un impegno per la cooperazione e la pace. Tutte questioni aperte, tutte questioni complesse, e tutte questioni irrisolte. L’approccio quantitativo non si tramuta automaticamente, si direbbe per mero accrescimento della massa delle problematiche affrontate, in cambiamento qualitativo. Ma la politica internazionale è fatta anche di idee, di valori, di scelte coraggiose. Ed Obama, da questo punto di vista, è stato decisamente un «game changer», un Presidente che ha impostato in modo radicalmente diverso e nuovo anzitutto l’approccio degli Stati Uniti al mondo rispetto agli otto anni di Bush. Spostando anche l’asse del dibattito internazionale dalla «paura» alla «speranza» (in questo caso la distinzione ha davvero un senso e si giustifica assai piu' di un titolo di un recente libro di successo). Il doppio mandato di George W. Bush ha lasciato ad Obama ed al mondo la tragica eredita’ di due guerre, di un profondo risentimento nel mondo arabo-islamico per una presunta guerra al terrorismo che non ha fatto altro che alimentare ulteriormente i suoi focolai ed i suoi centri di incubazione, di una reazione di auto-difesa dinanzi ad un’aggressiva retorica sulla diffusione della democrazia liberal-democratica di stampo occidentale e di un modello economico globalizzante di tipo liberista, di uno scontro di civilta’ divenuto, dopo gli scritti di Huntington, una profezia che si auto-avvera negli scenari dogmatici ed ideologici ancor prima che militari degli ambienti del Pentagono fortemente influenzati dai convincimenti “teo-con”. Ci vorra’ forse piu’ di un decennio per riparare i profondi guasti causati nel sistema internazionale da tali scelte dissennate e controproducenti. Dinanzi a questo scenario di desolazione e macerie fumanti, meglio avere oggi un Presidente prudente, da alcuni considerato persino esitante (lo hanno definito ad esempio «Presidente-Amleto» o il «Procrastinatore») piuttosto che un decisionista impulsivo e catastrofico come Bush. Dinanzi alla complessita’ e talvolta all’intrattabilita’ dei problemi mondiali, meglio soppesare tutti i fattori in gioco, piuttosto che precipitarsi a compiere scelte improvvisate ed improvvide, che potrebbero in seguito rivelarsi irreversibili. Nell’ambito delle relazioni internazionali, si ricorre troppo spesso all’uso del termine «strategia», evocato a sproposito per dare una patente di lungimiranza a scelte maturate (si fa per dire) sotto la pressione degli eventi o della stessa opinione pubblica, nazionale o mondiale. Meglio riservare questa definizione solo alle decisioni ponderate sul corso di azione piu’ appropriato da prendere nelle circostanze complesse, in una prospettiva non di breve termine ma di medio-lungo periodo. Altrimenti meglio sarebbe parlare di «tattica» oppure di vuote operazioni di «public diplomacy» destinate a ritorcersi contro gli stessi presunti «spin doctors» che le concepiscono. Alla Casa Bianca in questo momento non ci sono dei vaghi utopisti inconcludenti, ma dei realisti etici, cioe' persone che ritengono che le decisioni vadano responsabilmente meditate, anche lungamente, e non frettolosamente «fabbricate» (viene in mente la precisa espressione di Noam Chomsky, «manufacturing consent») al fine di una loro «vendita» sul mercato onnivoro e bulimico dei media. Ma c’è un punto che non tutti hanno colto, nella vicenda del Nobel ad Obama. E cioè che si tratta di un premio alla persona, più che alla funzione. Non è stato premiato il Presidente degli Stati Uniti, ma il politico Barack Obama. Un Presidente responsabile, infatti, ha dei limiti strutturali ed auto-imposti nella sua possibilità di agire, deve tener conto delle implicazioni a vari livelli delle sue iniziative: in una parola, deve essere necessariamente cauto e addottare un approccio incrementale. Si tratta di trovare il giusto equilibrio, per nulla facile da conseguire, tra l'etica della convinzione e l'etica della responsabilita'. Ma il politico Obama ha decisamente scelto senza esitazioni la strada impervia e coraggiosa della progettualità, dell’«utopia realistica»: in una parola, la strada del futuro. Pensando non alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni. Basterebbe questa motivazione per ritenere il Nobel alla pace più che meritato.

L'Europa dopo Lisbona

Dopo il positivo esito del referendum irlandese, si fanno piu' forti le aspettative per un ruolo reale dell'Europa nel mondo, anche se, ad una attenta analisi dei testi, non pare che il nuovo Trattato possa davvero imprimere una svolta all'integrazione. Il problema vero e' la volonta' politica, non certo le clausole di un trattato, per quanto avanzato e migliorativo esso possa sembrare o effettivamente essere. L'Europa e' entrata da diversi anni in una sorta di situazione di galleggiamento provocata da una progressiva erosione del disegno federativo a favore di un'ondata neo-sovranista, proprio nel momento in cui avvengono trasformazioni tettoniche negli assetti del potere mondiale. Non ci si puo' ad esempio allarmare per la progressiva perdita di peso dell'Europa nei consessi internazionali allargati rispetto a quelli ristretti (evoluzione del G8 in G20) se ci si ostina a sedere ai tavoli della governance internazionale come singoli Stati europei, senza progredire verso una rappresentanza unica (un'idea che mi pare si stia invece facendo strada nel settore della governance finanziaria, con l'ipotesi, peraltro non entusiasmante per il numero di esclusi che essa comporta, di un seggio unico per l'Eurogruppo, accanto a Stati Uniti, Cina e Giappone). In questo caso, il problema non sono i formati (che riflettono quello che gli Americani hanno definito nei termini di un global shift of power), ma l'incapacita' dell'Europa di guardare a se' stessa ed al mondo con occhi nuovi e non con i paraocchi degli orgogli e dei ristretti interessi (solo)nazionali. L'interesse nazionale di ogni Stato membro dell'Unione Europea e' creare un'Europa forte, in grado davvero di parlare nel mondo con una sola voce. Il resto e' inconcludente nostalgia di Bodin.
Un'Europa che sogna la Svizzera - di Giuliano Amato
Il sì irlandese è arrivato, grazie ad esso il Trattato di Lisbona è ora in dirittura d'arrivo e gli europeisti come me tirano un respiro di sollievo. Intanto non era un sì scontato. A chiederlo era il governo di Dublino più impopolare dalla nascita dell'Irlanda indipendente, c'erano e ci sono parecchi malumori nel paese per i previsti tagli di bilancio e per il piano di sostegno alle banche con i soldi dei contribuenti, il rischio del no era dunque elevato e la sua sconfitta rappresenta un bel successo dell'Europa. Inoltre, anche i timori per le manovre architettate dal presidente ceco Klaus a questo punto un po' si diradano. Si sa che Klaus vorrebbe tenere il Trattato bloccato davanti alla Corte costituzionale di Praga fino alle elezioni britanniche e si sa che, in tal caso, il previsto vincitore Cameron promuoverebbe un referendum in Gran Bretagna, che il Trattato lo ucciderebbe all'ultima curva. Tuttavia, con il sì irlandese alle spalle, si pensa che sia difficile per Klaus resistere alla pressione della stragrande maggioranza degli stati membri ed è ben possibile che già fra poche settimane, e quindi ben prima del nuovo governo britannico, la partita di Lisbona sia chiusa. Ammesso che davvero vada così, saremo in grado di avvalerci al meglio delle innovazioni introdotte dal Trattato e avremo dunque quell'Europa più democratica, più efficiente e più autorevole che esse intendono promuovere? Le aspettative di un'Europa migliore riguardano i temi più diversi, ma è indubbio che il terreno su cui il mondo intero l'aspetta al varco è quello della politica internazionale e quindi del suo ruolo in tempi di profondo cambiamento dei protagonisti e del rispettivo peso sulla scena mondiale. Noi europei siamo entrati nel nuovo secolo ancora abituati all'eurocentrismo del tempo che fu. E troviamo tuttora naturale che nei consessi internazionali buona parte dei seggi (ben la metà nel pur declinante G-8) siano occupati da noi. Forse ci illudiamo che questo moltiplichi la nostra forza, ma in realtà esprime e rende evidente a tutti la nostra debolezza. Agli occhi degli altri partecipanti, quale autorevolezza possono avere tanti europei che spesso litigano fra di loro, che messi insieme non sono frequentemente in grado di far valere una posizione dell'Europa di cui parlano e che - anche questo conta nel mondo - neppure sono in grado di dotarla di una rispettabile forza militare? Non a caso nelle analisi dedicate ai miglioramenti che sono necessari e che il Trattato di Lisbona potrebbe consentire la politica estera è generalmente in testa alla lista. Si conta sull'Alto rappresentante che assommerà nelle sue funzioni la politica estera dettata dal Consiglio e le relazioni esterne della Commissione, si conta sulla creazione del servizio diplomatico comune che dovrebbe definire strategie geopolitiche pensate finalmente in chiave europea e non di sommatoria delle strategie nazionali e si conta sul presidente non più semestrale, ma stabile del Consiglio europeo, che di quelle strategie, insieme all'Alto rappresentante, dovrebbe essere il portatore. Non sarò io a negare la potenziale importanza di tutto questo. E del resto, gli stessi governi ne hanno preso coscienza, tant'è che da tempo si occupano della attribuzione dei nuovi incarichi. Ma possiamo ritenere che essi condividano anche lo spirito unificante che le novità dovrebbero portare con sé e quindi il progressivo passaggio a una politica estera effettivamente integrata? Incontriamo qui il vero e proprio paradosso dell'Europa che abbiamo davanti. Da una parte il Trattato di Lisbona che si avvia forse al traguardo finale, carico ancora di tutte le aspettative che portarono alla sua stesura. Dall'altro la realtà politica degli stati membri, che sta contestualmente evolvendo in una direzione a dir poco divergente da tali aspettative. La trasformazione più preoccupante è quella che sta accadendo in Germania e cioè nel paese che dopo il nazismo e la seconda guerra mondiale aveva affidato la sua stessa ri-legittimazione alla cornice dell'integrazione europea e che di tale integrazione era stata ben più della Francia il vero motore. La Germania di Helmut Kohl, l'ultimo dei grandi leader europeisti tedeschi, sacrificò all'Europa la sua moneta, quel marco che ne simboleggiava la solidità e l'acquisita supremazia economica continentale. Oggi il paese è cambiato. Non è certo diventato antieuropeo, ma c'è in esso una nuova generazione che ragiona in termini di interesse nazionale, di salvaguardia delle competenze nazionali (e ancor più di quelle dei Laender) e che non sente più il bisogno di appoggiarsi sull'Europa. Può darsi che il nuovo alleato di governo di Angela Merkel, il partito liberale di Guido Westerwelle, introduca una qualche iniezione di maggiore europeismo. Certo si è che la forza trainante nella politica tedesca è passata ormai nelle mani del localismo dei Lander e questa è una forza che l'europeismo lo frena, non lo promuove. In una Europa privata del motore tedesco sopraggiungerà un Regno Unito a guida conservatrice. I conservatori di Cameron si sono nutriti in questi anni di euroscetticismo, hanno concorso anzi ad alimentarlo e si prefigurano come un accresciuto bastone fra le ruote. Non a caso, se potessero, cancellerebbero lo stesso Trattato di Lisbona. Tiriamo allora le somme e immaginiamo come sarà difficile trascinare lungo un'unica strada il carro di Tespi dei ventisette stati membri e come sarà invece facile che l'Europa allargata possa dare il peggio di sé, con la Grecia che pone veti alla Macedonia, la Slovenia che li pone alla Croazia, Cipro che manda in corto circuito ogni passaggio negoziale con la Turchia e ciascuno che fa i suoi affari con la Russia. Dopo il voto irlandese c'è già chi parla di Tony Blair come di un possibile Presidente del Consiglio europeo che sarebbe il nostro Obama nel mondo. Calma ragazzi. Il Trattato non conferisce poteri del genere e non si vede come, in questo contesto, un Presidente potrebbe conquistarseli sul campo. Sperare in un'Europa più integrata tuttavia è d'obbligo, così com'è d'obbligo battersi perché la speranza si avveri. Ma cresce l'inquietudine, così come è cresciuta in queste settimane la rappresentazione dell'Europa di domani sul modello della nuova Germania e quindi come una grande Svizzera, prospera e sicura, ma restia a preoccuparsi dei problemi del resto del mondo e a condividere la responsabilità della loro soluzione. Così ha scritto di recente Charles Grant e c'è chi nota, magari con amarezza, che un'Europa così sarebbe almeno meglio di un'Europa pentolone di politiche estere distinte e litigiose. Non avrei mai pensato che un futuro da grande e introversa Svizzera potesse diventare un'aspirazione europea. Di sicuro non fu in questa chiave che i nostri padri ci avevano additato il federalismo elvetico come ideale. (da Il Sole 24 ore, 4 ottobre 2009)