La sveglia che non suona


Una grande sveglia vecchio stile campegggia su una pagina intera del New York Times. “E’ ora” dice la discascalia. Ma di cosa? Il segreto è nel disegno sul quadrante della sveglia, dove appare la sagoma di Israele. E’ ora di passare dal processo di pace alla pace vera, è ora di passare dalle parole ai fatti, di realizzare davvero la soluzione dei “due popoli, due Stati” in Terrasanta. La pagina del New York Times è stata acquistata dalla nuova organizzazione “J Street” che si definisce pro-israeliana, ma anche pro-pace. La sveglia sul New York Times è apparsa proprio nei giorni della difficile visita del premier israeliano Netanyahu a Washington. Perchè difficile? Íl fatto è che, nell’annosa questione israelo-palestinese, si è aperto un nuovo fronte, per molti aspetti inedito: quello israelo-americano. Covava da tempo l’insoddisfazione dell’Amministrazione Obama per l’assenza di reali progressi verso un riavvio dei negoziati su basi solide. Ma l’annuncio, avvenuto proprio durante un’importante viaggio del Vice Presidente americano Biden in Israele, della costruzione di ulteriori 1600 alloggi a Ramat Shlomo, quartiere di Gerusalemme in zona teoricamente araba-palestinese, è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Le questioni che entrano in gioco sono due: da una parte, la prosecuzione, in varie forme, della politica degli insediamenti israeliani in Cisgiordania, cioè in un territorio che dovrebbe costituire un futuro (ma quanto probabile?) Stato palestinese; dall’altra, il grande tema dello «status» finale di Gerusalemme, che gran parte della società e della politica israeliana tende a considerare come «capitale indivisibile» dello stato di Israele – punto ribadito, pare, dallo stesso Netanyahu a Washington - soluzione che tuttavia appare poco compatibile con una prospettiva di pace stabile tra le due comunità che vi convivono, a meno che non si adotti la prospettiva (proco praticabile) di una «internazionalizzazione» della Città Santa. Insomma, ora Washington sembra voler dettare alcune condizioni: sospensione totale di nuove costruzioni israeliane in Cisgiordania e a Gerusalemme; gesti concreti per aumentare la fiducia reciproca (rilascio di prigionieri palestinesi, ritiro delle forze armate israeliane ancora presenti in Cisgiordania e rimozione dei blocchi, anche attorno a Gaza). Ma occorre fare i conti anche con le travagliate e complesse vicende politiche interne israeliane e con la stessa configurazione del governo Netanyahu. Bisogna mantenere carica la corda della sveglia di J Street; ma non suonerà tanto presto.

Le promesse non mantenute del disarmo nucleare

Il Trattato di Non-Proliferazione Nucleare (TNP), per quanto imperfetto e largamente insufficiente, resta l’unico uno strumento attualmente capace di limitare una corsa alle armi nucleari su scala mondiale. In primo luogo, esso “congela” una situazione, e conferisce la legittimità per il possesso di armi nucleari solo ai cinque membri permanenti del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite (USA, Russia, Cina Francia e Gran Bretagna). Al di là di questi stati, comunque, ve ne sono altri che si sono dotati di armi nucleari pur non facendo parte del Trattato, quali India, Pakistan, Israele. Tali Paesi hanno sviluppato programmi nucleari “di fatto” (nel caso di Israele, si tratta di un programma “non dichiarato”). Ciò rappresenta una delle debolezze strutturali del regime di non proliferazione. Un terzo caso è rappresentato da quei paesi che sono firmatari del Trattato, ma che sono tuttavia sospettati di portare avanti programmi nucleari a scopi militari, come l’Iran, mentre la Corea del Nord ha denunciato il trattato e ne e’ uscita nel 2003, essendo divenuta un paese dichiaratamente (ed illegalmente) nucleare. Infine, altri paesi, benché avessero avviato la ricerca, hanno successivamente rinunciato a sviluppare armi nucleari, come Brasile, Libia e Sud Africa. Il TNP si pone tre obiettivi principali. In primo luogo, esso mira al contenimento del numero di stati in possesso di armi nucleari. In secondo luogo, si propone la riduzione degli arsenali esistenti; ovvero il “disarmo” propriamente detto. In terzo luogo, promuove l’uso pacifico dell’energia nucleare. I primi due aspetti vengono comunemente e rispettivamente definiti come “non-proliferazione orizzontale” e “non-proliferazione verticale”. C’è da segnalare che il secondo obiettivo, quello del disarmo, è particolarmente importante per diversi motivi, oltre ad essere sicuramente il più delicato. Questo perché la politica del disarmo influisce direttamente sia sulla “legittimità” che sulla “credibilità” del sistema di non proliferazione. Da una parte, infatti la legittimità del sistema rischia di venir meno qualora le potenze nucleari ufficiali decidessero di “cristallizzare” una situazione di fatto, costituendo così una sorta di “club nucleare esclusivo”; dall’altra, proprio questo “congelamento” finirebbe per danneggiare anche la credibilità del sistema, in quanto gli stati “have-not” avvertirebbero un indiretto incentivo a costruirsi anch’essi un proprio arsenale nucleare. Si può quindi affermare che la non proliferazione nucleare non è credibile e non è legittima se non è strettamente connessa al disarmo. È interessante notare che, mentre la non proliferazione è regolata da un trattato internazionale universale, non esiste un analogo quadro giuridico internazionale capace di disciplinare in dettaglio le modalità di riduzione degli arsenali nucleari, e quindi di rendere effettivo il disarmo. Ciò si registra sia a livello multilaterale che bilaterale. A livello multilaterale, infatti, le misure al riguardo non sono andate oltre l’enunciazione di impegni vaghi; mentre a livello bilaterale (come ad esempio fra Russia e Stati Uniti), pur assumendo contorni decisamente più precisi, gli impegni assunti in sede politica non hanno fatto registrare progressi molto rilevanti. La quantità di armi nucleari, sebbene sia minore rispetto al picco dell’ultima fase della guerra fredda, resta tuttavia nell’ordine delle decine di migliaia, rendendo così la prospettiva del disarmo molto difficile. In sintesi, si può dire che l’impegno per il disarmo (proliferazione verticale) è rimasto nettamente modesto, rispetto alla limitazione della proliferazione orizzontale. Indubbiamente la questione del mancato disarmo è una di quelle che più hanno nuociuto all’autorità e alla legittimità del regime di non proliferazione nucleare. L’Art. 6 del TNP impegna le potenze atomiche “ufficiali” (USA, Russia, Francia, Gran Bretagna e Cina) ad adoperarsi per ridurre la corsa agli armamenti, in vista di un completo e verificabile disarmo nucleare. Come detto, quest’impegno è stato largamente disatteso. Non può essere infatti considerato un reale progresso in termini di disarmo la pur drastica riduzione di armi atomiche rispetto alla fase finale del confronto USA-URSS.Gli accordi russo-americani per la riduzione delle testate, infatti, non fanno parte di una vera strategia concordata di disarmo e sono dettati piuttosto obiettivi di distensione politica e di contenimento dei costi per le spese militari negli Stati Uniti e in Russia. Inoltre, elementi essenziali della non proliferazione sono il controllo e le verifiche da parte dell’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica, previste dal trattato, che tuttavia stentano ad essere applicate proprio nei casi “dubbi” (la Corea del Nord prima dell’ammissione del possesso di armi atomiche, l’Iran attuale). A che punto siamo?
1) Un elemento politico importante è stato il discorso pronunciato a Praga nell’aprile del 2009 dal Presidente degli Stati Uniti, Barak Obama. Egli ha reiterato l’obiettivo di un “mondo libero da armi nucleari”; rilanciando quella che è stata chiamata “l’opzione zero”; ovvero l’eliminazione delle armi nucleari dalla faccia della terra.
a) Spesso l’arma nucleare viene giudicata “buona” o “cattiva” a seconda di chi la possiede; c’è da riflettere, invece, se l’arma nucleare non sia sempre un fatto negativo, perché il messaggio di distruzione indiscriminata della popolazione civile, che essa implicitamente lancia e contiene in sé stessa, è inaccettabile. Durante la guerra fredda si parlava di potenziali “megamorti” (1 milione di morti = 1megamorto). Ammesso e non concesso che esistano armi “umane”, è chiaro che l’arma nucleare è strutturalmente “disumana”.
b) Un’obiezione che si fa rispetto all’ipotesi di opzione zero è che le armi nucleari esistono e sono state inventate, rendendo inconcepibile la possibilità di “disinventarle”. A questo argomento specioso si potrebbe replicare con il caso delle mine antiuomo, che sono state “politicamente” e “giuridicamente” disinventate attraverso una convenzione internazionale che le ha poste fuorilegge sul piano universale. La stessa linea argomentativa si applica, pur con modalità diverse, alle armi chimiche e batteriologiche.
c) Un altro punto è il costo-opportunità dell’arma nucleare, che induce ingenti investimenti finanziari, tecnologici, di ricerca e, nel caso di test nucleari, anche di “territorio”. Un modo di calcolare il vero costo di un’arma nucleare è considerare tutti gli impieghi alternativi e produttivi delle risorse che si utilizzano. Conseguentemente, uno dei problemi di “gestione” del disarmo, considerato come un processo e non come una misura “istantanea”, è la successione di almeno tre fasi: 1)cessazione della fabbricazione di nuove armi; 2)eliminazione di quelle esistenti (riduzione); 3)eventuale riconversione degli impianti utilizzati e delle risorse impiegate.
2) Tra poche settimane (tra il 4 e il 15 maggior 2010) si terrà a New York un’importante conferenza internazionale di riesame del Trattato di Non-Proliferazione nucleare. Essa approfondirà i già menzionati tre pilastri del trattato: non proliferazione, disarmo e uso pacifico dell’energia nucleare. Inoltre il Presidente Obama ha indetto per il 12 e 13 aprile 2010 a Washington un Vertice mondiale sulla sicurezza nucleare (i rischi legati alla connessione tra terrorismo internazionale e transnazionale e armi nucleari).
Al di là degli aspetti internazionali, diplomatici e di sicurezza, un punto fondamentale riguarda il “perché” dell’arma nucleare. L’umanità ha da sempre cercato l’arma assoluta, quella definitiva, che fosse talmente potente da renderne impensabile l’uso. Ma l’arma terrorizzante al massimo è anche la più alta aspirazione del terrorismo. Paradossalmente, la “ragione” più citata dell’arma nucleare è quella di rendere impossibile la guerra grazie al terrore; non a caso durante la guerra fredda si parlava di “equilibrio del terrore”. Questo concetto però rappresenta una contraddizione in termini, in quanto il terrore non può mai generare “equilibrio” o stabilità, perché la tensione che ne scaturisce impedisce agli stati, così come alle persone, di collaborare in modo costruttivo, continuativo e su basi solide di reciproca assicurazione. Il terrore nucleare inibisce la politica, condannandoci ad un eterno presente di paura ed incertezza sul futuro. La vera misura anti-proliferazione nucleare, più che su ogni trattato specifico e in teoria vincolante, si basa, in definitiva, sulla fiducia: un sistema internazionale dove ogni Paese ed ogni popolo si senta e sia davvero sicuro. C’è dunque un legame strettissimo ed ineludibile tra non-proliferazione nucleare ed un nuovo ordine mondiale. Le armi nucleari, infine, non sono le uniche armi di distruzione di massa. Che dire infatti delle “distruzioni di massa” dovute alla mal nutrizione, alla desertificazione, al genocidio, alle pulizie etniche, all’AIDS in Africa, alle altre malattie endemiche?

Dialogo tra religioni monoteiste

CAIRO, Egypt, MARCH 1, 2010 (Zenit.org).- Muslim and Catholic representatives have joined their voices in rejecting the manipulation of religion to justify political interests, violence or discrimination.
A historic declaration signed by the president of the Pontifical Council for Interreligious Dialogue and a Sunni leader from the Al-Azhar university marked the conclusion of an annual meeting held in Cairo. The meetings gather members of the pontifical council and the Al-Azhar permanent committee for dialogue among the monotheistic religions. Sheik Muhammad Abd al-Aziz Wasil and Cardinal Jean-Louis Tauran were the co-signers. With the help of documents presented by Monsignor Bernard Munono Muyembe and by professor Abdallah Mabrouk al-Naggar, the committee analyzed the topic "The Phenomenon of Confessional Violence: To Understand the Phenomenon and Its Causes and Propose Solutions, Making Particular Reference to the Role of Religions in This Connection." At the end of the meeting, the participants agreed to make these recommendations: "to pay greater attention to the manipulation of religion with political objectives or of another character that can be a source of violence; to avoid discrimination in virtue of religious identity; to open the heart to mutual forgiveness and reconciliation, necessary conditions for a peaceful and fruitful coexistence." Muslims and Catholics urged the public "to recognize similarities and respect differences as requisite of a culture of dialogue, based on common values; to affirm that both sides commit themselves again in the recognition and respect of the dignity of every human being, without distinction of ethnic or religious membership; to oppose religious discrimination in all fields -- just laws should guarantee a fundamental equality; to promote ideals of justice, solidarity and cooperation to guarantee a peaceful and prosperous life for all." The bilateral meeting ended with the commitment to "oppose with determination any act that tends to create tensions, divisions and conflicts in societies; to promote a culture of mutual respect and dialogue through education in the family, in schools, in churches and in mosques, spreading a spirit of fraternity between all persons and the community; to oppose attacks against religions by means of social communication." Finally Catholics and Muslims called for "ensuring that the preaching of religious leaders, as well as school teaching and textbooks, not emit statements or make references to historical events that, directly or indirectly, can arouse a violent attitude among followers of the different religions." (Jesús Colina, "Zenit")

Mediterraneo: vedi alla voce futuro

Il Mediterraneo, inteso come unità di analisi, necessita di una visione maggiormente “prospettica” e multidisciplinare rispetto a quella finora adottata. Una visione capace d’integrare le variabili politico-diplomatiche con quelle economiche e geo-economiche. E’ importante riuscire ad andare oltre la prospettiva “sinfonica”, sicuramente affascinante sotto molti aspetti, offertaci da modelli di analisi storiografica come la “Scuola delle Annales”, o come i grandi affreschi di un Fernand Braudel o di un Henri Pirenne. Ed è altrettanto utile riconsiderare anche i nuovi approcci, pur riconoscendone gli indubbi meriti, basati sull’idea del «pensiero meridiano», di cui scrive Franco Cassano. La vicenda del Mediterraneo ha bisogno di passare da una dimensione storico-rievocativa o culturale e letteraria ad una «coniugazione al futuro» e ad una ristrutturazione progettuale. Inoltre, essa deve superare i confinamenti regionalistici ed inserirsi strutturalmente in un quadro geopolitico globale che includa l’Europa, l’Africa e l’Asia. Il Mediterraneo di oggi, infatti, non è da identificarsi con il Mediterraneo geografico, bensì con il Mediterraneo «ampliato», che comprende almeno una «terza sponda»: quella del Golfo Persico. Il grande merito dell’iniziativa di Sarkozy (così come re-interpretata e ri-focalizzata dall’Europa) è di aver riproposto il Mediterraneo in termini di progetto politico. Non vi era infatti alcuna necessità di dotarsi di un ulteriore impianto istituzionale, considerato il numero, già sovrabbondante quanto scarsamente produttivo, di organizzazioni internazionali e consessi regionali o specializzati che operano nel Mediterraneo. A questo proposito, vorrei ricordare che il processo di Barcellona, nonostante i suoi limiti, ha avuto il merito di far sedere allo stesso tavolo Israeliani e Palestinesi. Ma, al di là di questo pur rilevante elemento politico, non è certo un caso che si sia avvertito il bisogno di un nuovo slancio al tentativo di avvicinare le sponde euro-mediterranee. Un bilancio di questo nuovo impegno è prematuro; il “blocco politico” dovuto allo stallo dei negoziati israelo-palestinesi ha infatti enormemente condizionato e oggettivamente frenato l’iniziativa. Se, come menzionato poc’anzi, non si avverte il bisogno di ulteriori istituzioni, sicuramente la creazione di due “cornici politiche” potrebbe rivelarsi utile ai fini del processo. Tali cornici dovrebbero riguardare nello specifico: a) una banca euro-mediterranea, che si proponga come strumento finanziario capace di fare da volano ad investimenti nelle energie alternative, in progetti ambientali ed in iniziative di stampo economico, tecnologico, culturale, artistico, che si ispirino alla «Alleanza delle Civiltà» (anche se alcuni autorevoli commentatori hanno giustamente osservato che basterebbe anche solo una sana «Alleanza della civiltà», intesa come modalità di relazione civile e costruttiva tra le diversità; b) un’iniziativa nell’ambito della sicurezza che si sviluppi secondo il modello adottato dalla conferenza «Wehrkunde» di Monaco, ma basata sul concetto di soft security, prestando particolare attenzione a nuove sfide quali la criminalità transnazionale, lo sfruttamento dell’immigrazione illegale, il traffico di stupefacenti, il traffico di esseri umani, la prevenzione delle catastrofi, ecc. Un approccio olistico ed «orizzontale» al tema della sicurezza, dunque; sempre più necessario ed urgente anche alla luce dei cambiamenti climatici, che nel Mediterraneo rischiano di assumere, tra le altre conseguenze, le caratteristiche di nuove minacce alla sicurezza regionale (e globale) in senso lato e non tanto e non solo militare, ad esempio a causa dei processi di desertificazione, dei movimenti massicci di popolazione e conseguenti pressioni sulle frontiere, delle contese per l’utilizzo delle risorse idriche. In una parola, occorre riannodare secondo nuovi raccordi quelle «funi sommerse» di cui ci parla Predrag Matvejevic.

World Political Forum


Il World Political Forum nasce da un’idea originale del Premio Nobel per la Pace Mikhail Gorbaciov, con una vocazione specifica: promuovere contatti fra politici, scienziati, personalità di alto profilo della vita culturale e religiosa di differenti continenti, fedi, lingue e culture, con il fine di analizzare la questione dell’interdipendenza, ma soprattutto con l’intenzione di suggerire soluzioni per i problemi di governance, della globalizzazione e per i problemi cruciali che affliggono l’umanità oggi. L’attuale ordine internazionale è diventato confuso ed instabile. Le istituzioni politiche ed economiche sovra-nazionali sono oppresse da conflitti e disaccordi fra i loro stessi membri. La cooperazione fra stati ed il nuovo ordine mondiale in cui si sperava alla fine della Guerra Fredda non si sono realizzati. Al contrario, gli affari internazionali sono oggi caratterizzati dal disordine mondiale, ed i recenti eventi hanno esacerbato le fondamentali differenze di opinione da un capo all’altro del globo. Il World Political Forum si propone di esaminare il miglior modo di organizzare il coordinamento delle istituzioni internazionali e di individuare i modelli auspicabili e possibili per un ordine mondiale futuro, in maniera da ridurre gli squilibri e le differenze e di ricercare un nuovo spazio politico dove le civiltà possano incontrarsi e trovare un accordo per gestire il disordine internazionale. Solo un risoluto e ben concertato sforzo multilaterale e trasversale degli attori internazionali può prevenire questa spirale di disordine. Il World Political Forum vuole diventare un punto d’incontro di culture, religioni e leaders, un forum aperto all’intero mondo, che, attraverso l’analisi e la discussione, possa dare indicazioni e fornire nuove soluzioni ai problemi globali e sforzarsi per il raggiungimento di una Nuova Civiltà Mondiale e di una struttura per un ordine internazionale democratico. Ho partecipato alla sessione del 2009 del World Political Forum, dal titolo "Twenty Years after: The World(s) beyond the Wall" (9-10 October 2009) a Bosco Marengo in Piemonte. Ecco il testo del mio intervento:
One merit of the present crisis, if there is any, is that it has finally put an end to the Post-Cold War Triumphalism/”End of History” discourse. The Cold war, like any other conflict, was a complex set of interconnections and power relationships, which served many functions. It was not ”a long peace”, as it is sometimes described. The list of opportunities squandered during the Cold War is long. In almost every part of the globe, in almost every human activity, we can trace the negative impact of that forty-five-year conflict. Of course, we could never praise enough the end of a bipolar confrontation that marked a historical turn in the way we think of international relations. The last century was one of big contradictions: it witnessed the parossistic transformation of war in terms of extermination and at the same time the slow but successful “re-invention of peace” (from the League of Nations to the United Nations, to the European Union as a new brand of economic and political integration). On the one hand, we had the immense tragedy of a sort of global civil war with 60 million dead, two thirds of whom were civilians; on the other hand, never were more true the following words written in the 18th century by Sir Henry Maine: ”War appears to be as old as mankind, but peace is a modern invention”. But the end of the Cold war did not herald a new Golden Age at all. Fukuyama hoped that ”the idea of a universal and directional history leading up to a liberal democracy may become plausible to people, and that the relativist impasse of modern thought will in a sense solve itself”. This hope has not been confirmed by recent events. At least the idea of a universal history on a global scale has not been complemented with a clear sense of direction. However, it would be a mistake to go in the opposite direction, embracing the international narrative of the New Century Deception (the ”Clash of Civilizations” discourse). There is no doubt that this is a difficult era, in which so-called ”hard universalisms” (”forcibly universalized particularisms”) try to impose a single agenda, formulated in a monolithic and monological way according to the value system of one culture and to the exclusion of others. What we need instead is to develop a strong sense of mutual commitment and shared comprehensive responsibility without insisting upon uniformity of values and ideals. It is a new kind of universalism, one we could call “universalism of differences”, or “pluralistic universalism”, a universalism “through dialogue with diversity”. Dominique Moïsi has written that what shapes the world today are above all emotions. The three most important emotions of the present international situation are fear, hope, and humiliation. These three feelings rest on one element: confidence. “Fear is the absence of confidence. Hope, by contrast, is an expression of confidence. Humiliation is the injured confidence of those who have lost hope in the future; your lack of hope is the fault of others, who have treated you badly in the past.” In this analysis, Asia appears to be the continent of hope, the West the region of fear and the broader Middle East the place where humiliation took place, creating resentment and frustration.I think that this representation of today’s world is useful only for academic purposes, since the reality is much more complicated and the above-mentioned emotions are all present at the same time in every region and culture. In our world it has become clear that the old division between inside and outside has virtually vanished. This does not mean that the state is no more the fundamental actor in the international relations, and the prophecy about the end of the nation-state has not proved true. But it neither means that what awaits us is a new version of the classical balance of power, a confrontation between great “liberal” powers and great “authoritarian” powers. The international system is not something that we find in nature; it is rather a social and political construction. More than the inside-out argument in the Kantian style, that is, the “theory of democratic peace” (according to which democratic states do not wage war on each other) it seems to me that it is the international system’s features that increasingly influence the way governments act (outside-in). This is particularly true for the European Union. The EU for two decades after the end of the Cold War developed a new kind of power, very different from hard power, soft power or even smart power: it is “transformative power” that induced voluntary changes in the political and economic systems of candidate countries, bringing about the biggest and deepest stabilization strategy on the continent in many decades. At the same time, the European Union is about enhancing rather than destroying national identities. Europe can be seen either as a mythological “Beast with Twenty-Seven Heads”, or as a network of powers and levels of governance: something very difficult to run or to tame, but it is also a laboratory for reinventing democracy. On a larger scale, there is a way of looking at the G20 or G-something as a sort of comprehensive and inclusive global coalition for fostering recovery and development, and also for making governments actually implement their official statements. What I want to stress is the fact that in an open system of international and trans-national actors there is a level of cross-fertilization and interaction between different economic and political frameworks. For instance, if we look at the economic policies in the world, we discover that the so-called European social model of the “Market Social Economy” needs more liberalization and an injection of competitiveness taken from the Anglo-Saxon economic system, whereas American liberalism is now actively including some elements of the European welfare system. Overall, the idea of sustainable development is becoming a central feature of any economic program. It is not that there is a lack of trust in a particular economic and political model; it is the idea itself of a “model” that is seen as a sort of hegemonic attempt to shape or re-shape the world. This is not to be regarded as the revenge of post-modernism in political science; it is rather the result of the failures both of the Proletarian State and the Welfare State.But the answer will hardly be found in the idea of a Minimal State. One attempt to find a middle ground between Big Government and the anarcho-capitalism (as the economic form of the libertarian ethics), is the proposal of the Hollow State: a metaphor for the increasing use of third parties, often nonprofits, to deliver social services and generally act in the name of the state. From “l’Etat providence” to multiple providers? The normative question there is what sort of effect does government contracting with third-party providers have on the perceived legitimacy of the state? The current crisis shows that after all it is very difficult to dump once and for all any possibility of a direct intervention of the State in the economy. In a situation of crisis, the State is the ultimate decision maker, no longer the market. Capitalism under stress has to take on board some elements of the state-based political economy. In a word, economy becomes again, a least for emergency purposes and causes, a political activity. But we should be clear on that point. A more proactive role of the state does not imply that Governments should actually run the economy. Rather, Governments should act as facilitators, enablers and regulators with regard to the economic system; their core role should be that of setting political priorities and encouraging solutions rather than direct management.As the international crisis showed us, governments cannot do everything by themselves. This is a valid statement both for internal policies (the right mix to be found between public institutions, private sector, non profit organizations) and the international political and economic system. This is the ultimate meaning of “responsible sovereignty” at a domestic and international level. It allows participation, inclusion, care. The real “mix” that we need in global governance is a synergic and smart combination of markets, governments and communities.

L'interprete internazionale

Esce oggi, venerdì 5 marzo, il secondo numero del mensile di politica estera "L’interprete internazionale", in omaggio all’interno del Riformista. Le elezioni in Iraq di domenica 7 marzo l’argomento di punta del secondo numero con il dettaglio di tutte le forze elettorali in campo, il punto sul fattore sicurezza e la questione energetica nel Paese a sette anni da Iraqi Freedom. Con gli editoriali di Toni Capuozzo (TG5), Guy Dinmore (Financial Times), Eric Jozsef (Liberation) e del prof. Vittorio Emanuele Parsi, da segnalare l’inchiesta di Stefano Polli sulla penetrazione di Al Quaeda in Africa, il forum organizzato in collaborazione con Radio Radicale sui 31 anni della Repubblica Islamica d’Iran (a cui hanno partecipato Luciano Violante e il sottosegretario agli Esteri Alfredo Mantica) e l’analisi sull’attuale guerra di potere in Iran dell’inviato speciale del Sole 24Ore Alberto Negri. Oltre al saggio sul welfare in Cina di Romeo Orlandi e a quello sulle difficoltà dell’Amministrazione Obama in Pakistan dell’IISS, segnalo, tra gli altri, gli articoli di Massimo Bordin e Duilio Giammaria. "L’interprete internazionale" è "corporate member" dell’International Institute for Strategic Studies di Londra e ha una collaborazione editoriale con la Fondazione Italianieuropei.
Sul numero del 5 marzo è pubblicato un mio articolo:

La diplomazia flessibile
di Pasquale Ferrara
Non chiamatela riforma, ma adeguamento dinamico. Al di là del politically correct, è davvero questo il senso vero dei «lavori in corso» avviati nei Ministeri degli Esteri ai quattro angoli del globo. Se si dovessero riassumere in due parole-chiave le sfide poste alle istituzioni preposte alla politica estera, dovremmo dire che le strutture rigide non riescono più a gestire i crescenti ed interconnessi flussi di informazioni, risorse, finanze, persone. Storicamente, i Ministeri degli esteri sono abituati a ragionare per lo più in termini di «hardware» (potere economico e militare) piuttosto che di «software» (comunicazione, informazione, connessione). Detto in altri termini, oggi si tratta di trovare la miscela migliore tre due forze della globalizzazione, da un lato, e della geopolitica dall’altro. La globalizzazione è la proiezione mondiale senza un focus territoriale, la geopolitica è invece espansione ed influenza su base territoriale. Vi sono almeno tre fattori che rendono necessario ed urgente svolgere un’approfondita riflessione sull’evoluzione del ruolo dei Ministeri degli esteri. In primo luogo, i nuovi assetti geopolitici e il loro impatto sui fori della governance globale. Il G20, riconosciuto a Pittsburgh come il principale foro per la cooperazione economica internazionale, è destinato a catalizzare il dibattito sui temi globali quali il cambiamento climatico, lo sviluppo, la sicurezza alimentare: tutte questioni «non tradizionali» di politica estera. E dunque si pone ad esempio il problema della partecipazione delle strutture dei Ministeri degli esteri alla preparazione del G20, che nasce invece principalmente come foro economico-finanziario. Proprio la crisi finanziaria mondiale ha messo in luce la necessità di una guida politica (anche nel senso di politica internazionale), rendendo evidenti i limiti di un approccio solamente tecnico alle tematiche globali. In secondo luogo, occorre adeguarsi all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona, con una nuova dimensione esterna dell’Unione Europea, e soprattutto con la creazione di un Servizio Europeo di Azione Esterna (in pratica, un corpo diplomatico europeo comune). In terzo luogo, vi è la crescente internazionalizzazione dei cosiddetti «ministeri tecnici», che svolgono in modo sempre più frequente ed incisivo per proprio conto attività di rilievo internazionale. Negli Stati Uniti, presso il Dipartimento di Stato, è in corso la Quadrennial Diplomacy and Development Review (QDDR), un modo di riformulare anche la stessa organizzazione della diplomazia americana sulla centralità della partnership internazionale per lo sviluppo economico in senso ampio, anche per rispondere in modo strutturale all’insicurezza sistemica sulla scena mondiale. Come si sono attrezzati, in particolare, i Ministeri degli Esteri europei? La tendenza generale va nella direzione della centralità dell’approccio tematico, senza ovviamente cancellare la dimensione geografica. Ma l’esigenza fondamentale è quella di inserire fattori di coerenza sistemica nella stessa concezione della politica estera, che non possono che essere forniti da una visione d’insieme piuttosto che da una strutturazione troppo segmentata o specialistica. E’ un po’ come se dalle nebbie medievali riemergesse con fattezze post-moderne l’idea (epistemica) di universitas rispetto a quella (territoriale) di respublica nazionale. L’Ecumene piuttosto che il Nomos der Erde di Schmitt. Tra gli Europei, il Foreign Office si è organizzato attorno a sei direzioni generali tematiche, le più importanti delle quali sono «Europa e Globalizzazione», «Difesa e intelligence»; «Politica» (internazionale). La Francia ha adottato un modello analogo; il Quai d’Orsay ha creato, tra le altre articolazioni, una Direzione Generale per gli Affari Politici e di sicurezza (che comprende le direzioni «geografiche») e una Direzione Generale per gli Affari Globali (con competenze «orizzontali»). In Germania il processo di trasformazione («change process») è appena iniziato, ma le problematiche da affrontare sono sostazialmente simili a quelle dei principali partners europei. E l’Italia? Anche da noi è in atto un processo di ristrutturazione. Il Consiglio dei Ministri ha approvato in prima lettura lo scorso 17 dicembre un progetto di DPR sulla riorganizzazione della Farnesina. Le scelte operate sono sostanzialmente in linea con quelle dei principali Paesi europei. Oltre a due direzioni «tecniche» (per le risorse e l’innovazione e per l’amministrazione, l’informatica e le comunicazioni) e a due direzioni consolidate (italiani all’estero e politiche migratorie; cooperazione allo sviluppo) sono quattro le direzioni generali caratterizzanti del cambiamento: affari politici e di sicurezza, mondializzazione e questioni globali, Unione Europea, promozione del sistema Paese. Le competenze geografiche (esclusive e non ripartite) sono state inserite all’interno della direzione per gli affari politici e di quella per la mondializzazione e le questioni globali. Prima del 2000, nella struttura della Farnesina (organizzata per materie) vi erano ripetizioni, sovrapposizioni e conseguenti competizioni tra gli uffici geografici. Poi intervenne la riforma «pan-geografica» del 2000, che rappresentò un’innovazione importante. Il cambiamento attuale pare voler trarre lezioni dai due assetti precedenti. E’ la soluzione perfetta? Il mondo contemponeo è talmente complesso che appare una mera chimera volerlo inseguire con opzioni «definitive». La diplomazia del futuro sarà di tipo flessibile e creativo; se i Ministeri degli esteri ne assicurano le condizioni d’esercizio, è già un ottimo risultato.

L'Europa presa sul serio

Talvolta le migliori rappresentazioni del nostro presente ci vengono da passato. Pensando alle condizioni di diversi Paesi europei, giunti sull’orlo della bancarotta, e della blanda “risposta” dei loro partner dell’Unione Europea, viene alla mente una bella immagine dello scrittore latino Lucrezio. Che descrive la sensazione di sollievo o di scampato pericolo di uno “spettatore” che dalla terraferma assiste al naufragio di una nave in lontananza. Il problema e’ che nel mondo complesso di oggi non ci sono piu’ “rive” sicure per tutti. Cio’ e’ vero anzitutto per i Paesi che aderiscono all’Euro, legati da un “patto di stabilita’ e di crescita” che comincia a scricchiolare sotto i colpi di una crisi che sembra aver investito l’Europa in ritardo rispetto agli Stati Uniti. Il fatto che un Paese come la Grecia abbia dovuto pensare di rivolgersi ai Cinesi per piazzare i proprio titoli di stato o che si sia prospettato persino un intervento del Fondo Monetario internazionale per effettuare il salvataggio di Paesi europei come Spagna e Portogallo la dice lunga sullo stato della solidarieta’ tra i Paesi dell’Unione. Che in una situazione di crisi ognuno cerchi di tenere fermo il timone delle proprie finanze e’ un riflesso naturale; ma che debbano essere cercati “salvatori” esterni all’Unione Europea non e’ accettabile, se si pensa che abbiamo scritto nei Trattati che dobbiamo puntare ad un’ ”Unione sempre piu’ stretta”. Da questo difficile momento europeo credo che discendano due insegnamenti. In primo luogo, appare in tutta la sua drammaticita’ la mancanza di un’autentica politica economica e sociale comune europea. Abbiamo la moneta unica, ma abbiamo 27 strategie economiche diverse. In secondo luogo, occorre che riflettiamo a fondo sulla sostenibilita’ del modello di “economia sociale di mercato” che ha distinto sinora l’Europa rispetto all’anarco-capitalismo di molte aree ad economia liberista. Un modello che sinora ha retto, ma che non possiamo dare per scontato, e che dovra’ sempre piu’ essere articolato su base realmente europea ed inclusiva.

World Political Forum


Il World Political Forum nasce da un’idea originale del Premio Nobel per la Pace Mikhail Gorbaciov, con una vocazione specifica: promuovere contatti fra politici, scienziati, personalità di alto profilo della vita culturale e religiosa di differenti continenti, fedi, lingue e culture, con il fine di analizzare la questione dell’interdipendenza, ma soprattutto con l’intenzione di suggerire soluzioni per i problemi di governance, della globalizzazione e per i problemi cruciali che affliggono l’umanità oggi. L’attuale ordine internazionale è diventato confuso ed instabile. Le istituzioni politiche ed economiche sovra-nazionali sono oppresse da conflitti e disaccordi fra i loro stessi membri. La cooperazione fra stati ed il nuovo ordine mondiale in cui si sperava alla fine della Guerra Fredda non si sono realizzati. Al contrario, gli affari internazionali sono oggi caratterizzati dal disordine mondiale, ed i recenti eventi hanno esacerbato le fondamentali differenze di opinione da un capo all’altro del globo. Il World Political Forum si propone di esaminare il miglior modo di organizzare il coordinamento delle istituzioni internazionali e di individuare i modelli auspicabili e possibili per un ordine mondiale futuro, in maniera da ridurre gli squilibri e le differenze e di ricercare un nuovo spazio politico dove le civiltà possano incontrarsi e trovare un accordo per gestire il disordine internazionale. Solo un risoluto e ben concertato sforzo multilaterale e trasversale degli attori internazionali può prevenire questa spirale di disordine. Il World Political Forum vuole diventare un punto d’incontro di culture, religioni e leaders, un forum aperto all’intero mondo, che, attraverso l’analisi e la discussione, possa dare indicazioni e fornire nuove soluzioni ai problemi globali e sforzarsi per il raggiungimento di una Nuova Civiltà Mondiale e di una struttura per un ordine internazionale democratico. Ho partecipato alla sessione del 2009 del World Political Forum, dal titolo "Twenty Years after: The World(s) beyond the Wall" (9-10 October 2009) a Bosco Marengo in Piemonte. Ecco il testo del mio intervento:
One merit of the present crisis, if there is any, is that it has finally put an end to the Post-Cold War Triumphalism/”End of History” discourse. The Cold war, like any other conflict, was a complex set of interconnections and power relationships, which served many functions. It was not ”a long peace”, as it is sometimes described. The list of opportunities squandered during the Cold War is long. In almost every part of the globe, in almost every human activity, we can trace the negative impact of that forty-five-year conflict. Of course, we could never praise enough the end of a bipolar confrontation that marked a historical turn in the way we think of international relations. The last century was one of big contradictions: it witnessed the parossistic transformation of war in terms of extermination and at the same time the slow but successful “re-invention of peace” (from the League of Nations to the United Nations, to the European Union as a new brand of economic and political integration). On the one hand, we had the immense tragedy of a sort of global civil war with 60 million dead, two thirds of whom were civilians; on the other hand, never were more true the following words written in the 18th century by Sir Henry Maine: ”War appears to be as old as mankind, but peace is a modern invention”. But the end of the Cold war did not herald a new Golden Age at all. Fukuyama hoped that ”the idea of a universal and directional history leading up to a liberal democracy may become plausible to people, and that the relativist impasse of modern thought will in a sense solve itself”. This hope has not been confirmed by recent events. At least the idea of a universal history on a global scale has not been complemented with a clear sense of direction. However, it would be a mistake to go in the opposite direction, embracing the international narrative of the New Century Deception (the ”Clash of Civilizations” discourse). There is no doubt that this is a difficult era, in which so-called ”hard universalisms” (”forcibly universalized particularisms”) try to impose a single agenda, formulated in a monolithic and monological way according to the value system of one culture and to the exclusion of others. What we need instead is to develop a strong sense of mutual commitment and shared comprehensive responsibility without insisting upon uniformity of values and ideals. It is a new kind of universalism, one we could call “universalism of differences”, or “pluralistic universalism”, a universalism “through dialogue with diversity”. Dominique Moïsi has written that what shapes the world today are above all emotions. The three most important emotions of the present international situation are fear, hope, and humiliation. These three feelings rest on one element: confidence. “Fear is the absence of confidence. Hope, by contrast, is an expression of confidence. Humiliation is the injured confidence of those who have lost hope in the future; your lack of hope is the fault of others, who have treated you badly in the past.” In this analysis, Asia appears to be the continent of hope, the West the region of fear and the broader Middle East the place where humiliation took place, creating resentment and frustration.I think that this representation of today’s world is useful only for academic purposes, since the reality is much more complicated and the above-mentioned emotions are all present at the same time in every region and culture. In our world it has become clear that the old division between inside and outside has virtually vanished. This does not mean that the state is no more the fundamental actor in the international relations, and the prophecy about the end of the nation-state has not proved true. But it neither means that what awaits us is a new version of the classical balance of power, a confrontation between great “liberal” powers and great “authoritarian” powers. The international system is not something that we find in nature; it is rather a social and political construction. More than the inside-out argument in the Kantian style, that is, the “theory of democratic peace” (according to which democratic states do not wage war on each other) it seems to me that it is the international system’s features that increasingly influence the way governments act (outside-in). This is particularly true for the European Union. The EU for two decades after the end of the Cold War developed a new kind of power, very different from hard power, soft power or even smart power: it is “transformative power” that induced voluntary changes in the political and economic systems of candidate countries, bringing about the biggest and deepest stabilization strategy on the continent in many decades. At the same time, the European Union is about enhancing rather than destroying national identities. Europe can be seen either as a mythological “Beast with Twenty-Seven Heads”, or as a network of powers and levels of governance: something very difficult to run or to tame, but it is also a laboratory for reinventing democracy. On a larger scale, there is a way of looking at the G20 or G-something as a sort of comprehensive and inclusive global coalition for fostering recovery and development, and also for making governments actually implement their official statements. What I want to stress is the fact that in an open system of international and trans-national actors there is a level of cross-fertilization and interaction between different economic and political frameworks. For instance, if we look at the economic policies in the world, we discover that the so-called European social model of the “Market Social Economy” needs more liberalization and an injection of competitiveness taken from the Anglo-Saxon economic system, whereas American liberalism is now actively including some elements of the European welfare system. Overall, the idea of sustainable development is becoming a central feature of any economic program. It is not that there is a lack of trust in a particular economic and political model; it is the idea itself of a “model” that is seen as a sort of hegemonic attempt to shape or re-shape the world. This is not to be regarded as the revenge of post-modernism in political science; it is rather the result of the failures both of the Proletarian State and the Welfare State.But the answer will hardly be found in the idea of a Minimal State. One attempt to find a middle ground between Big Government and the anarcho-capitalism (as the economic form of the libertarian ethics), is the proposal of the Hollow State: a metaphor for the increasing use of third parties, often nonprofits, to deliver social services and generally act in the name of the state. From “l’Etat providence” to multiple providers? The normative question there is what sort of effect does government contracting with third-party providers have on the perceived legitimacy of the state? The current crisis shows that after all it is very difficult to dump once and for all any possibility of a direct intervention of the State in the economy. In a situation of crisis, the State is the ultimate decision maker, no longer the market. Capitalism under stress has to take on board some elements of the state-based political economy. In a word, economy becomes again, a least for emergency purposes and causes, a political activity. But we should be clear on that point. A more proactive role of the state does not imply that Governments should actually run the economy. Rather, Governments should act as facilitators, enablers and regulators with regard to the economic system; their core role should be that of setting political priorities and encouraging solutions rather than direct management.As the international crisis showed us, governments cannot do everything by themselves. This is a valid statement both for internal policies (the right mix to be found between public institutions, private sector, non profit organizations) and the international political and economic system. This is the ultimate meaning of “responsible sovereignty” at a domestic and international level. It allows participation, inclusion, care. The real “mix” that we need in global governance is a synergic and smart combination of markets, governments and communities.