Obama, il coraggio illumina l'America

(di Fulvio Scaglione, “Famiglia Cristiana”, 15/08/2010)
Annunciando il proprio parere favorevole a una moschea nei pressi di Ground Zero, a New York, il Presidente degli Stati Uniti ha compiuto un gesto di grande civiltà. New York, Ground Zero: una nave interamente costruita con l'acciao recuperato dalle Torri gemelle rende omaggio alle vittime dell'11 settembre 2001.Il discorso con cui Barack Obama (anzi, Barack Hussein Obama, come vogliono i trinariciuti della destra Usa) ha ribadito "in quanto cittadino, in quanto Presidente... che i musulmani abbiano lo stesso diritto di praticare la propria religione come qualsiasi altra persona in questo Paese", offrendo così il proprio autorevole endorsement alla costruzione di una moschea nei pressi di Ground Zero a New York, è un gesto di grande coraggio e grande civiltà. Uno di quei gesti che spiegano perché gli Usa sono il Paese che sono, capace di risollevarsi e rinnovarsi anche nei periodi più bui della loro storia. Obama sa benissimo di aver preso una posizione giusta ma facilmente sfruttabile dagli speculatori politici repubblicani, e comunque invisa a tanti cittadini americani perfettamente sinceri nella loro contrarietà. I musulmani americani rappresentano l'1% della popolazione totale ma la loro visibilità è in crescita costante. Le moschee sono ormai quasi 2.000, mentre solo dieci anni fa erano 1.200. Una comunità nuova (il 39% dei musulmani adulti sono immigrati negli Usa dopo il 1990, come da una ricerca del Pew Research Center), che paga, oltre ai sospetti facilmente immaginabili, anche la brevità delle proprie radici americane. Contro la costruzione di nuove moschee si sono levate proteste in molti parti del Paese, da Nashville (Tennessee) a Temecula (California) a Murfreesboro (Tennessee ancora). Il caso più clamoroso, ovviamente, è quello di New York. Accanto a Ground Zero dovrebbe sorgere il Cordoba Centre, un complesso polifunzionale da 100 milioni di dollari che comprenderà, oltre a negozi e centri commerciali, anche una moschea. Su quest'idea sono scoppiate le polemiche. molti dei parenti delle vittime degli attentati del settembre 2001 hanno protestato, sollevando una questione di "opportunità". La loro bandiera, comprensibile perché radicata nel dolore, è stata poi impugnata dai politici e dalle organizzazioni ebraiche. Mentre il sindaco di New York, Michael Bloomberg, si è detto a favore, una forte campagna contraria è stata intrapresa dalla Anti Defamation League e dal suo presidente Abraham Foxman. Anche se non si capisce bene che cosa c'entri con la moschea un'organizzazione fondata nel 1913 per combattere l'antisemitismo, e se la questione sollevata è sempre quella della "opportunità" ("Non è questione di diritti ma di che cosa è giusto", scrive discutibilmente Abraham, forse convinto di avere il monopolio del senso del giusto), l'atteggiamento di fondo è quello di far passare il messaggio che la costruzione del Cordoba Centre nasconde comunque qualche segreto inconfessabile, qualche piano sospetto. Un po' come dire che dove c'è una moschea non può mancare il complotto. Un'idea più che sufficiente a far imbufalire molti americani, che infatti la riprendono ovunque protestano contro la costruzione delle nuove moschee. Qualche settimana fa sono stato a Ground Zero. La visita aiuta a capire lo sfondo vagamente razzista della polemica. Dove crollarono le Torri Gemelle ora sorge un immenso cantiere. Da esso non spunterà un mausoleo o un monumento alle vittime, come si pensava subito dopo le stragi, ma un colossale snodo che conterrà centri commerciali, negozi e soprattutto una stazione ferroviaria destinata a smistare il traffico da e per il New Jersey, da cui ogni giorno migliaia di pendolari potranno approdare direttamente nel cuore del centro finanziario. Nessuna sacralità ma tanto pragmatismo made in the Usa. Prima di Obama, però, si era espresso con lo stesso coraggio e tanto acume Michael Bloomberg, sindaco di New York, ebreo. Con parole che vale la pena ripetere: "C'erano anche musulmani americani tra le vittime dell'11 settembre. Sono parte della comunità di Manhattan e hanno tutti i diritti di costruire a Ground Zero. Se una qualche confessione vuole costruire un centro di preghiera, non è affar nostro decidere quali religioni possano e quali no. La libertà e la possibilità di praticare la propria religione è una delle ragioni per cui gli Stati Uniti sono stati fondati. E dire che la costruzione di una moschea non sarebbe opportuna è semplicemente un atteggiamento sbagliato".

Obama e la Moschea

In una divertente puntata del suo «Daily Show» sul canale «Comedy Central», il comico americano Jon Stewart ridicolizza le posizioni di quanti si oppongono alla costruzione di una Moschea (o meglio, di un «centro culturale islamico») nel cuore di Manhattan, a poca distanza da Ground Zero. Appunto, la distanza: a 5 isolati, a 10 isolati, a 15 isolati, a 20 isolati, sull’«Upper West Side» (magari nella casa di Woody Allen!) suggeriscono autorevoli commentatori. Il che e’ davvero paradossale, in una metropoli dai mille volti e dai mille culti. In questo clima quasi surreale, la presa di posizione di Obama a favore del progetto del centro islamico costituisce un forte richiamo ai fondamentali della stessa vicenda politica americana, che assegna un ruolo addirittura costitutivo alla libertà religiosa. Una scelta coraggiosa e coerente, con implicazioni che vanno ben oltre la polemica sul centro culturale islamico a Manhattan. Sul «ritorno» della religione negli affari mondiali si sono versati fiumi d’inchiostro. Le due scuole di pensiero fondamentali sostengono, rispettivamente, che abbiamo assistito all’avversarsi della profezia dello «scontro di civiltà» o che, specularmente, sono finite le illusioni della secolarizzazione della politica (interna ed internazionale) alimentate sin dall’Illuminismo. I due corollari di queste opposte interpretazioni riguardano il ruolo della religione rispetto ai conflitti ed alle tensioni sia di natura inter-statale che transnazionale o interna: gli uni ritengono che le convinzioni religiose diano spesso luogo a posizioni fondamentaliste ed intolleranti, gli altri sostengono, al contrario, che i convincimenti religiosi, se interpretati nei loro caratteri originali e senza distorsioni ideologiche, possono contribuire alla soluzione dei conflitti in atto, ed anche di quelli latenti e potenziali. Come che sia, poco si è riflettuto sulle implicazioni della cosiddetta «era post-secolare» in uno specifico settore di interesse per la politica internazionale, vale a dire le molteplici declinazioni e sfumature proprio della libertà religiosa. Si dovrebbe trattare, in linea di principio, di una materia consensuale, in quanto manifestazione, nell’ambito dello spirito, dell’universalismo dei diritti fondamentali, che rappresenta uno degli settori di maggior impegno della comunità internazionale e dei suoi organismi a vocazione universale (Nazioni Unite, Consiglio dei diritti umani). In quanto tale, la libertà religiosa dovrebbe dunque costituire un diritto assoluto, paragonabile al diritto alla vita, e non essere soggetta a condizionamenti, restrizioni, intrusioni. Fin qui tutti d’accordo. Ma nella concettualizzazione della libertà religiosa (o meglio, libertà di culto, poiché la libertà religiosa nel «foro interno» è ovviamente incomprimibile) si sono surrettiziamente infiltrate concezioni relativizzanti che poco hanno a che vedere con l’espressione di un diritto fondamentale. Si è infatti sostenuto che la libertà di culto dovrebbe essere trattata nel contesto dello stato delle relazioni internazionali, e pertanto soggetta ad alcune «gradazioni» dettate da considerazioni presuntamente identitarie, di sicurezza, persino di «reciprocità». In sostanza, il diritto di culto sarebbe condizionato e non più assoluto, e dovrebbe essere modulato sulla base del contesto culturale, sociale, nel quale esso viene esercitato. Sul punto bisogna fare chiarezza: condizionare la libertà di culto ad esempio alla reciprocità (cioè, se non è permesso costruire Chiese o Sinagoghe in Arabia Saudita, neanche da noi dovremmo consentire la costruzione di Moschee) equivale non tanto e non solo alla pratica negazione dell’assolutezza delle libertà religiosa, ma ad una contraddizione sostanziale, che pregiudica, in buona sostanza, la stessa credibilità dei diritti umani fondamentali in quanto espressione della coscienza universale. Significa rendere la religione vassalla della politica e degli interessi; significa togliere alla religione la sua struttura fondamentale, che è fatta di gratuità e di disinteresse. Una variante di tale attitudine restrittiva riguarda la protezione della libertà religiosa come proiezione della struttura politica interna di un Paese o come «politica estera» di una Chiesa o di una comunità religiosa. Si difende, in buona sostanza, la religione di appartenenza, ma rispetto alle altre religioni (le «religioni degli altri») c’è quanto meno disinteresse, se non peggio. E’ un atteggiamento che con la religione ha ben poco a che vedere, e che, essendo frutto di un calcolo, rasenta il cinismo. Una libertà religiosa condizionata e funzionale ad altri scopi non è libertà, ed è inquietante che a sostenere il contrario siano i seguaci auto-proclamati della «religione della libertà».