Il mondo nel 2011: piu’ speranza ha chi ne ha di meno

L’anno “internazionale” che ci attende, e’ in buona parte gia’ annunciato dagli eventi che hanno caratterizzato il 2010. La prima emergenza, almeno per il mondo euro-atlantico, sara’ ancora costituita dalla ricerca di strategie di uscita dalla crisi finanziaria. Una crisi che coinvolge anzitutto i Paesi europei e le finanze pubbliche dell’area euro. Una crisi che non e’ affatto globale, perche’ i cosiddetti Paesi “emergenti” continueranno a crescere a tassi di sviluppo inimmaginabili per l’occidente. E’ in atto una ristrutturazione dei rapporti internazionali di portata epocale. Il primo problema e’ costituito dal riequilibrio di queste forti asimmetrie. Il fatto che nel 2011 la Presidenza sia del G8 (o di quel che ne rimane) che del G20 sia affidata ad uno stesso Paese – la Francia – puo’ contribuire a dare maggior coerenza all’agenda internazionale. Tuttavia, se e’ vero che il G20 rappresenta l’80% della produzione mondiale, ben 172 Paesi non ne fanno parte! Attenzione a non creare il “club dei ricchi e degli emergenti”! Tra questi ultimi un posto speciale spetta alla Cina, che anche nel 2011 giochera’ un ruolo (non disinteressato) a favore della stabilita’ del sistema economico globale, con forti incognite legate alla politica interna e a quella estera, almeno dal punto di vista dell’occidente. Il vertice del 2011 della cooperazione economica Asia-Pacifico (APEC) rafforzera’ la “svolta asiatica” degli Stati Uniti, per ragioni economiche e strategiche.
Tra i punti caldi del pianeta si colloca, ancora una volta, il Medio Oriente. I negoziati tra israeliani e palestinesi si trovano, alla fine del 2010, ad un punto morto. Si parla di un possibile intervento dell’ONU per il “riconoscimento” dello Stato Palestinese entro i confini del 1967. Pare difficile. Iran e Nord Corea rimarranno al centro dell’attenzione mondiale, accomunate dalla questione del programma nucleare (Pyongyang ha la Bomba, Teheran non si sa). E L’Africa? Ci auguriamo che “emerga” anch’essa! L’Economist si augura una “redistribuzione della speranza”. Speriamo a favore di chi ne ha meno.

Wikileaks e "Diplomazia Pubblica"

Correva l’anno 1918, la prima guerra mondiale era appena terminata. Il presidente degli Stati Uniti, Woodrow Wilson pronunciò un discorso “fondativo” per l’ordine mondiale successivo al tragico conflitto, elencando 14 punti sui quali esso avrebbe dovuto basarsi. Al primo posto Wilson pose la necessità di una maggiore trasparenza nei rapporti internazionali, e quindi il divieto non solo di trattati segreti, ma anche di trattative opache. Per molti aspetti, dunque, questo passaggio storico può essere considerato come l’atto di nascita della “diplomazia pubblica”.
Una dimensione alla quale non solo i governi, ma i diplomatici della vecchia scuola non guardano certo con particolare favore, tranne nel caso in cui con l’espressione “diplomazia pubblica” si intende una forma di propaganda politica all’estero.
In realtà, l’intuizione di Wilson era fondata, perché l’obiettivo della stabilità e della pace internazionale non può essere perseguito se non nella chiarezza delle posizioni. Si può anzi affermare che la tradizionale concezione della diplomazia come l’arte dell’ambiguità e della doppiezza è l’esatto contrario di una diplomazia matura, consapevole e responsabile.
Che c’entra tutto ciò con la vicenda Wikileaks?
La dimensione della “pesca” compiuta nel mare dei messaggi inviati a Washington dalla rete diplomatica USA è un punto dirimente. Se si fosse trattato di rivelare specifiche questioni di pubblico interesse (come nel caso delle violazioni di diritti umani o di operazioni contrarie al diritto internazionale) allora fenomeni di questo tipo potrebbero essere comprensibili quanto alle loro motivazioni. Se invece si “intercettano” in massa 250.000 messaggi al solo fine di dimostrare di poter violare circuiti di comunicazione “protetta”, allora le finalità dell’operazione sono meno chiare e giustificabili. È vero che le analisi dei diplomatici spesso non rivelano particolari segreti; cionondimeno, disporre di canali di informazione diretta, quali sono le reti delle ambasciate, rappresenta per i governi di tutto il mondo una risorsa insostituibile.
Nel mondo dell’informazione globale, i diplomatici svolgono un ruolo prezioso di selezione, di approfondimento e di valutazione delle informazioni, promuovendo una maggiore comprensione dei paesi e tra i paesi, essenziale ai fini della pace. Mettere a rischio questo circuito non è solo un danno per i governi, ma nemmeno fa un buon servizio alla causa della trasparenza. È facile immaginare, infatti, che d’ora in poi le ambasciate adotteranno sistemi più chiusi e riservati nelle loro comunicazioni. Paradossalmente, Wikileaks rischia di vanificare proprio l’obiettivo della “diplomazia pubblica” di Wilson.

Quanti "migliori amici"?!

• “I decided to come first to Britain because we have no better friend. We have no better ally.” — Condoleezza Rice, 2005
• “The United States has no better friend in the world than Japan. The United States has no more important alliance in the world than the US-Japan alliance.” — US Ambassador J. Thomas Schieffer, 2008
• “As the Indian people celebrate Republic Day all across India, they should know that they have no better friend and partner than the people of the United States” —  President Obama, 2009.
• America has “no better friend” than Israel — Vice-President Joe Biden, 2010
• US 'has no better friend' than Australia – Hillary Clinton, Nov 7, 2010
• “I love this country. We could not have a better friend and ally” — President Obama speaking in Canada, 2009.