La speranza di Cipro

Dentro l’Europa, e ai suoi confini, c’è un muro ancora da abbattere. E’ quello che attraversa Cipro, e che segna una frattura che nemmeno la fine della Guerra Fredda è riuscita a sanare. Il confronto tra le due comunità storiche dell’isola, quella greco-cipriota e quella turco-cipriota, prese una piega politico-militare e internazionale nel 1974, quando la Turchia occupò la parte settentrionale dell’”isola di Afrodite”, come narra la mitologia della Grecia classica.
In seguito la parte occupata (36% del territorio) divenne la Repubblica turca di Cipro Nord, mentre nel 2004 la Repubblica di Cipro (greco-cipriota) ha aderito all’Unione Europea nonostante la divisione de facto dell’isola. La partizione dell’isola lungo la cosiddetta “linea verde” è monitorata da caschi blu dell’ONU, costituendo così una missione di “peace-keeping” all’interno della stessa Unione Europea! Cipro ha avuto la sua “bolla” edilizia e ha bevuto anch’essa l’amara medicina  della “troika” europea: l’austerità.
Ma Cipro è pure il “Medio Oriente” europeo, non solo per la sua prossimità alla regione, ma anche per il suo coinvolgimento nelle crisi e dinamiche in atto, a partire dal suo ruolo di base aereo-navale della NATO (e rinnovate relazioni anche con la Russia) per continuare con il suo carattere di piazza finanziaria per capitali in cerca di contesti più sicuri per finire con le prospettive di giacimenti energetici enormi nel mediterraneo orientale (già scoperti al largo di Israele e di Egitto) che potrebbero trasformare questa regione, nel bene e nel male, in una sorta di nuovo “golfo Persico”.
La delicatezza della collocazione geo-politica di Cipro sembra incoraggiare, oggi più di ieri, i tentativi di uscire da un “conflitto congelato” che politicamente non ha mai cessato di restare caldo.  

Un piano delle Nazioni Unite, promosso da Kofi Annan, fu rigettato dai turco-ciprioti per referendum nel 2004. Ma i termini rimangono validi, non potendosi immaginare per Cipro se non la soluzione di una repubblica federale unificata che però contempli una partecipazione agli organi di governo e di rappresentanza su base bi-nazionale e bi-comunitaria (per esempio, il Presidente greco-cipriota e il vice-presidente turco-cipriota; oppure a rotazione). Il presidente turco-cipriota Mustafa Akinci e quello greco-cipriota Nicos Anastasiades hanno mostrato, recentemente, una rinnovata volontà di intesa verso la riunificazione, e di voler assumere il destino dell’isola nelle loro  mani, senza i pesanti condizionamenti storici delle rispettive “nazioni tutelari” (Grecia e Turchia) o attori internazionali esterni. Né muro né frontiera, Cipro vuole tornare ad essere un crocevia, una terra plurale.

Perché non basta Schengen

Nonostante lo stato critico in cui si trova oggi l'integrazione europea - al punto di far temere persino l'avvio di un processo di disintegrazione - è indubbio che non sono affatto pochi né trascurabili i risultati che l'euro-esperimento ha offerto ai cittadini del vecchio continente. Lasciando da parte le questioni controverse della moneta unica e del modello di economia liberale (che purtroppo ha progressivamente perduto per strada alcuni suoi essenziali tratti sociali), la libera circolazione delle persone costituisce un fenomeno unico nell'ampia gamma delle organizzazioni internazionali. Una conquista prevista già nei Trattati Roma del 1957, ma che solo con il Trattato di Schengen, a partire dal 1996, comincia a divenire un fatto concreto, con l'abolizione di ogni controllo di frontiera tra i Paesi membri. Una libertá di circolazione che unita, ad esempio, allo straordinario successo del Programma Erasmus (che consente ai giovani universitari di compiere periodi di studio presso altre università europee e non solo) ha contribuito a creare un superficiale e forse utilitaristico senso di appartenenza allo spazio europeo, senza peró aver generato alcuna identità politica comune. Un utilitarismo che ha rivelato tutti i suoi limiti al primo stormir di fronde, dinanzi cioè alla crisi dei rifugiati che ha investito l'Europa dall'estate del 2015. Intendiamoci: non si tratta certamente dell'abolizione di Schengen, ma di una serie di "sospensioni" dcise da vari Paesi, a diversi livelli, e che ha coinvolto anche la stessa Germania. Il ripristino temporaneo dei controlli di frontiera - misura tecnica prevista dal Trattato - non significa affatto che la libera circolazione sia finita. Essa va persino oltre i confini dell'Unione Europea, perché include anche Norvegia, Svizzera, Islanda, Liechtenstein, mentre non ne fanno parte Bulgaria, Cipro, Croazia, e Romania, Paesi per i quali il trattato non è ancora in vigore, e Irlanda e Regno Unito, che se ne sono volontariamente tenuti fuori sin dall'inizio. Tuttavia mettere Schengen tra parentesi è un segnale politico grave, che può resuscitare un nazionalismo 2.0, come dimostrano le tensioni che si sono generate tra Italia e Austria all'annuncio fatto da Vienna (che però non ha avuto sinora alcun seguito operativo) di voler erigere una barriera al confine del Brennero. Tutto ciò dimostra che l'approccio funzionale (come l'abolizione dei controlli di frontiera) non basta più a dare un senso politico all'Unione Europea, e che dunque per poter superare lo stallo gli Europei si debbono seriamente interrogare sulle ragioni più profonde della loro "unione". Un esercizio che dovrebbero fare i popoli, più che i governi.

Sei rischi esistenziali per l'Europa


Nel momento in cui una nuova tragedia, provocata dalla furia del terrorismo cieco ed implacabile, colpisce la “capitale dell’Europa”, è oggettivamente difficile mantenere la lucidità necessaria per capirne la portata e per comprendere che agire, più che reagire, è la risposta davvero strategica che dobbiamo avere la capacità di articolare. Anzitutto, dobbiamo renderci conto che colpire Bruxelles ha un chiaro intento politico, rivolto non tanto e non solo al Belgio, quanto  all’Unione Europea in quanto tale, come istituzione integrativa di 28 paesi europei. E’ un’intimidazione intesa a ripercuotersi, perciò, in tutti gli Stati membri, e che persegue lo scopo di portare la guerra dell’ISIS nel cuore dell’Europa, con l’obiettivo di allargare il fronte dei paesi coinvolti. L’unisca speranza dell’ISIS, contrariamente a quanto si crede, consiste proprio nell’espandere le frontiere del caos, nell’estendere la sua trincea nei gangli delle nostre democrazie. 
Sono molteplici i livelli sui cui è necessario “agire”.
In primo luogo, come sempre dinanzi a shock violentissimi la prima tentazione è quella di prevedere misure straordinarie, stati di eccezione, sospensione di regole e di procedure democratiche. Ma se c’è un paradigma che distingue le democrazie rispetto all’oscurantismo del terrore è proprio quella di combattere volutamente  “con una mano legata dietro la schiena”, e cioè quella di non farsi trascinare nel baratro della rinuncia alla libertà in cambio di una (illusoria) sicurezza. L’obiettivo del terrorismo è, tra l’altro, proprio quello di dimostrare che lo stato  democratico è inefficace, è incapace di proteggere i propri cittadini e pertanto è delegittimato, perché inetto. Insomma, la democrazia non servirebbe in situazioni di crisi. Il punto è che questa distorta rappresentazione della democrazia è fatta propria non solo da populisti e demagoghi, ma anche da analisti e intellettuali più o meno autorevoli.
Sarebbe però un cedimento gravissimo, lo stesso che ha portato gli Stati Uniti, dopo l’11 settembre, ad adottare il “Patriot  Act”, cioè una legislazione draconiana che ha avuto non solo l’effetto di restringere le libertà fondamentali anzitutto degli Americani, ma anche di fornire una sorta di lasciapassare per la violazione “legalizzata” dei diritti umani. Se oggi un candidato alla Presidenza degli Stati Uniti può pensare di chiudere le frontiere a tutti i messicani e a tutti gli “Islamici”, se può affermare che la tortura è una pratica ammissibile, si deve proprio a questa infezione della democrazia, a questo inquinamento dell’opinione pubblica, che costituisce, in qualche modo, una vittoria del terrorismo.
Tutto ciò è inutile oltre che dannoso, giacché le democrazie hanno tutti gli strumenti per difendersi: misure di polizia, possibilità di controlli a vari livelli, mezzi giuridici, mezzi politici, mezzi informativi e comunicativi. Basta usarli bene e con tutte le loro potenzialità, senza che ci sia bisogno di giustificare l’accantonamento della legalità con la situazione di emergenza. Gli attentati di Bruxelles, ad esempio, non sono dovuti alla mancanza di strumenti, ma al fatto che essi non sono stati utilizzati in modo coordinato e pro-attivo.
Il secondo rischio è quello di credere che il pericolo per la nostra sicurezza venga dall’esterno. La minaccia, a Bruxelles come a Parigi, è più endogena che esogena, e bisognerà pure interrogarsi sul perché i kamikaze crescono nelle città europee, dotati di cittadinanza e di passaporti europei. Il tema delle periferie ghettizzate o delle enclave metropolitane è stato trascurato per troppo tempo; ciò non riguarda solo gli aspetti, pur fondamentali, della sicurezza, ma anche e soprattutto i fenomeni di alienazione e di “tradimento” della patria di residenza, che sanciscono il fallimento culturale e civile delle politiche di integrazione. Certo, la radicalizzazione è spesso il risultato di deleterie influenze esterne, e il caso macroscopico è quello dei foreign fighters europei di ritorno, addestrati nel sedicente stato pseudo-islamico, ma ciò non toglie che il contesto urbano degradato e la marginalità giochino un ruolo tutt’altro che secondario, se non altro perché non producono i necessari anticorpi contro la deriva dell’estremismo violento.
Il terzo rischio, collegato al punto precedente, è che la paura finisca per ampliare il “fronte del rifiuto” rispetto alla questione dei rifugiati e dei migranti, accomunando indistintamente migrazioni e terrorismo, e cioè confondendo gli effetti con le cause, dimenticando che i rifugiati sono essi stessi vittime di terrorismo, persecuzioni, guerra. I segnali che vediamo sono preoccupanti, con l’aggravante di una strumentalizzazione politica vergognosa e disumana, che gioca con le giuste preoccupazioni dei cittadini per ottenere consensi e conquistare scranni elettorali.
Fermo restando che un politico avrebbe il dovere di guidare, di spiegare, di argomentare, più che di inseguire l’opinione prevalente, cercando anzi di cambiarla in nome della verità (almeno quella con la lettera minuscola), verrebbe da dire che in queste condizioni sarebbe di gran lunga più dignitoso per un politico perdere le elezioni piuttosto che guadagnare fette di potere con un metodo strutturalmente disonesto e manipolativo, oltre che irresponsabile e, alla lunga, auto-distruttivo, per sé stesso, per la società, per la politica e la sua credibilità.
Il quarto rischio è che la minaccia terroristica dell’ISIS contribuisca a demolire quanto è ancora rimasto in piedi dell’integrazione europea – dopo la sospensione di Schengen, il ripiegamento sulla sicurezza nazionale, l’inquietante risposta all’emergenza dei rifugiati –, con l’idea che le nostre piccole patrie possano realmente costituire il nostro orizzonte di salvezza. Tutto ciò è paradossale: il terrorismo è transnazionale per definizione, tutte le più grandi sfide che dobbiamo fronteggiare sono globali, e dunque ci sarebbe bisogno di una dimensione realmente europea, in termini di intelligence, di condivisione di informazioni, di coordinamento di azioni preventive.
Invece di rafforzarci, rischiamo così di indebolirci, e di aumentare in modo esponenziale la nostra vulnerabilità. La domanda seria che dovremmo porci non è se crediamo o meno all’Europa quasi fosse un articolo di fede, ma se senza l’Europa possiamo davvero pensare di avere una qualche incidenza, anche in termini di garantire la nostra sicurezza, in un mondo globalizzato e trans-nazionalizzato.
Il quinto rischio è che la contrapposizione tra mondo euro-atlantico e mondo arabo, che è uno degli intenti fondamentali dell’ISIS, diventi, almeno nella facile retorica politica, una realtà irreversibile, con l’aggravante di una dimensione religiosa (Cristianesismo contro Islam). È cruciale che tutte le istanze e le voci capaci di smontare questo assioma falso e rozzo abbiano spazio e risonanza. C’è una sorta di scisma non dichiarato nell’Islam sunnita, che è quello del sedicente stato pseudo-islamico e di tutti i terrorismi ad esso affini, e che va ben oltre le stesse correnti salafite e wahabbite, che sempre più tendono a distinguersi rispetto al terrore nichilista dell’ISIS e di Al Qaeda, come pure di Boko Haram.
I Cristiani sono perseguitati in Siria e Iraq, ma lo sono pure gli sciiti, gli yazidi, le correnti che si rifanno alla tradizione sufita, i sunniti che rifiutano una versione degenerata della Jihad e l’arruolamento forzato sotto il Califfato. Qui non si tratta di scontro di civiltà, ma di isolare e arginare l’inciviltà dello scontro.
Il sesto rischio, che molti commentatori “muscolari” sembrano non considerare, è quello di una militarizzazione delle politiche estere dei Paesi europei, quasi che il “male” dell’estremismo violento e possa essere estirpato dal Medio Oriente e dal Nordafrica mettendo, come si dice, gli “stivali sul terreno”, cioè con interventi diretti nei conflitti. Non ci ha risparmiato questo consiglio neanche Tony Blair, che appena pochi giorni fa si era “scusato” per l’intervento in Iraq, fonte di quasi tutti i nostri problemi attuali. Più accorto Obama, che ha definito un “errore” l’intervento in Libia nel 2011, condendo però l’affermazione con una certa dose di veleno nei confronti degli “alleati (europei) scrocconi”, che contato cioè sempre sugli Stati Uniti quando si tratta di agire militarmente.
In Libia, come in Siria ed in Iraq, si tratta di far qualcosa di assai più incisivo e radicale rispetto ai bombardamenti o alle invasioni, e cioè mettere in atto una strategia che isoli il terrorismo, che punti a sostenere davvero quanti intendono ricostruire il patto fondativo nazionale, senza il quale si rischia di appoggiare una fazione contro l’altra, con effetti dirompenti. È quello che hanno fatto in Siria, dal 2011, le Monarchie del Golfo, l’Iran, la Turchia, la Russia, ma anche l’Europa e gli Stati Uniti, in ordine sparso, con una confusione ed improvvisazione tale da avvalorare la convinzione che se tutti se ne fossero astenuti oggi la situazione non sarebbe forse peggiore di quella che ci ritroviamo dinanzi. È quello che hanno fatto gli Europei bombardando il regime di Gheddafi nel 2011 senza avere la più pallida idea di cosa fare immediatamente dopo.
Insomma, il momento è drammatico e non possiamo scherzare con le parole, con le narrazioni, con la storia. Un aforisma riferito alla politica italiana di qualche anno fa diceva che “la situazione è drammatica, ma non seria”. Facciamo in modo che la politica europea sia, invece, seria, e ricordiamoci che nel 2012 l’Unione Europea ha ricevuto il Premio Nobel per la pace. Meritiamocelo in questa ora tragica, ricordando al mondo che l’integrazione è non solo una grande invenzione europea, ma anche la prefigurazione di rapporti internazionali da rifondare. Abbiamo avuto la dimostrazione, dopo i suicidi delle due guerre mondiali del XX secolo, che accontentarci di una precaria “pace fredda” o di una “pace a bassa intensità” in Europa, come altrove, non serve a prevenire i conflitti, e che la pace richiede il massimo di impegno e di rischio. Ci vuole molto più coraggio e molta più strategia a vincere la pace di quanto ce ne vogliano in qualunque guerra.