Visualizzazione post con etichetta Religione e relazioni internazionali. Mostra tutti i post
Visualizzazione post con etichetta Religione e relazioni internazionali. Mostra tutti i post

L'accordo di Losanna

L'accordo di Losanna sul programma nucleare iraniano può essere letto in due modi. In primo luogo, come un’intesa su alcuni meccanismi che dovrebbero garantire la comunità internazionale sul fatto che l'Iran non intende dotarsi di un'arma nucleare, salvaguardando al tempo stesso il diritto di Teheran di produrre energia nucleare «civile». E’ un accordo quadro, con tre elementi fondamentali: limiti all'arricchimento dell'uranio da parte dell'Iran; progressiva eliminazione delle sanzioni imposte a Teheran; ispezioni intrusive e pluriennali per verificare il rispetto di quanto concordato. L'intento perseguito dai negoziatori rientra nella politica di non proliferazione nucleare; anche se, al momento, ci quattro paesi dotati di armi nucleari al di fuori dal regime di non proliferazione: India, Pakistan, Corea del Nord e, secondo molti analisti, Israele. 
La seconda prospettiva da cui guardare all'accordo di Losanna è legata l'attuale situazione di sconvolgimento del Medio Oriente, sia sotto il profilo della sicurezza che dal punto di vista degli assetti geopolitici. Basti pensare al rischio di disfacimento di due paesi-chiave come la Siria e l’Iraq, alla lotta per il potere in Libia, al pericolo di un’ulteriore degenerazione della contrapposizione tra gruppi etnici e religiosi in Yemen - sullo sfondo dell'avanzata dell’Isis, prima organizzazione islamista violenta e militarmente strutturata a volessi farsi «stato» a spese di quelli preesistenti. In questo scacchiere in tragico disordine i due paesi che realmente possono fare la differenza, in senso negativo o positivo, sono senza dubbio l'Arabia Saudita e l’Iran. Ryad e Teheran hanno ingaggiato una dura lotta a distanza - e per procura- per l’egemonia nella regione, capeggiando rispettivamente il campo sunnita e quello sciita. Ma è solo l’etichetta ad essere religiosa, le ragioni sono ben più concrete e legate ad una logica di potere. Gli Stati Uniti, per la prima volta, in nome della stabilità sono pronti ad aprire a Teheran e a mettere alla prova il rapporto con i Sauditi e perfino con Israele. Ci sono rischi, ma il medio Oriente è in fiamme.

La Tunisia, "vicina" dell'Europa

Sotto l’emozione e l’orrore per le azioni terroristiche condotte in Tunisia “per conto” dell’Isis, ci si è dimenticati del fatto che questo piccolo Paese dirimpettaio dell’Italia ha faticosamente e tenacemente costruito un nuovo sistema politico e un nuovo quadro costituzionale, ha sottoscritto un nuovo patto fondativo che rappresenta la sua forza e al tempo stesso, probabilmente, anche la ragione per cui è nel mirino degli estremisti violenti. La Primavera Araba, iniziata in Tunisia nel 2010, proprio nella Tunisia ha ora l’unico modello funzionante, grazie al coinvolgimento di tutti gli attori nazionali, incluso l’islamismo politico, nel progetto di un nuovo Paese. Rachid Gannouchi, leader del partito di ispirazione islamica Ennahda, non solo ha nettamente condannato l’ultima serie di attentati, ma ha anche affermato senza alcuna ambiguità che l’Isis rappresenta una minaccia per la Tunisia, per l’Islam dialogante e per l’Europa. Non è da sottovalutare inoltre che dalla Tunisia provengono centinaia di giovani che hanno deciso di arruolarsi nelle milizie del Califfato. La transizione alla democrazia avviata in Tunisia non sarà perfetta, come del resto avviene in tutte le fasi di passaggio da un sistema politico-istituzionale ad un altro, ma ha mostrato una tenuta che fa ben sperare sul suo consolidamento e sugli sviluppi futuri. E’ ovvio che l’interesse a far deragliare questo delicato processo è grande da parte di tutti i gruppi che scommettono invece sul caos e su una logica di guerra di tutti contro tutti. Se davvero vuole che la Tunisia abbia successo in questa opera di ricostruzione sociale e politica, allora l’Europa deve rispettare lo stesso significato del gergo politico che ama usare, come quello di “vicinato”, riferito in particolare al Mediterraneo. Trovarsi accanto dei vicini è una cosa, sceglierli davvero come amici è un’altra. E’ questa operazione che l’Europa deve compiere con la sponda Sud, e in special modo con la Tunisia, uscendo da una logica basata solo su finanza, mobilità e mercato, per entrare in un vero e proprio partenariato, fondato sulla pari dignità e sul reciproco impegno.

La pace più forte del terrore

L’attentato del 7 gennaio a Parigi segna un punto di svolta nella strategia della radicalizzazione perseguita dai gruppi dell’integralismo para-islamista deviante. L’intenzione è del tutto evidente: portare nel cuore dell’Europa la violenza anomica, diventare gli araldi psicotici di un Islam inautentico, dal volto aggressivo e divisivo; ciò che rimane di una religione, qualunque religione – anche laica o civile – quando essa si è fatta infettare dal germe del totalitarismo e dell’imperialismo, dal desiderio di conquista e di dominio.
Se una fede è esangue, facilmente diventa sanguinaria. Pulsioni mondane, umane-troppo-umane, che nulla hanno a che vedere con il sentimento religioso. L’assassinio si accompagna non alla presenza, ma all’assenza di Dio, anzi alla sua negazione. La strategia di questo terrore omicida e distruttivo è pantoclastica, persegue cioè il fine dello scontro totale, con un cinismo che contempla l’annichilazione reciproca dei contendenti, una sorta di “mutual assured destruction” (distruzione mutua assicurata) ripescata dagli armadi della Guerra fredda.
Se c’è un’agenda politica, essa coincide, in sostanza, con la fine di ogni politica. Dove non c’è possibilità di confronto - anche senza scomodare il dialogo – non c’è la minima possibilità di risolvere questioni, affrontare problematiche complesse, e nemmeno lo spazio per un’autocritica bilanciata. Questi religio-sabotatori globali assomigliano agli alieni di certi film hollywoodiani: niente negoziato, niente coabitazione, solo sterminio per fare spazio ai conquistatori venuti da un altro mondo. In un certo senso, essi sono tecnicamente extra-terresti: sono estranei all’umanità come tale, e pertanto non si preoccupano minimamente della sua – e della loro – distruzione. La fine della politica, per questi adoratori del Terrore, consiste nell’inscenare qui ed ora, nel cuore dell’Europa, un titanico scontro di in-civiltà.
Da una parte, il "cosmo-terrore" ammantato di ideologismi anti-occidentali che rappresentato in realtà l’alibi supremo dei mestatori di morte in cerca di giustificazioni a buon mercato. Sarebbero lo colpe dell’Occidente – che peraltro nessuno nega o nasconde – a provocare una reazione violenta e incontrollabile. Ma il disordine globale andrebbe suddiviso in parti uguali, quanto alla sua origine, tra America, Europa, Russia, Cina, Golfo Persico. Si dovrebbe trattare, quanto meno, di una chiamata di correo. Le enormi ingiustizie globali non sarebbero possibili senza un’alleanza di fatto di oligarchie di ogni colore politico, etnia, religione. Paesi cristiani, Paesi islamici, Paesi buddisti, Paesi agnostici o irreligiosi condividono una responsabilità planetaria che appare semplicistico e mistificante addossare al solo “Occidente”. Potere politico e potere economico, quasi ovunque, Africa compresa, hanno tradito la finalità di servizio all’uomo, di essere strumenti per creare condizioni di “felicità” di persone e comunità. Al contrario, sono divenute spesso strutture oppressive.
Dall’altra parte di questa invisibile, ma reale barricata, questi traditori di ogni vero spirito religioso vorrebbero collocare società europee divenute intolleranti, sempre più contrarie all’immigrazione, alle diversità, spinte sempre più verso posizioni anti-islamiche. La micidiale miscela di crisi economica, con la disoccupazione galoppante, e sentimenti anti-pluralisti e contro-multiculturali prospetta una tempesta perfetta, che gli omicidi al servizio del male assoluto auspicano e che rischia di diventare una esplosiva condizione sociale e politica.
Evitare accuratamente di cadere in questa trappola mortale è, in particolare, la grande sfida dell’Europa. Oggi come non mai se c’è una “missione” europea essa consiste nel dimostrare che la speranza del mondo consiste nell’integrazione, e non nella disgregazione; nella libertà, uguaglianza e fraternità pertutti i popoli e tra tutti i popoli; nel rispetto reciproco tra religioni, culture, civilizzazioni. Evitiamo, soprattutto, di confondere la forza con la reazione violenta, o con lo strumento militare; da sempre, gli uomini liberi e forti sono anzitutto uomini di pace. Ma la pace, come ricordava già negli anni ’30 del secolo scorso Emmanuel Mounier, non è affatto uno stato debole; esso richiede il massimo di impegno, di determinazione, di perseveranza, di rischio. Una pace che non è certo appeasement, acquietamento; al contrario, la pace è iniziativa, rilancio, invenzione del nuovo. Questa idea di pace è infinitamente più forte di ogni terrore.

Il "duplice viaggio" di Francesco

Ci sono eventi che, per la loro densità, sono destinati a produrre i loro effetti sul medio e lungo termine. Ci sono gesti che, per la loro intensità, continuano a produrre e riprodurre senza posa il loro significato simbolico. È presto per sapere se la visita di Papa Francesco in Terra Santa (24-26 Maggio 2014)  e il successivo incontro tra Abu Mazen e Shimon Peres in Vaticano (8 Giugno 2014) si iscrivano nella categoria dei cosiddetti "game changer", degli snodi della storia che segnano una discontinuità sul piano politico-diplomatico. È certo però che il primo impegno realmente internazionale (e non solo pastorale) di Papa Francesco è dello stesso spessore, ad esempio, della preghiera universale di Assisi per la pace, convocata da Giovanni Paolo II nel 1986. La prospettiva profetica e la prospettiva simbolica non sono affatto estranee alla politica, al contrario. È proprio quella che gli analisti politici chiamano la "vision", la visione, cioè il disegno complessivo che permette di comprendere anche il presente per poterlo trasformare, unitamente alle componenti evocative (e non semplicemente emotive) dell'agire politico a rappresentare la miscela per innescare il cambiamento e demolire paradigmi rocciosi, come quello della prevalenza (illusoria e instabile nel tempo) delle soluzioni di forza su quelle negoziate, del dominio della paura sulla fiducia. Immettere nel circuito politico internazionale una narrazione radicalmente diversa, e cioè che i conflitti, anche quelli più intrattabili, sono in fondo fenomeni umani e sociali e in quanto tali risolvibili, non significa rifugiarsi nella prospettiva dell’utopia; al contrario, implica un esercizio di realismo che paradossalmente la realpolitik, prigioniera com’è del mito della violenza, non riesce a compiere.  Tutto questo ha evidenziato il viaggio mediorientale-vaticano di Francesco, al di là delle esaltazioni idealistiche o metafisiche, da una parte, o delle stroncature, pur benevole, degli “specialisti”, cultori della strategia e della geopolitica.  Le interpretazioni di quello che potremmo definire nei termini di un “duplice viaggio”, considerando in modo unitario e inscindibile sia quello di Francesco in Terra Santa come pellegrino che quello dei suoi illustri ospiti alla Santa Sede, oscillano tra dimensione essenzialmente politica e quella esclusivamente religiosa, come se fosse davvero possibile, in un mondo in cui le identità si compongono di appartenenze multiple, territoriali, politiche, spirituali, culturali, distinguere in modo netto o anche solo approssimato i due ambiti. D’altra parte, il conflitto israelo-palestinese non ha mai assunto in modo caratterizzante – se non a tratti e in alcuni segmenti delle rispettive società - la dimensione dello scontro religioso, trattandosi piuttosto di ripartizione o condivisione di territori. Al tempo stesso, la stessa natura dei luoghi contesi, per il loro significato esplicito, ancestrale e identitario, rimette continuamente il gioco la questione religiosa, che rimanda ai fondamenti di antiche civiltà mediterranee, che hanno però definitivamente proiettato il loro orizzonte di senso su scala universale, ben oltre i confini politici, etnici, linguistici di un minuscolo lembo del Vicino Oriente. Dinanzi a tale complessità di rimandi e di implicazioni, Francesco ha scelto la strada più diretta, più semplice (anche se tutt’altro che semplicistica): ritrovarsi assieme, attorno a questo misterioso groviglio storico-politico e al contempo spiritualmente fondativo, per un’anamnesi possibilmente condivisa, nella consapevolezza, tuttavia, che ciò non possa giustificare alcuna amnesia.
Il momento storico in cui si colloca questo gesto inclusivo, senza pretese di essere conclusivo, è quello che nella migliore delle ipotesi si potrebbe definire come stallo diplomatico, e nella peggiore come conservazione (armata) dello status quo. Sembra estremamente difficile che le parti – Israeliani e Palestinesi – possano trovare una soluzione concordata sulla base delle varie formule sinora escogitate, a cominciare da quella “due popoli, due stati”, che dovrebbe affrontare la questione, grande come un macigno, dei confini realistici di un nuovo Stato palestinese indipendente, fornendo al contempo solide garanzie di sicurezza ad Israele. L’esaurirsi, ormai prossimo, delle ipotesi ancora praticabili richiede un profondo mutamento di prospettiva, e di immaginare soluzioni forse originali e inesplorate, a cominciare da quel vero e proprio intricato reticolo di micro-governance civile, religiosa, securitaria e comunitaria e di fratture e ricomposizioni intersecantesi e sovrapposte che è Gerusalemme. La profezia, spesso ripetuta dal Cardinale Martini, che la pace a Gerusalemme condurrà alla pace su tutta la terra ha un risvolto forse di minore portata, ma non meno rilevante, e che cioè una riconfigurazione degli spazi vitali e sociali di Gerusalemme appare una pre-condizione o comunque un elemento imprescindibile della soluzione complessiva del conflitto israelo-palestinese e in cui la comune radice delle religioni del Libro ha senza dubbio ancora molto da offrire.
Inoltre, il panorama complessivo del Medio Oriente e del Nordafrica è cambiato radicalmente in pochi anni, e in particolare a partire dal 2011 con le transizioni politiche nel mondo arabo-islamico (tutt’altro che concluse, e con preoccupanti segnali di involuzione, tranne forse per la Tunisia), con il virtuale disfacimento di un attore importante come la Siria, la contrapposizione faziosa in Libia, il sorgere di una entità pseudo-statale e dagli inquietanti tratti neo-imperiali come l’ISIS e la sua ossessione antistorica del Califfato. Mentre i confini tra Israele e (futuro) stato palestinese non sono stati ancora definiti, e quelli derivanti dalla guerra arabo-israeliana del 1967 profondamente contestati, sono di fatto messi in discussione per la prima volta altri confini esistenti, tracciati frettolosamente già alla fine della prima guerra mondiale con l’accordo Sykes-Picot del 1916 tra Gran Bretagna e Francia che sancirono divisioni arbitrarie, di matrice coloniale, in Medio Oriente e la successiva nascita di numerosi stati indipendenti dopo il secondo conflitto mondiale. A ciò si aggiunga la mobilitazione degli attori regionali nel conflitto siriano, con l’interventismo indiretto, di opposta matrice, degli stati del Golfo (in particolare i due “giganti” dell’Arabia Saudita e dell’Iran).
In questo ribollire di tensioni antiche e nuove, il “segno” di Francesco, così compiutamente, pazientemente e saggiamente ricostruito, descritto e contestualizzato in questo scritto di Paolo Loriga, appare molto più che un messaggio di speranza; è piuttosto un appello “proattivo”, un’irruzione, ma in punta di piedi, una voce orante e ragionante dal deserto più che una voce che grida nel deserto, e che interpreta il disagio profondo dell’umanità periferica proprio nel cuore di un conflitto così centrale e così lacerante come quello mediorientale.

Non guerre di religione, ma la religione della guerra

A metà della seconda decade del 21º secolo si fa fatica a identificare i caratteriprecisi di un sistema internazionale che è ben lontano dalle fattezze dell'ordine. Quello che è certo è che la lunga transizione iniziata con la fine della guerra fredda non solo non è ancora giunta a maturazione, ma sta assumendo i tratti della confusione globale. 
Diventa sempre più evidente che le forze economiche della globalizzazione si confrontano con quelle ben più antiche e profonde delle culture e delle identità. La globalizzazione, infatti, non ha nulla a che vedere con l’universalità; è unilaterale, caratterizzata in senso geo-culturale come emanazione dell’era (e dell’area) euro-atlantica, e in quanto tale strutturalmente egemonica. 
In alcune aree del mondo, ed in particolare in Medio Oriente, si manifestano fattori di instabilità che vanno ben oltre il concetto di scontro di civiltà. In molti casi, un rozzo radicalismo si unisce a pratiche di violenza e di intolleranza che sembravano essere relegate negli archivi della storia. 
In questo contesto già di per sé critico, l'errore più grave che potremmo compiere sarebbe quello di cadere nella trappola tesa da pseudo-islamisti sanguinari, che hanno tutto l'interesse a radicalizzare l'opposizione all'occidente in termini di guerra di religione. 
Purtroppo, prestigiosi intellettuali ed editorialisti italiani e stranieri hanno esortato l'opinione pubblica europea a prendere atto di questa situazione di belligeranza a sfondo religioso e hanno sostenuto che non si tratterebbe di una novità, in quanto guerre di religione costellano l'intera storia dell'umanità. 
In realtà, è proprio la storia ad insegnarci che le guerre più devastanti e i conflitti più cruenti hanno avuto luogo per ragioni che non hanno nulla a che fare con la religione. Basterebbe ricordare, ad esempio, che la prima guerra mondiale - che nel 2014 viene tristemente ricordata a un secolo dal suo inizio - non aveva certo motivazioni di carattere religioso (era uno scontro tra nazioni “cristiane”), né le aveva la seconda guerra mondiale. Persino il conflitto israelo-palestinese non nasce da radici religiose, essendo essenzialmente - fino a tempi recenti - una questione di territori e di sovranità. Le famose “guerre di religione” che, secondo la narrazione liberal-democratica, imperversarono in Europa nel 17º secolo, erano in realtà causate da mire espansionistiche,questioni dinastiche e dallo stesso processo di formazione dello stato moderno,il quale, lungi dall'averci salvato dalla guerra, al contrario l’ha resa più assoluta e devastante. Non è stata la religione a inventare l’arma atomica, ma la politica contemporanea.
Il militarismo, l'egemonia economica, l'intolleranza a tutti i livelli sono cause di conflitto unitamente a tanti altri fattori sociali e culturali di cui la religione costituisce solo una componente. Persino gli aguzzini dell'ISIS perseguono non tanto il trionfo dell'Islam in quanto tale (o una concezione falsificata e strumentale di tale religione) ma la formazione di un’entità politica di natura statuale o addirittura dei tratti vagamente imperiali come il califfato. Paradossalmente la loro assoluta e dogmatica opposizione all'occidente si fonda sull’accettazione distorta di una delle istituzioni politiche inventate proprio nel mondo euro-atlantico, e cioè lo stato moderno e il connesso apparato di potere, per non parlare degli strumenti tradizionali di tutti “i troni e le dominazioni” in ogni tempo e in ogni angolo del mondo, come il genocidio, la propaganda e persino l'uso cinico degli strumenti della comunicazione visiva e della rete globale. 
Tutto ciò ha molto poco a che fare con la religione e invece ha molto a che vedere con le consuete ricette del dominio di oligarchie e della prevalenza di strutture improntate alla cultura bellica. Persino il meccanismo volutamente terrorizzate delle raccapriccianti esecuzioni di innocenti risponde a una logica di controllo sociale e dell’opinione, come ha dimostrato Foucault in “Sorvegliare e punire”: chi usa tali meccanismi di psicologia sociale ricerca l’altrui sottomissione e un governo basato sull’intimidazione e la minaccia.
Da ogni punto di vista, nel caso dell'ISIS e di tutte le altre organizzazioni assimilabili si dovrebbe parlare non tanto di guerre di religione ma, più concretamente, realisticamente e prosaicamente, di religione della guerra. Sono infatti la politica di potenza, la sete di conquiste territoriali e l’esercizio del potere senza scrupoli le motivazioni delle presunte guerre di religione! 
Tantomeno ha senso parlare di scontro di civiltà (spesso mescolate in un minestrone indigesto con le culture e le religioni, che sono ben altra cosa); in realtà si dovrebbe riconoscere l'esistenza di uno scontro all'interno delle civiltà tra coloro che intendono l'identità in senso esclusivista e aggressivo e quanti invece considerano che essa è sempre il risultato di incontri, confronti,interazioni, scambi e reciproche “contaminazioni”. L'intellettuale di origine libanese Amin Maalouf scrisse qualche anno fa un libro il cui argomento fondamentale erano le cosiddette “identità assassine”, proprio a sottolineare la deriva violenta che i riferimenti alle tradizioni, alle culture e alle religioni possono assumere se non mediate in un contesto di pluralismo e di dialogo tra le differenze.
Gli attentati, i bombardamenti, le distruzioni che colpiscono Chiese cristiane di ogni denominazione, Sinagoghe, Moschee sunnite e sciite, Templi buddisti e sikh, dovunque siano situati, sono la riprova che si tratta non di guerre di religione, ma dell’anti-religione per eccellenza, visto che le vere religioni hanno a cuore, piuttosto, l’unità dell’umanità e l’armonia con il creato. 
In definitiva, continuare a parlare di guerre di religione come un fenomeno riprovevole sembrerebbe assolvere implicitamente altre tipologie di guerre, che invece sarebbero razionali e in linea con la modernità, come se la guerra in quanto tale non fosse, di per sé, senza alcuna aggettivazione, un relitto della storia, una pratica barbara da abbandonare, una “istituzione” che ha dimostrato di essere fallimentare se pensata come un “praticabile” strumento politico o sociale. 
Chiara Lubich affermava con grande lucidità e saggezza, indicando un cammino di unità pur pienamente consapevole delle criticità mondiali, che “è finito il tempo delle ‘guerre sante’. La guerra non è mai santa, e non lo è mai stata. Dio non la vuole. Solo la pace è veramente santa, perché Dio stesso è la pace.”

Ancora l'Iraq


Stavolta, la colpa non è degli Americani. Se l'Iraq sembra essere giunto al limite della disintegrazione ció si deve in primo luogo al settarismo politico interno. Il premier al-Maliki, dopo aver guidato il Paese durante la difficile fase del disimpegno militare degli Stati Uniti, non ha voluto tener conto del frammentato panorama politico, culturale e religioso interno. In particolare, non ha adottato, come pure sarebbe stato necessario, una politica di inclusione nelle responsabilità di governo anche dei sunniti, presenti nell'area centrale del Paese, mentre il sud rimane sotto l'egida degli sciiti e il nord sotto quella dei curdi. Su questo sfondo si è innestata l'offensiva armata del cosiddetto "Stato islamico dell'Iraq e del Levante", il cui obiettivo è sfruttare l'instabilità irachena e la guerra civile in Siria per dar vita a una sorta di "Grande Siria" (più che Califfato) islamista e turbolenta. Tuttavia la posta in gioco è ben più ampia. È in atto in Medio Oriente una ristrutturazione degli equilibri regionali pari solamente a quella seguita alla disintegrazione dell'Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. La fonte di tale cambiamento, stavolta, si rinviene principalmente nel rimescolamento delle carte della politica interna in molti Paesi arabo-islamici, creando un intreccio difficile da districare tra questioni "domestiche" e questioni internazionali che tirano in ballo attori esterni come Stati Uniti, Russia, Turchia. L'Iraq, come la Siria, dimostra - purtroppo con effetti negativi - la potenza di fattori trans-nazionali, come l'identità araba, ma anche la religione, coinvolgendo un Paese che arabo non è, ma che è oggi il centro dell'Islam sciita: l'Iran. Un Paese che, piaccia o no, è oggi tra i più stabili dell'intera area medio-orientale. Antagonista di Washington in Siria e per gli attriti dovuti al programma nucleare, nel caso iracheno ha interessi e un'influenza che possono risultare decisivi per risolvere questa ennesima crisi in Mesopotamia. Quello che è certo è che è ormai ora che le crisi medio-orientali siano risolte dagli Stati dell'area. Gli Stati Uniti non hanno più nessuna voglia di farsi trascinare in conflitti irrisolvibili, mentre Russia e Europa non sembrano avere né la volontà politica né i mezzi per farsene carico. È maturo il tempo per un'organizzazione mediorientale per la pace e la sicurezza.

Mediterraneo: imparare la democrazia


Da sempre il Mediterraneo è terra di miti.  Tuttavia i miti antichi sono ben diversi dai “miti” moderni. I racconti mitologici tramandatici dalla cultura classica narrano di percorsi di passaggio, di sfide e di risposte vittoriose; ma anche le sconfitte acquistano un senso. La mitologia politico-mediatica del nostro tempo, invece, si nutre di luoghi comuni e scorciatoie. Come il “mito” della inevitabile involuzione della “primavera araba” in “inverno islamista”.  Che succede davvero in Egitto, in Tunisia, in Libia? Semplice: questi Paesi stanno faticosamente e anche contraddittoriamente apprendendo a divenire delle democrazie.  In Egitto e in Tunisia i movimenti islamici sono giunti al potere attraverso elezioni, e non sono, pertanto degli usurpatori del potere. Passata la ventata di novità e la popolarità del momento, i governanti dei Paesi arabi “liberati” da regimi autoritari stanno sperimentando la stessa tentazione per le scorciatoie autoritarie. Ma queste nuove classi politiche dirigenti, al contrario dei predecessori, devono far fronte a una nuova cultura politica, basata sulla partecipazione popolare, sulla protesta, sulla “piazza”. Il paradosso è che in Egitto, ad esempio, gli islamisti hanno sostanzialmente abbracciato una politica economica neo-liberale (privatizzazioni, deregolazione, mercato). Dalla “piazza Tahrir” Morsi, pur contestatissimo, non è certo visto come un nuovo Khomeini. Quanto ai movimenti salafiti radicali, essi non guardano all’Iran, ma al “modello” saudita di un islamismo “esteriore”. Per evitare il più possibile interferenze esterne, Morsi ha dedicato buona parte del suo mandato, sinora, alla politica estera, “mediando” in occasione delle nuova crisi di Gaza con Hamas, mantenendo relazioni poco più che cordiali con l’Iran (nessuna alleanza strategica è alle viste) e prendendo le distanze dalla Siria, sempre più isolata anche nel mondo arabo-islamico. In Tunisia gli islamisti di al-Nahda devono fronteggiare un malcontento popolare persino più accentuato che in Egitto. Il movimento sindacale in Tunisia è forte ed articolato,  e si è già creato un solco con il nuovo Governo. Inoltre al-Nadha, a differenza dei Fratelli Musulmani in Egitto, non può contare su una tacita alleanza con l’esercito.
In Libia il dopo-Gheddafi si regge su un precario equilibrio. Tuttavia la transizione libica fa eccezione rispetto al panorama islamizzante dell’area: lo scorso luglio i Libici, nelle loro prime elezioni “post-rivoluzionarie” hanno sancito la sconfitta politica dei movimenti islamisti radicali, pur essendo approssimativa l’idea che abbiano vinto i “liberali”. Lo scenario politico è tuttora frammentato e la ricostruzione di un’ identità politica nazionale non sarà cosa semplice né immediata.
Nonostante queste incongruenze, dobbiamo renderci conto che le rivolte hanno cambiato per sempre il volto della regione; ma, prima di raggiungere un’Itaca democratica, i nuovi Ulisse mediterranei hanno ancora da viaggiare, tra molte insidie.

La trappola islamista


In tutti i processi politici complessi, e specialmente nelle transizioni, vi sono “attori” che non perseguono altro obiettivo che quello del ”deragliamento”. In altre parole, vi sono forze politiche, sociali ed economiche che scommettono sul fallimento piuttosto che sugli esiti positivi. Nella “primavera araba” i profeti di sventura non sono mancati in Occidente; ma non sono mancati – e non mancano tuttora – i “sabotatori” locali.  L’attentato all’Ambasciatore Stevens a Bengasi – e occorre ricordare che il suo “curriculum” ce lo mostra soprattutto come un uomo del dialogo – va analizzato alla luce di questo tentativo di far saltare il consolidamento democratico.  Ma bisogna  essere vigilanti e non cadere nella trappola nella quale gli “spoilers”, quelli che remano contro, ci vogliono attirare. Una prima lezione di questa prudenza ci viene proprio da Obama, che ha giustamente sottolineato, nella prima dichiarazione che ha fatto seguito all’attentato di Bengasi, come le religioni in quanto tali vadano tenute fuori da questo cinico gioco al massacro. E soprattutto ci mettono in guardia dal confondere il sentimento religioso di interi popoli con l’agenda politica di pochi. Ciò vale anzitutto per l’Islam, che è spesso ostaggio di “islamisti” i cui obiettivi hanno a che fare più con la conquista e conservazione del potere che con la diffusione del credo del Profeta.  Ma vale anche per l’Occidente “cristiano”, quando gli “atei devoti” utilizzano tragedie e lutti che colpiscono l’umanità intera come la conferma che nessun dialogo è possibile, che esistono culture e religioni “superiori” e che l’unica politica internazionale plausibile, in questi casi, è l’isolamento o l’esportazione armata della democrazia.  Era questo probabilmente l’obiettivo anche degli autori del film che ha scatenato l’indignazione e la protesta nel mondo islamico: una provocazione, per generare una reazione a catena che porti a concludere che nessuna “primavera” è possibile nel mondo arabo. La strategia europea verso queste aree dovrebbe essere improntata a.. maggior realismo: al contrario di quanto si crede, infatti, non è affatto “realistico” concepire tali società come completamente plagiate dalla logica dell’islamismo militante aggressivo.  Era inevitabile e scontato che gli eventi nella regione mediterranea e mediorientale avrebbero portato all’espansione della sfera di partecipazione politica, con l’ingresso sulla scena politico-elettorale di nuovi attori; ed era perfettamente prevedibile la comparsa o il consolidamento di movimenti politici di ispirazione religiosa, in taluni casi precedentemente banditi dalla vita politica nazionale. Lungi dal demonizzare tale processo, si sarebbe dovuto prendere atto che senza una piena integrazione dell’Islam politico nello scenario la stessa sostenibilità delle trasformazioni in corso avrebbe potuto essere messa a repentaglio.In Paesi come la Tunisia e l’Egitto, il dialogo politico di cui avremmo bisogno riguarda una vecchia idea europea. In molti Paesi del Vecchio Continente - ad esempio in Italia, Germania, Belgio, Spagna, e per alcuni versi anche in Francia- sono state sperimentate, negli anni, formule di impegno politico di cittadini portatori di visioni del mondo improntate a motivazioni religiose. L’esperienza storica dei movimenti politici europei di ispirazione religiosa è stata caratterizzata da una modalità di presenza nel sistema politico che ha tenuto conto dei principi di laicità e si è articolata nel contesto di istituzioni democratiche e rappresentative, con il pieno recepimento dei principi costituzionali e il rispetto del pluralismo politico e culturale. Se è stata possibile una “democrazia cristiana” (come ragione dell’impegno politico dei credenti) perché permettere a pochi islamisti violenti e reazionari di convincerci che non sarà mai possibile una “democrazia islamica”? Attenzione: è questo che vogliono farci credere gli epigoni islamici dello scontro di civiltà. 

Il Cardinale Martini e la pace a Gerusalemme

Ho conosciuto il Cardinal Martini nel 2006, a Gerusalemme. Ero in missione, nelle mie funzioni diplomatiche, con l'allora Ministro degli Esteri, Massimo D'Alema. In un incontro con diverse personalità della Chiesa cattolica in Medio Oriente, si affontarono in particolare i nodi della politica medio-orientale, ed in primo luogo la questione israelo-palestinese. Il Cardinale Martini ascoltò con grande attenzione le parole di D'Alema, che sosteneva (a ragione) che era sua convinzione che quando si sarebbe fatta la pace a Gerusalemme ci sarebbe stata pace nel mondo intero. Il Cardinale Martini annuì e con grande umiltá si disse d'accordo. Furono altri religiosi presenti all'incontro a ricordare che quella era da tempo una "profezia" formulata proprio dal Cardinale Martini nei suoi profondissimi scritti sulla Città Santa. Una bella coincidenza di visioni tra un laico ed un autentico testimone del Vangelo. Ricordo di Martini, già allora stanco ed affaticato, il sorriso sereno ed accogliente. Egli stesso ci raccontò di aver dato vita ad un gruppo di famiglie israeliane e palestinesi che avevano perso dei familiari nell'annoso conflitto che affligge la regione. Un segnale di pace semplice e concreto. Mi fece l'impressione di un fiotto di luce che si fa strada nel buio di un odio radicale ed apparentemente inestirpabile. La pace in Medio Oriente ha un nuovo "Mediatore" a cui rivolgersi per chiedere luce e speranza.

L’Europa, il Mediterraneo e il dialogo post-secolare

Gli eventi in corso nella regione mediterranea e mediorientale stanno portando già - e porteranno verosimilmente ancor più in futuro - ad una maggiore apertura democratica in buona parte dei paesi dell’area, non solo in quelli direttamente toccati dai sommovimenti popolari.
In particolare, si assiste all’espansione della sfera di partecipazione politica, con l’ingresso sulla scena politico-elettorale di nuovi attori. In alcuni di tali Paesi hanno fatto la loro comparsa o si sono consolidati movimenti politici di ispirazione religiosa, in taluni casi banditi, sinora, dalla vita politica nazionale. In ogni caso, occorre essere consapevoli che senza una piena integrazione dell’Islam politico nello scenario la stessa sostenibilità delle trasformazioni in corso può risultarne indebolita.
In molti Paesi europei (ad esempio in Italia, Germania, Belgio, Spagna, e per alcuni versi anche in Francia) sono state sperimentate, negli anni, formule di impegno politico di cittadini portatori di visioni del mondo improntate a motivazioni religiose. L’esperienza storica dei movimenti politici europei di ispirazione religiosa è stata caratterizzata da una modalità di presenza nel sistema politico che ha tenuto conto dei principi di laicità e si è articolata nel contesto di istituzioni democratiche e rappresentative, con il pieno recepimento dei principi costituzionali e il rispetto del pluralismo politico e culturale.
In tale ambito, potrebbe rivelarsi utile instaurare un dialogo, nel Mediterraneo, in questa fase di cambiamenti strutturali nella regione, tra organismi e singoli studiosi che possano condividere con interlocutori del mondo arabo analisi e proposte basare sul patrimonio di esperienze e di idee sopra richiamato, evidenziandone le opportunità ma non sottacendone anche le possibili criticità.
In questo scenario dovrebbe essere inclusa anche la Turchia, ove è già in corso un esperimento di declinazione politica di principi derivanti dalla religione islamica, pur nel contesto della condizionalità democratica necessaria per ottemperare ai parametri richiesti per l’ingresso nell’Unione Europea.
Inoltre che questo tema deve essere approfondito anche in una dimensione interconfessionale ed interreligiosa.
Alcuni punti vanno fissati anche nella prospettiva di una riflessione su tale ipotesi di nuovo partenariato tra attori politici:
• la prospettiva deve guardare al futuro, non al passato;
• non ha relazione alcuna con le "formule politiche" (tipo unità politica dei cristiani o degli “islamici”);
• non deve porsi dal punto di vista delle religioni, ma da quello dei sistemi politici e degli attori in essi rilevanti;
• non riguarda l'Italia o altri singoli Paesi, ma il rapporto tra il mondo euro-atlantico e quello mediterraneo;
• concerne la dimensione che è stata battezzata “post-secolare”; essa chiama in causa, tra le altre cose, il ruolo pubblico delle religioni dal punto di vista delle motivazioni dell’impegno politico;
• richiede un approfondimento sulla laicità dello stato e delle istituzioni alla luce sia dell’esperienza europea che dei nuovi movimenti apparsi sulla scena nel mondo arabo-islamico (da questo punto di vista, la modellistica deve essere il più possibile ampia, e deve essere collocata su un continuum delle possibili declinazioni tra Islam e politica che parte, dal lato del radicalismo, dalla pseudo-teocrazia iraniana e giunge, dal lato del pluralismo, all’assetto indonesiano, passando per il “canone” pakistano e l’accomodamento pragmatico turco);
• comporta una seria e fondata analisi comparata tra i diversi movimenti al fine di identificare i possibili segmenti di intersezione ideale e operativa
Un argomento a parte riguarda l’eventuale grado di condizionalità nell’approccio dialogante nei riguardi dei movimenti ad ispirazione islamica che decidono di entrare nell’agone politico. Sicuramente sono importanti i parametri della:
• rinuncia ad ogni forma di violenza;
• accettazione di valori democratici in senso lato (in particolare il pluralismo);
• uguaglianza (non discriminazione, questioni di genere).
A questi principi politici se ne possono aggiungere anche altri, legati in particolare alla questione dell’adozione di un quadro giuridico ed etico fondato sulla libertà individuale e non esclusivamente sulla soggettività delle comunità.

Israele e la primavera araba

Può sembrare paradossale che Israele, che per molto tempo è stata considerata l’unica democrazia in tutto il medio oriente, abbia reagito con una certa perplessità alla “primavera araba” ed alle sue implicazioni di maggior apertura democratica. Ma le profonde trasformazioni che stanno avendo luogo nella regione, ed in particolare la complessa transizione in corso in Egitto, costringono Tel Aviv a ripensare dalle fondamenta tutto il sistema di alleanze costruito faticosamente in decenni. L‘Egitto del futuro confermerà il Trattato di pace con Israele, e se si, a quali condizioni? Che ruolo assumeranno i movimenti islamisti, ed in particolare i Fratelli Musulmani, e che conseguenze ciò avrà su Hamas e la striscia di Gaza? Anche la Siria, certamente non considerata favorevolmente da Israele, è investita da profonde tensioni, che potrebbero persino rendere ancora più difficile il rapporto tra Tel Aviv e Damasco. La Giordania, che ospita centinaia di migliaia di profughi palestinesi, è un altro fronte che potrebbe aprirsi. I rapporti tra Israele e la Turchia, buoni per diversi anni, si sono raffreddati dopo l’incidente della Mavi Marmara (la nave turca che, di questi tempi nel 2010, portava aiuti a Gaza, assaltata da incursori israeliani, con diverse vittime a bordo). Insomma, strategicamente le sfide per Israele potrebbero divenire molto impegnative. D’altra parte, pensare che i mutamenti strutturali in atto lascino fuori dal gioco il nodo cruciale del Medio Oriente, e cioè l’irrisolta questione palestinese, è una pura illusione. Da parte palestinese, costatato il totale immobilismo nei negoziati bilaterali, e considerato che la politica degli insediamenti israeliani illegali prosegue inalterata, si tenta ora di giocare la carta delle Nazioni Unite. In ipotesi, una risoluzione dell’Assemblea Generale dovrebbe, in settembre, dichiarare la “nascita” dello Stato palestinese. Una mossa puramente politica, visto che, in ogni caso, sarebbero necessari negoziati diretti tra le parti perché l’auspicio si trasformi in realtà. Ma anche Israele dovrebbe rendersi conto che la paralisi politica in questo momento non paga. La storia si è rimessa in marcia in Medio Oriente, e tutti sono chiamati a indirizzarla verso esiti di pace.

Islam politico o Islam "a-politico"?

E’ ancora troppo presto per dire se i cambiamenti strutturali in corso in diversi Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente avranno positive conseguenze anche in termini di “apertura” dei rispettivi sistemi politici. E’ in ogni caso prevedibile che un numero considerevole di formazioni ed attori politici intenda accedere alla partecipazione democratica nel contesto di sistemi elettorali competitivi. E’ ipotizzabile che molteplici partiti politici di diretta ispirazione islamica non solo partecipino ai processi elettorali, ma anche che conquistino una considerevole rappresentanza parlamentare, e, in prospettiva, assumano responsabilità di governo. A questo proposito occorre sottolineare come un “Islam politico”, vale a dire incanalato nei processi istituzionali di partecipazione e rappresentanza nel contesto delle regole costituzionali, rappresenterebbe una soluzione senza dubbio migliore di un islamismo a-politico, vale a dire privo di una cultura politica pluralista e inclusiva e possibile preda di agitatori che fomentano l’integralismo e l’intolleranza. Partiti politici di ispirazione religiosa, purché organizzati in modo democratico ed incardinati nelle istituzioni rappresentative, potrebbero dunque contribuire a disinnescare potenziali tensioni interne di matrice religiosa o in senso lato culturale (ad esempio tra “laici” e osservanti). D’altra parte, le esperienze di partiti democratici di ispirazione religiosa in democrazie competitive (basti pensare all’Italia, alla Germania, alla stessa Turchia), ormai consolidate nel tempo, sono numerose e si sono rivelate fruttuose per l’intero sistema politico.

L'Europa, il Nordafrica e il linguaggio della paura

I fatti libici rappresentano il risvolto drammatico, tragico del risveglio politico dell’Africa del nord e del mondo arabo. E hanno dato la sveglia anche alla comunità internazionale, con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha finalmente preso una posizione netta e ferma: sanzioni e soprattutto Corte Penale Internazionale per Gheddafi.
Certamente in Libia ancor meno che in altri paesi si può semplicisticamente parlare di ”rivolta del pane”, soprattutto perché in Libia, a motivo della politica paternalistica e clientelare di Gheddafi, la popolazione, grazie alla ricchezza proveniente dai proventi di gas e petrolio, ha goduto mediamente di condizioni economiche migliori rispetto ad altri Paesi dell’area. Hanno pesato altri fattori. Il primo è che il Paese non si è mai definitivamente amalgamato nelle sue componenti regionali, tribali ed etniche. Rilevante è che la regione della Cirenaica, con il capoluogo Bengasi (dove ora è stato formato l’embrione di governo libico alternativo), è stata il punto di riferimento di questa sollevazione, animata dalla confraternita musulmana autonomista dei Senussiti.
Il secondo fattore è l’aspirazione ad aperture democratiche dopo oltre 40 anni di dittatura.
Da questo punto di vista, Bush aveva ragione, quando sottolineava la necessità della diffusione della democrazia anche nel mondo arabo, ma ha avuto torto sulle modalità, perché la democrazia non si impone e non si esporta, ma è legata a fattori endogeni. Questo significa che ha i suoi tempi, i suoi cicli, le sue motivazioni, legate alla maturazione della cultura politica di un paese.
Si parla a sproposito del rischio del “fondamentalismo islamico” al potere. A parte il peso relativo di tali forze, i movimenti d’ispirazione islamica non vanno confusi con l’islamismo violento. La grande scommessa è che essi siano incanalati dentro processi democratici. Non dobbiamo dimenticare che anche in Italia e in Germania, ad esempio, abbiamo avuto i cristiano-democratici, cioè forze politiche di ispirazione religiosa che sono state i pilastri della rinascita dei nostri Paesi dalle rovine della seconda guerra mondiale. Per quale ragione non si può pensare a una “democrazia islamica” (non “islamista”), ma senza fondamentalismi di sorta? Un esperimento in tal senso nella regione rimane la Turchia, con l’AKP di Erdoğan. Manteniamo dunque aperta la prospettiva europea della Turchia: “normalizzando” il rapporto tra democrazia e Islam all’interno dei parametri dell’Unione Europea si può generare un positivo “effetto domino” in tutto il mondo islamico. Nel suo discorso tenuto al Cairo, Obama disse che l’Islam è sempre stato parte della storia americana. Ancor più di quella europea, ma nessun leader europeo ha mai fatto un discorso saggio, coraggioso e onesto come quello di Obama al Cairo. L’Europa (e l’Italia in particolare) parla solo il linguaggio della paura: ondate di immigrazione, terrorismo di matrice islamica. La democrazia, a casa e fuori, non si costruisce se manca una seria e realistica visione politica del futuro. Non facciamo di una rivoluzione un’altra occasione persa.

Islamic Calvinism?

For decades, the fulcrum of political debates regarding Turkey was the apparent clash between Islam and democracy. Now that a southeastern European and Islamic version of the western “Christian Democratic Party” model is in power in the country, that dilemma now seems to be outdated, though naturally not everyone shares this view. There are still doubts among European political leaders about the ability of the new “confessional” political class to bring about the reforms needed to qualify for EU membership. Such reservations could be entirely wrong, but the question now is of a different nature. The case in point is no longer politics and religion, but rather economy and religion. In Turkey, a new form of Turkish Islam is emerging, one which is pro-business and pro-free market. It's being called Islamic Calvinism.
In the Anatolian province of Kayseri, a new model of economic development is reshaping the productive structure of the country. New successful entrepreneurs – sometimes dubbed as the "Anatolian Tigers" – are giving a substantial contribution to what became in 2010 the world's 17th largest economy, with a GDP of $780 billion.
The famous book of Max Weber on the Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism perhaps needs an additional chapter. The central thesis of Weber was not that religion is the determinant causal factor of economic development, but rather that there exists, between certain religious forms and the capitalist lifestyle a relationship of “elective affinity”. On that ground Michael Novak, a catholic thinker, wrote about the conditional compatibility between the Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism. Of all the questions raised by Novak, the possibility of economic competition in accordance with religious beliefs seems to be the most intriguing. For the Catholic thinker, a noncompetitive world is a world reconciled with the status quo. To compete - goes on Novak – is not a vice; on the contrary, it is “the form of every virtue and an indispensable element in natural and spiritual growth”. Some Christians would object to this thesis, recalling for instance the teaching of universal love and selflessness of St. Francis. Ironically, the Anatolian Tigers could easily subscribe to such a statement.
Central Anatolia, with its rural economy and patriarchal, Islamic culture, is often seen by Western Europeans as the heartland of a land far from modernity. And yet the prosperity reached in recent years in those eastern regions of Turkey has led to a transformation of traditional values and to a new cultural outlook that embraces hard work, entrepreneurship and development. That could lead to a sort quiet Islamic reform, bringing together, as Novak argued for Christianity, a solid blend of “democratic polity, an economy based on markets and incentives, and a moral-cultural system which is pluralistic and, in the largest sense, liberal”. To be sure, many questions remain unanswered. Is it religion or rather profit the incentive for production and investment? What about the socialization of profits (like in the experiment of the “Economy of Communion” of several Italian Christian entrepreneurs who divide up their profits in three baskets: a third for the poor, a third for culture and education, and the remaining for investments)? Finally, how could Anatolian capitalism be reconciled with the principles of Islamic finance and with the “problem” of interest?
It is curious to see that whereas Islamic finance is receiving more and more attention in the economic circles of the West – particularly after the financial crisis of 2008 – the Anatolian Tigers seem to adopt a Muslim (allegedly more ethical) form of Western turbo-capitalism. Paradoxically, whereas the capitalist model is more and more criticized in the Christian West, it seems now flourishing in a country with a Muslim majority. As for the liberal economic “Copenhagen criterion” (a functioning market economy capable of coping with competitive pressure and market forces within the Union) required for the EU membership, Turkey might be more qualified than some of the current member states, who no longer have a unbreakable faith in free market, and for a good reason. No surprise: it’s globalization, stupid! (First published as The Anatolian Spirit of Capitalism, "Longitude", February 2011)

Nord Africa: il cambiamento come opportunità internazionale

Con l’esplodere della “rivoluzione” egiziana non solo il nordafrica, ma tutto il Medio oriente e l’intero sistema internazionale dovranno fare i conti con un cambiamento strutturale. Dinanzi a questo mutamento ci si può porre in due modi: tentare di “limitare i danni” oppure vedevi una nuova opportunità. Sinora Israele, giustamente preoccupata per la sua sicurezza, e l’Arabia Saudita, più concentrata invece sui possibili “rischi” di cambiamenti interni, hanno per ragioni diverse paventato questa evoluzione. Più coraggio è venuto dagli Stati Uniti, che avevano sinora nell’Egitto, accanto ad Israele, il maggior alleato strategico. L’Europa rimane sospesa in un difficile gioco di equilibrio tra rischio di interferenza (negli affari interni di altri Paesi) e prospettiva di irrilevanza (per eccesso di prudenza).
Ma la questione riguarda anche altri Paesi, come ad esempio la Turchia: in effetti Ankara, con il suo partito islamico (ma non “islamista”) al potere, potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per quanti ritengono possibile coniugare Islam e democrazia (al pari di cristianesimo e democrazia).
Vero è che in questa parte di mondo si registra un intreccio complesso di fattori geo-strategici, di tensioni legate a vecchi e nuovi radicalismi, di contrastati e contrastanti progetti egemonici, di contesti economici che devono fare i conti con crescenti segnali di instabilità sociale, e che la crisi finanziaria globale ha reso più acuti. Il Medio Oriente è in sé stesso un sistema internazionale in sedicesimo. In effetti, tutte le questioni politiche più rilevanti, e non solo dal punto di vista internazionale, trovano in quest’area una sorta di paradigma parossistico. Tutte le tensioni che attraversano il mondo contemporaneo, ed anche i Paesi occidentali, si palesano con grande rilievo. In questa regione del pianeta si sperimentano, per così dire, in modo drammatico alcuni rivolgimenti dell’assetto interno ed internazionale: il rapporto tra religione e politica e, più in generale, tra convinzione e ragione, tra comunità ed individuo, tra stato e società, tra mondialità e località. Tutti i caratteri della sovranità sono coinvolti e spesso radicalmente messi in discussione: popoli, stati, territori.
E allora perché non approfittare del momento “epocale” per trasformare questa complessità in un valore? Sorprende, in generale, che l’eccezionalità degli eventi sulla riva sud del Mediterraneo non abbia provocato sinora una mobilitazione della comunità internazionale di adeguata rilevanza.
La profondità dei mutamenti in corso giustificherebbe, invece, un’iniziativa politica internazionale di primaria importanza, sul modello della Conferenza di Helsinki del 1975, nella quale considerare diversi ambiti di cooperazione, relativi a sicurezza, democratizzazione, rispetto dei diritti umani, sviluppo, ma con un formato più flessibile e ampio: non solo i governi, ma anche altri importanti attori interni. Una conferenza inclusiva ed originale, non i paludati rituali della diplomazia.

Mediterraneo: la democrazia possibile

La diffusione della democrazia del mondo arabo è stata spesso confusa, nello scorso decennio, con il tema controverso della cosiddetta “esportazione della democrazia”. Un obiettivo che è stato percepito, specie nei Paesi che ne avrebbero dovuto “beneficiare”, come una forma di imposizione di modelli euro-atlantici ad un mondo “mediterraneo”. Anche perché di mezzo c’era una Guerra (in Iraq) e toni non proprio concilianti nei confronti della cultura arabo-islamica in molti Paesi occidentali. L’Amministrazione Bush aveva lanciato l’iniziativa denominata “Grande Medio Oriente e Nord africa” con il fine di favorire l’effetto-domino, che dal modello iracheno avrebbe dovuto contagiare tutta la regione. Come sappiamo, non andò così. Da parte sua, già dal 1995 l’Europa aveva avviato il “Processo di Barcellona”, vale e dire un ampio progetto di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per incoraggiare progetti comuni e il dialogo ad ogni livello, a cominciare dalla cultura e dagli scambi tra giovani e tra le espressioni della società civile. Nemmeno questo piano ha funzionato. Da ultimo, il presidente francese Sarkozy ha aperto un nuovo cantiere, quello dell’ “Unione per il Mediterraneo” che, nella migliore delle ipotesi, è temporaneamente bloccato, a causa della stasi nei negoziati israelo-palestinesi. Dunque, nemmeno quest’idea si è rivelata vincente. Ci siamo dimenticati, noi europei, che non molti decenni fa la democrazia non era affatto di casa nei Paesi del mediterraneo del nord: fascismo in Italia, salazarismo in Portogallo, franchismo in Spagna, colonnelli in Grecia, regimi militari in Turchia. Dunque, nessuno può dare lezioni. Ma nei nostri Paesi, pur tra mille ostacoli, la transizione è avvenuta. Perché non dovrebbe essere possibile anche nel mediterraneo del sud? Le incongruenze politiche e sociali di molti Paesi del nord-africa erano emerse con chiarezza nel rapporto sullo “sviluppo umano” nel mondo arabo dell’UNDP (agenzia ONU per lo sviluppo) già nel 2002. L’argomento che spesso si utilizza è quello delle incognite dell’islamismo politico. Ma non si considera che è molto meglio un islamismo politico (cioè partecipe del processo politico-istituzionale, con la connessa rinuncia ad ogni violenza ed integrismo) che un islamismo a-politico, preda di agitatori e demagoghi che utilizzano la religione ai loro fini di potere. In altri termini, meglio un Rachid Ghannouchi (Tunisia) che torna dall’esilio e appoggia il pluralismo o i Fratelli Musulmani (Egitto) che come partito possono finalmente presentarsi alle elezioni che un ostracismo contro forze che, se messe ai margini e perseguitate, rischiano di abbracciare un’agenda distruttiva. Per troppo tempo il mondo euro-atlantico ha creduto di favorire la stabilità appoggiando autocrati che hanno progressivamente perso ogni spinta riformista e ogni volontà di cambiamento. Si credeva che la stabilità coincidesse con la continuità. Se mai è stato vero, i fatti del nordafrica ci dicono che oggi non è più cosi.

Diritti solo per i cristiani?

L'eventuale creazione di un "Christian Rights Watch" proposta in particolare da "Il Foglio" è non solo ontologicamente sbagliata (i diritti umani sono universali, e non caratterizzati religiosamente, altrimenti ognuno potrebbe scrivere i propri e buttare a mare la Dichiarazione Universale; tra l'altro è quello che vogliono gli Islamisti quando vorrebbero far passare il concetto di diffamazione di una religione, non riferendola ai diritti individuali) ma anche assai pericolosa politicamente, perché farebbe esattamente il gioco dei terroristi, che colpiscono i Cristiani proprio perché vedono che c'è una enorme risonanza in Occidente, mentre quando fanno saltare intere Moschee (sunnite o sciite) c'è un agghiacciante silenzio. Con queste cose non si può scherzare, o si è coerenti oppure si fomenta allegramente ed irresponsabilmente lo scontro di civiltà. E dunque, in tal caso, il terrorismo qaedista avrebbe vinto alla grande.
Altra cosa è ovviamente auspicare la compilazione di un ulteriore rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. In questo caso ci sarebbero due problemi. Il primo di carattere pratico, perché, per evitare ripetizioni, occorrerebbe caratterizzarlo in un senso forse più specialistico rispetto a quelli che già circolano nel mondo, a cura di organismi diversi, sia in termini monografici sia come capitoli di rapporti sui diritti umani nel loro complesso. Ad esempio un aspetto poco evidenziato è la questione delle "pratiche" religiose, come la possibilità (ed ampliezza di essa) di manifestazione pubblica dei convincimenti religiosi, verificandone la coerenza con le disposizioni delle leggi interne. In secondo luogo, prima di lanciarsi in un esercizio simile, per evitare che diventi un boomerang, bisognerebbe avere i propri "conti" a posto, ad esempio sul tema della costruzione delle Moschee o dell'edificazione di Minareti, predisposizione dei luoghi di preghiera, e quant'altro.

Nord Africa: ascoltare i popoli

Questa volta la metafora della polveriera non è eccessiva. Con l’abbandono (forzato) del potere da parte del Presidente tunisino Ben Ali (in carica ininterrottamente dal 1987) si aprono scenari inquietanti per tutto il Nord Africa. Gli analisti politici, negli anni ’80, avevano coniato un neologismo, e cioè “democradura” (una crasi tra democrazia e dittatura) per riferirisi alle democrazie più formali che sostanziali in molti Paesi latino-americani. C’è da chiedersi se questa definizione non riguardi, oggi, molti Paesi, e non solo nordafricani. Come che sia, il sostegno a questi governi “forti”) (per usare un eufemismo”) da parte del mondo euro-atlantico si era fondato sul convincimento che essi costituissero un baluardo contro l’islamismo violento. Come troppo spesso avvenuto dopo l’11 settembre 2001, la giustificazione risiedeva nella vaga e abusata retorica della “lotta al terrorismo globale”. Certamente vi sono forze che hanno tutto l’interesse a strumentalizzare la voglia di cambiamento ed il fortissimo disagio sociale in un’area dove la percentuale media della popolazione al di sotto dei 15 anni sfiora il 30%. Ed è altrettanto illusorio il programma di “esportazione della democrazia”, proprio perché molti profittatori politici ammantati di una patina pseudo-religiosa sono già pronti a sfruttare l’occasione. Ma pensare di “congelare” interi sistemi politici in una situazione di turbolenza sociale è semplicemente illusorio. E’ mancato un progetto di cooperazione autentica tra Europa e Nord Africa. Gli interessi legati alle furniture di energia (gas, petrolio) da una parte e le paure indotte da certa classe politica nei confronti della presunta “invasione” di immigrati non hanno fatto che alimentare il senso di sfruttamento e di esclusione in tutta la sponda sud del mediterraneo. E’ mancato un vero dialogo tra le società civili, che sono rimaste ostaggio di logiche governative e di interessi costituiti. Al di là di inefficaci progetti di Unioni e partenariati del Mediterraneo, bisognerebbe ascoltare di più i popoli mediterranei.

Frutti di una guerra scriteriata

Prima di fare una guerra (e non bisognerebbe mai farne, possibilmente) occorrerebbe quanto meno leggere un libro di storia e studiare le carte geo-politiche. In Iraq, Bush e la scuola dei neo-cons avevano immaginato una sorta di democratizzazione dall’alto, che avrebbe dovuto avere un “effetto-domino” su tutta la regione. Mentre di “contagio democratico” in quella parte di mondo se ne vede ben poco, da diversi mesi l’Iraq è alle prese, dopo oltre sette mesi dalle ultime elezioni politiche, con una difficile negoziazione per la formazione di un nuovo governo. Si fatica a trovare una formula di governo “inclusiva”, un governo di unità nazionale che renda equilibrata la rappresentanza degli sciiti, dei sunniti e, su un altro piano, dei curdi. E’ la dimostrazione che la democrazia non si cala dall’alto, ma che occorre costruirla dal basso, nella società, nelle culture ed anche nelle comunità religiose. E che la politica internazionale conta sugli assetti di un Paese ancora fragile come l’Iraq. Il Primo Ministro uscente, Maliki, uno sciita, è paradossalmente appoggiato, per ragioni opposte, sia dagli Stati Uniti che dall’Iran, oltre che dalla formazione intransigente di un altro famigerato leader sciita, Moqtada al-Sadr; è avversato dall’Arabia Saudita (sunnita) e da un’importante espressione politica sciita, facente capo ad Adel Abdel Mahdi, alleato con il principale sfidante di Maliki, Allawi, in una coalizione sunno-sciita. In tutto questo, i curdi giocano le loro carte sul controllo della città di Kirkuk sotto l’occhio sospettoso della Turchia. Dunque, l’effetto domino ha funzionato al contrario: oggi sono gli altri Paesi a influenzare l’Iraq. Ricostruire questa situazione serve a capire meglio ciò che sta accadendo in Iraq, sia in termini negativi (le violenze a carattere religioso, gli atti di terrorismo) che in quelli positivi (la faticosa ricerca di una base di democrazia consensuale). Tra gli eventi tragici ci sono i sistematici attacchi alla minoranza cristiana. Il recente eccidio di Baghdad ne è l’ultimo sanguinoso capitolo. Nel 2003 c’erano in Iraq 1,4 milioni cristiani tra caldei, assiro-ortodossi, armeni (cattolici ed ortodossi), protestanti, evangelici. Oggi ne resterebbero, pare, circa cinquecentomila. Pur nella drammaticità di queste cifre, occorre tuttavia avere coscienza del contesto più ampio, che riguarda la scarsissima tutela dei diritti umani fondamentali e della libertà religiosa di molti iracheni. In un quadro complicato e rischioso, come quello descritto, da anni gli attentati a centri religiosi e in occasione di eventi festivi riconducibili alle diverse fedi sono all’ordine del giorno. Ad esempio, nel solo febbraio di quest’anno vi sono stati attacchi a pellegrini sciiti che si recavano in pellegrinaggio a Karbala, con un bilancio drammatico di 59 morti ed un centinaio di feriti. Nel 2009 i fedeli sciiti uccisi in attacchi in diverse parti del Paese sono stati quasi 230. In questa tragica contabilità, i fedeli sunniti assassinati tra il 2009 ed il 2010 sono stati oltre un centinaio. La verità è che gli atti di terrorismo contro fedeli delle diverse religioni in Iraq rispondono ad una fredda logica politica, sono parte di una strategia precisa e cinica. Nella grande tensione tra sciiti e sunniti, le minoranze religiose – come quella cristiana – sono oggetto di violenza calcolata. Purtroppo i terroristi sanno perfettamente che colpire i cristiani significa avere una sorta di effetto mediatico assicurato in Occidente. Tra le conseguenze di lungo periodo dell’intervento militare in Iraq, c’è l’idea di una sostanziale identificazione tra Occidente e cristianesimo. Frutto di ignoranza: da secoli esistono comunità cristiane, come quella Caldea, che culturalmente e storicamente appartengono al Medio Oriente e non certo all’Occidente.
Ma per i terrorismi di tutte le fogge i fedeli delle varie religioni sono solo bersagli scelti con cura. Non bisogna cadere nella trappola: se la politica non riesce a proporre soluzioni, la sola risposta efficace è che i fedeli non si combattino, ma facciano emergere la profonda fraternità dei figli di Abramo.