Frutti di una guerra scriteriata

Prima di fare una guerra (e non bisognerebbe mai farne, possibilmente) occorrerebbe quanto meno leggere un libro di storia e studiare le carte geo-politiche. In Iraq, Bush e la scuola dei neo-cons avevano immaginato una sorta di democratizzazione dall’alto, che avrebbe dovuto avere un “effetto-domino” su tutta la regione. Mentre di “contagio democratico” in quella parte di mondo se ne vede ben poco, da diversi mesi l’Iraq è alle prese, dopo oltre sette mesi dalle ultime elezioni politiche, con una difficile negoziazione per la formazione di un nuovo governo. Si fatica a trovare una formula di governo “inclusiva”, un governo di unità nazionale che renda equilibrata la rappresentanza degli sciiti, dei sunniti e, su un altro piano, dei curdi. E’ la dimostrazione che la democrazia non si cala dall’alto, ma che occorre costruirla dal basso, nella società, nelle culture ed anche nelle comunità religiose. E che la politica internazionale conta sugli assetti di un Paese ancora fragile come l’Iraq. Il Primo Ministro uscente, Maliki, uno sciita, è paradossalmente appoggiato, per ragioni opposte, sia dagli Stati Uniti che dall’Iran, oltre che dalla formazione intransigente di un altro famigerato leader sciita, Moqtada al-Sadr; è avversato dall’Arabia Saudita (sunnita) e da un’importante espressione politica sciita, facente capo ad Adel Abdel Mahdi, alleato con il principale sfidante di Maliki, Allawi, in una coalizione sunno-sciita. In tutto questo, i curdi giocano le loro carte sul controllo della città di Kirkuk sotto l’occhio sospettoso della Turchia. Dunque, l’effetto domino ha funzionato al contrario: oggi sono gli altri Paesi a influenzare l’Iraq. Ricostruire questa situazione serve a capire meglio ciò che sta accadendo in Iraq, sia in termini negativi (le violenze a carattere religioso, gli atti di terrorismo) che in quelli positivi (la faticosa ricerca di una base di democrazia consensuale). Tra gli eventi tragici ci sono i sistematici attacchi alla minoranza cristiana. Il recente eccidio di Baghdad ne è l’ultimo sanguinoso capitolo. Nel 2003 c’erano in Iraq 1,4 milioni cristiani tra caldei, assiro-ortodossi, armeni (cattolici ed ortodossi), protestanti, evangelici. Oggi ne resterebbero, pare, circa cinquecentomila. Pur nella drammaticità di queste cifre, occorre tuttavia avere coscienza del contesto più ampio, che riguarda la scarsissima tutela dei diritti umani fondamentali e della libertà religiosa di molti iracheni. In un quadro complicato e rischioso, come quello descritto, da anni gli attentati a centri religiosi e in occasione di eventi festivi riconducibili alle diverse fedi sono all’ordine del giorno. Ad esempio, nel solo febbraio di quest’anno vi sono stati attacchi a pellegrini sciiti che si recavano in pellegrinaggio a Karbala, con un bilancio drammatico di 59 morti ed un centinaio di feriti. Nel 2009 i fedeli sciiti uccisi in attacchi in diverse parti del Paese sono stati quasi 230. In questa tragica contabilità, i fedeli sunniti assassinati tra il 2009 ed il 2010 sono stati oltre un centinaio. La verità è che gli atti di terrorismo contro fedeli delle diverse religioni in Iraq rispondono ad una fredda logica politica, sono parte di una strategia precisa e cinica. Nella grande tensione tra sciiti e sunniti, le minoranze religiose – come quella cristiana – sono oggetto di violenza calcolata. Purtroppo i terroristi sanno perfettamente che colpire i cristiani significa avere una sorta di effetto mediatico assicurato in Occidente. Tra le conseguenze di lungo periodo dell’intervento militare in Iraq, c’è l’idea di una sostanziale identificazione tra Occidente e cristianesimo. Frutto di ignoranza: da secoli esistono comunità cristiane, come quella Caldea, che culturalmente e storicamente appartengono al Medio Oriente e non certo all’Occidente.
Ma per i terrorismi di tutte le fogge i fedeli delle varie religioni sono solo bersagli scelti con cura. Non bisogna cadere nella trappola: se la politica non riesce a proporre soluzioni, la sola risposta efficace è che i fedeli non si combattino, ma facciano emergere la profonda fraternità dei figli di Abramo.