Con l’esplodere della “rivoluzione” egiziana non solo il nordafrica, ma tutto il Medio oriente e l’intero sistema internazionale dovranno fare i conti con un cambiamento strutturale. Dinanzi a questo mutamento ci si può porre in due modi: tentare di “limitare i danni” oppure vedevi una nuova opportunità. Sinora Israele, giustamente preoccupata per la sua sicurezza, e l’Arabia Saudita, più concentrata invece sui possibili “rischi” di cambiamenti interni, hanno per ragioni diverse paventato questa evoluzione. Più coraggio è venuto dagli Stati Uniti, che avevano sinora nell’Egitto, accanto ad Israele, il maggior alleato strategico. L’Europa rimane sospesa in un difficile gioco di equilibrio tra rischio di interferenza (negli affari interni di altri Paesi) e prospettiva di irrilevanza (per eccesso di prudenza).
Ma la questione riguarda anche altri Paesi, come ad esempio la Turchia: in effetti Ankara, con il suo partito islamico (ma non “islamista”) al potere, potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per quanti ritengono possibile coniugare Islam e democrazia (al pari di cristianesimo e democrazia).
Vero è che in questa parte di mondo si registra un intreccio complesso di fattori geo-strategici, di tensioni legate a vecchi e nuovi radicalismi, di contrastati e contrastanti progetti egemonici, di contesti economici che devono fare i conti con crescenti segnali di instabilità sociale, e che la crisi finanziaria globale ha reso più acuti. Il Medio Oriente è in sé stesso un sistema internazionale in sedicesimo. In effetti, tutte le questioni politiche più rilevanti, e non solo dal punto di vista internazionale, trovano in quest’area una sorta di paradigma parossistico. Tutte le tensioni che attraversano il mondo contemporaneo, ed anche i Paesi occidentali, si palesano con grande rilievo. In questa regione del pianeta si sperimentano, per così dire, in modo drammatico alcuni rivolgimenti dell’assetto interno ed internazionale: il rapporto tra religione e politica e, più in generale, tra convinzione e ragione, tra comunità ed individuo, tra stato e società, tra mondialità e località. Tutti i caratteri della sovranità sono coinvolti e spesso radicalmente messi in discussione: popoli, stati, territori.
E allora perché non approfittare del momento “epocale” per trasformare questa complessità in un valore? Sorprende, in generale, che l’eccezionalità degli eventi sulla riva sud del Mediterraneo non abbia provocato sinora una mobilitazione della comunità internazionale di adeguata rilevanza.
La profondità dei mutamenti in corso giustificherebbe, invece, un’iniziativa politica internazionale di primaria importanza, sul modello della Conferenza di Helsinki del 1975, nella quale considerare diversi ambiti di cooperazione, relativi a sicurezza, democratizzazione, rispetto dei diritti umani, sviluppo, ma con un formato più flessibile e ampio: non solo i governi, ma anche altri importanti attori interni. Una conferenza inclusiva ed originale, non i paludati rituali della diplomazia.