Mediterraneo: la democrazia possibile
La diffusione della democrazia del mondo arabo è stata spesso confusa, nello scorso decennio, con il tema controverso della cosiddetta “esportazione della democrazia”. Un obiettivo che è stato percepito, specie nei Paesi che ne avrebbero dovuto “beneficiare”, come una forma di imposizione di modelli euro-atlantici ad un mondo “mediterraneo”. Anche perché di mezzo c’era una Guerra (in Iraq) e toni non proprio concilianti nei confronti della cultura arabo-islamica in molti Paesi occidentali. L’Amministrazione Bush aveva lanciato l’iniziativa denominata “Grande Medio Oriente e Nord africa” con il fine di favorire l’effetto-domino, che dal modello iracheno avrebbe dovuto contagiare tutta la regione. Come sappiamo, non andò così. Da parte sua, già dal 1995 l’Europa aveva avviato il “Processo di Barcellona”, vale e dire un ampio progetto di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per incoraggiare progetti comuni e il dialogo ad ogni livello, a cominciare dalla cultura e dagli scambi tra giovani e tra le espressioni della società civile. Nemmeno questo piano ha funzionato. Da ultimo, il presidente francese Sarkozy ha aperto un nuovo cantiere, quello dell’ “Unione per il Mediterraneo” che, nella migliore delle ipotesi, è temporaneamente bloccato, a causa della stasi nei negoziati israelo-palestinesi. Dunque, nemmeno quest’idea si è rivelata vincente. Ci siamo dimenticati, noi europei, che non molti decenni fa la democrazia non era affatto di casa nei Paesi del mediterraneo del nord: fascismo in Italia, salazarismo in Portogallo, franchismo in Spagna, colonnelli in Grecia, regimi militari in Turchia. Dunque, nessuno può dare lezioni. Ma nei nostri Paesi, pur tra mille ostacoli, la transizione è avvenuta. Perché non dovrebbe essere possibile anche nel mediterraneo del sud? Le incongruenze politiche e sociali di molti Paesi del nord-africa erano emerse con chiarezza nel rapporto sullo “sviluppo umano” nel mondo arabo dell’UNDP (agenzia ONU per lo sviluppo) già nel 2002. L’argomento che spesso si utilizza è quello delle incognite dell’islamismo politico. Ma non si considera che è molto meglio un islamismo politico (cioè partecipe del processo politico-istituzionale, con la connessa rinuncia ad ogni violenza ed integrismo) che un islamismo a-politico, preda di agitatori e demagoghi che utilizzano la religione ai loro fini di potere. In altri termini, meglio un Rachid Ghannouchi (Tunisia) che torna dall’esilio e appoggia il pluralismo o i Fratelli Musulmani (Egitto) che come partito possono finalmente presentarsi alle elezioni che un ostracismo contro forze che, se messe ai margini e perseguitate, rischiano di abbracciare un’agenda distruttiva. Per troppo tempo il mondo euro-atlantico ha creduto di favorire la stabilità appoggiando autocrati che hanno progressivamente perso ogni spinta riformista e ogni volontà di cambiamento. Si credeva che la stabilità coincidesse con la continuità. Se mai è stato vero, i fatti del nordafrica ci dicono che oggi non è più cosi.