Gaza e l’illusione della “pace separata”


Per quanti lo avessero dimenticato – ma non se ne facciano una colpa! -  la questione israelo-palestinese è inquadrata ancora ufficialmente in un cosiddetto “processo di pace”, benché si  tratti ormai, purtroppo, di una formula del tutto svuotata di contenuti e persino tristemente ironica mentre cadono bombe (su Gaza) e missili (da Gaza). Si potrebbe sostenere, a voler essere davvero naïf, che il processo di pace sarebbe ancora in piedi tra Israele e la Cisgiordania, mentre sarebbe ormai in stato comatoso (e non da oggi) nei riguardi di Gaza. Questo è stato l’errore fondamentale degli ultimi anni, almeno dalle elezioni palestinesi del 2006, e cioè pensare di poter raggiungere, in questa turbolenta regione del mondo, una “pace separata”. La verità è che la ricerca di una pace separata ci ha sinora, nei fatti, separato dalla pace.  
In Occidente ci facciamo facilmente distrarre da questioni che – comprensibilmente – coinvolgono lo stato di salute delle nostre economie e dei nostri sistemi politici. Ecco perché ci hanno colto di sorpresa gli eventi bellici a Gaza. La realtà è che da molti mesi nella regione si confrontano due opinioni pubbliche esasperate, anche se per ragioni e in misura molto diversa. Da una parte la popolazione di Gaza, “intrappolata” nella Striscia, in condizioni economiche e sociali spaventose; dall’altra, la popolazionisraeliana, sempre più impaurita e scossa dai lanci di missili da Gaza. E’ difficile parlare il linguaggio della politica e della diplomazia dinanzi all’esasperazione; eppure, questo dovrebbe essere il compito di leader di Paesi che vogliano davvero svolgere un ruolo nella regione e non limitarsi semplicemente a gestire l’esistente, con l’obiettivo minimalista di limitare i danni. Questo è sembrato l’atteggiamento della comunità internazionale – in particolare degli Stati Uniti, impegnati in una difficile campagna presidenziale e dell’Unione Europea, attanagliata dalla crisi del debito e dai rischi di disintegrazione interna.
Il punto è che la situazione, oggi più che mai, può sfuggire di mano. I contenuti del “diritto all’autodifesa” di Israele si presentano con varianti notevolmente diverse. Dal punto di vista strategico, Israele ha dinanzi a sé tre possibili alternative. La prima consiste nel proseguire le operazioni di “contenimento” diHamas con iniziative tuttavia più “robuste” sotto il profilo militare. La seconda è una versione rafforzata della cosiddetta “Operazione Piombo Fuso” messa in pratica tra il 2008 ed il 2009, consistente nel colpire le installazioni “ufficiali” e le infrastrutture controllate da Hamas, con la possibilità di una limitata operazione terrestre, rischiosissima anche nel caso in cui fosse concepita solo in termini provvisori. La terza consisterebbe in un’offensiva su larga scala mirante alla pura e semplice eliminazione di Hamascome forza di governo a Gaza, e ciò richiederebbe l’uso combinato di diversi strumenti di intervento, compresa una occupazione più o meno prolungata della Striscia.  
Tuttavia, rispetto al 2008-2009, la situazione nella regione è strutturalmente cambiata. Molti si sono illusi di poter metter nel congelatore il conflitto israelo-palestinese mentre tutto intorno mutava ad una velocità imprevista ed incontrollabile. A questo proposito, taluni analisti menzionano il ruolo destabilizzante chepotrebbero avere i Fratelli Musulmani in relazione a Gaza. Non è detto; potrebbe essere una conclusione affrettata, poiché la stabilità a Gaza è per l’Egitto anzitutto un problema di sicurezza nazionale, vista la contiguità territoriale, e solo in seconda battuta diviene una questione di affinità ideologica o religiosa. L’iniziativa militare di Israele costringe, in qualche modo, l’Egitto a riapparire sulla scena medio-orientale dopo le convulsioni interne, ma in un contesto in cui potrebbero essere riformulati (ma non certo demoliti) i due pilastri della politica estera egiziana, vale a dire il rapporto preferenziale con gli Stati Uniti e il Trattato di pace con Israele.
Più in generale, quasi tutti i Paesi della regione hanno a che fare, ora, con opinioni pubbliche radicalizzate.  Inoltre, sono saltati alcuni equilibri fondamentali, come l’alleanza tra Turchia edIsraele (molto “raffreddata” dopo l’incidente della “FreedomFlotilla” nel 2010), e l’oggettiva diffidenza del governoNetanyahu nei riguardi del ri-eletto Presidente Obama. Non siamo tornati ad una situazione regionale pre-1967, ma le somiglianze sono comunque preoccupanti.
In questo scenario, ci sarebbero davvero le condizioni per una forte iniziativa europea –o meglio, dei suoi 27 governi… - per impedire una nuova deriva bellicista che sarebbe difficilmente controllabile. 

Turkey “à la carte”?


The motivation for the award of the Nobel Prize Peace 2012 to the European Union refers to  "the possibility of EU membership for Turkey" as a factor that "advanced democracy and human rights in that country". No mention is made to Turkey foreign and security policy. To be sure, Turkey has strong ties with the Euro-Atlantic security framework, and that strategic choice is not meant to change in the near future. However, Turkey has its own national and regional interests to promote and defend. The recent worsening of the relations of Turkey with Israel and Syria could trigger or accelerate a process on "inter-independence" between Ankara and the Euro-Atlantic world, leading to a restructuring of the regional security balance.
This would not mean, however, that Turkey will turn its back on the West. The multidimensional "strategic depth" of Turkey interests an priorities, however, has already generated a wider and more problematic spectre or interaction, the Lybian case being a first evidence of that. Turkey advocated for non-intervention in military terms without necessarily opposing effective actions against Gheddafi's regime. It will be fair to say that Turkey is now widening the scope of its initiatives in the Mediterranean and Middle East, especially after the "Arab Spring" emerged as a game changer in the area. However, the illusion of maintaining a "zero problems" policy with its neighbours had to face the harsh reality of a region in turmoil and structural transformation. According to the Turkish analyst Sinan Ulgen, the new drivers in the areas were to create new objectives for Turkish foreign-policy strategists. Unfortunately, the growing tension in the Middle East did not confirme the prediction that Turkey’s leaders would have been “downgrading the importance of hard power security issues in favor of enhancing the country’s soft power while also grasping economic opportunities.” (Sinan Ulgen) By the same token, it is not necessarily true that the Turkish foreign policy is going through an “ontological” transformation in the direction of a “de-securitization”, which would imply – as a secondary consequences - an alteration of the balance of power between the country’s military and civilian establishments (this process is driven, in fact, by internal political factors).
At any rate, the present situation of Turkey is not necessarily ambigous. It is rather the result of a difficult balance of national, regional, transnational and international factors. According to some analysts, the new Turkish-Western relationship should probably be “à la carte”, driven by convergent national interests rather than “amorphous notions of geopolitics and identity” (Ian Lesser).
Those challenges notwithstanding, can we still consider Ankara as embedded in the Euro Atlantic framework? Or course we can. We just need to adjust the framework of our relationship. One could claim that Turkey finds NATO working on its top “hard security” priorities whereas the EU appears to benefit from a more comprehensive agenda focused on “soft security.”Turkey continues to share most of the goals of the Euro-Atlantic “security community”, such as no nuclear weapons proliferation in the region, a peaceful and just solution to the Israeli Palestinian and to other Middle East conflicts; the fight against transnational terrorism.  We should nevertheless be ready to accept that Turkey might have a different attitude towards certain “hot” topics (the Middle East Peace Process, Iran, Syria) and might be willing to pursue them with its own tactics and methodology.  More crucially, in dealing with Turkey, we should take into account that the country is now willing to play a role as responsible stakeholder in the regional and global arena. Especially as far as the Middle East is concerned, we should not take Turkey’s support for granted but treat it as an equal partner while devising policies, establishing new mechanisms for regular dialogue and better coordination. We should recognise Turkish pivotal role in the region and consider such an ambition more as an asset than a liability, as the special relationship of Turkey with some key-countries (Iran, Iraq, Syria before the current crisis) and some relevant non state actors (Hamas, Hezbollah) in the area gives us a unique chance to reinforce our dialogue capacities in the region. What is needed, in addition to the existing for a of cooperation, it is new framework for the partnership between Turkey and the West that should primarily aim at creating a “special relationship” with Turkey in the area of security, giving Ankara a prominent role in the Mediterranean and Middle East area.  A closer co-operation should therefore be first sought in the areas where interests converge. Other “missions” might be managing the game in Afghanistan and Iraq, promoting stability in the Black Sea and in the Balkans.  Turkey has participated in several military and civilian missions  in the context of the European Security and Defence Policy, including Concordia and Proxima (Macedonia), and EUFOR the Democratic Republic of Congo, Althea (Bosnia), EUPM (Bosnia), and EUPOL Kinshasa. As such, it is one of the most active participant in such missions in comparison to other  “third countries” and makes better that many EU member states as well. Turkey also takes regular commitments to the EU’s headline goals and is a quite important contributor to the EU battlegroups.
What is missing in this apparently rosy scenario?
So far, the security aspects of the Mediterranean area has been so far dealt with in different security fora.
For instance,  the “5+5” is a loose format for political dialogue which brings together ten countries bordering the Western Mediterranean Basin: five countries of the Arab Maghreb Union  - Algeria, Libya, Morocco, Mauritania and Tunisia - and five countries of the European Union - Spain, France, Italy, Malta and Portugal.
Unfortunately, the project of the Union for the Mediterranean is not going anywhere for the time being. The Union for the Mediterranean was proposed by President Nicolas Sarkozy, who wanted to strengthen relations between the EU’s southern member-states - such as France, Italy and Spain - and their North African and Arab neighbours across the sea.  It was not a bad idea in principle.  The Union for the Mediterranean was launched at a glittering ceremony in Paris in July 2008, it began life with no fewer than 43 members - the EU 27, plus 16 others ranging from Albania and Algeria to Israel and the Palestinian Authority. The Union for the Mediterranean had barely got off the ground before it ran into trouble in the shape of the Gaza conflict between Israel and Hamas at the beginning of 2009; consequently, high-level Union for the Mediterranean meetings were suspended.  Like the Barcelona process, the Union for the Mediterranean turned out to be hostage to decades-old political tensions in the Middle East.  On the other hand, the Union for the Mediterranean is supposed to steer clear of politics and concentrate on uncontroversial projects such as solar energy, cleaning up pollution in the Mediterranean Sea and encouraging small and medium-sized enterprises in the region. In principle, there is no explicit and comprehensive security dimension.  After the incident occurred in may 2012, when Israel halted with a military blitz a flotilla of ships trying to break the blockade of the Gaza strip, it became difficult to be optimistic on the next development. Apart from the impact on Arab-Israeli relations, the incident damaged relationship between Israel and Turkey. Though one of the Mediterranean region’s most influential states, Turkey has never thought very highly of the Union for the Mediterranean, in the fear that that solution was offered merely as a surrogate of the full membership of the European Union. So, we need to think in a more creative way, taking into account also more informal channels.  
To deal with the security aspects of the cooperation in the Mediterranean, the North Atlantic Council initiated in 1994 a NATO’s Mediterranean Dialogue, that involves seven non-NATO countries of the Mediterranean region (Algeria, Egypt, Israel, Jordan, Mauritania, Morocco and Tunisia). Its main mission, according to the original project, the Dialogue “reflects the Alliance’s view that security in Europe is closely linked to security and stability in the Mediterranean. It is an integral part of NATO's adaptation to the post-Cold War security environment, as well as an important component of the Alliance’s policy of outreach and cooperation.”. The Dialogue pursue three specific goals: “contribute to regional security and stability;  achieve better mutual understanding dispel any misconceptions about NATO among Dialogue countries.”
Moreover, NATO launched, in June 2004, the  “Istanbul Cooperation Initiative”, with the goal to contribute to long-term global and regional security by offering countries of the broader Middle East region practical bilateral security cooperation with NATO. Based on the principle of inclusiveness, the Initiative is, however, open to all interested countries of the broader Middle East region who subscribe to its aims and content, including the fight against terrorism and the proliferation of weapons of mass destruction. Six countries of the Gulf Cooperation Council were initially invited to participate. To date, four of these -- Bahrain, Qatar, Kuwait and the United Arab Emirates -- have joined. Saudia Arabia and Oman have also shown an interest in the Initiative.
So, we have in place a rather baroque structure that is only partially functional.
It appears though necessary to identify more comprehensive instruments to promote a holistic approach to the security of the region, taking into account all its possible aspects, including soft security. Unlike previous examples, such an instrument ought to be larger in terms of both the countries and the nature of the participants involve.
An option could be the establishment of an annual Mediterranean Conference, modelled after the Munich Conference on Security Policy, which would deal with security in the region, with the participation of Ministers (Foreign Affairs and Defence), Members of Parliaments, high representatives of the armed forces, academics, journalists and business people from the countries of the region and from other actors concerned.  The agenda of the Conference could focus on several dimensions of soft security, such as fight against terrorism and nuclear proliferation, human trafficking and illegal migration, energy and environmental security, catastrophe prevention, maritime security. The Forum could be organised jointly, for instance,  by Italy and Turkey, in the light of the close co-operation between the two countries, and take place alternatively in the two countries. By means of such an informal instrument, Ankara would no longer provide just a logistic support to security in the area, but would instead become a “hub” for identification of policies in the area.
In a changing security environment, it is not safe continuing thinking in terms of formal “alliances” and organizational structures. On the contrary, the capacity to adapt to the new challenges cannot be mummified in forma format of cooperation, although it is not suggested here to get ride of treaties and legally binding agreements.  As in the climate change narrative, countries like Turkey have to learn how to cope in practical terms with growing complexity and intractability, switching fast between the two polarities of adaptation and mitigation.  Adaptation requires a mentality of flexible arrangements, whereas mitigation implies responsive capabilities in the medium and long term. Our difficulty in framing in a new way the security concerns of Turkey is due to the adoption of old categories, based on military commitments, hard security and strong legal and political engagements.





Realismo etico: un programma per il Presidente

C'è un inconveniente, difficilmente eliminabile, nelle nostre analisi riguardanti le elezioni presidenziali americane. Si tratta principalmente di questo: tutte le elezioni, benché importanti, sono contingenti, rispondono cioè ad una logica temporale di breve o - se va bene - di medio periodo. I processi di cambiamento sul piano sociale, economico e scientifico-tecnologico si proiettano invece, solitamente, sul lungo termine. Anche i critici della "velocitá eccessiva" della globalizzazione devono comunque porsi dal punto di vista di diversi decenni, e tale prospettiva non è compatibile con un mandato elettorale. Mentre nel mondo avvengono mutamenti demografici, culturali, identitari ed economici destinati a ridisegnare la mappa del pianeta, ci ritroviamo puntualmente a disquisire se questo o quello dei candidati favorirá o meno il rapporto con l'Europa, come si porrà nei confronti della Cina, quale atteggiamento assumerà nei confronti del mondo arabo-islamico. Intendiamoci: non c'è dubbio che lo "stile" di una Presidenza rispetto a un'altra possa fare la differenza, come abbiamo tutti potuto costatare nel passaggio da George W.Bush a Obama (basti confrontare la pericolosa dottrina della "esportazione della democrazia" con il discorso di Obama al Cairo nel 2009). Ed è anche provato che un gesto di rottura di un Presidente possa imprimere un'accelerazione a processi in corso, come avvenne in occasione della spettacolare visita di Nixon in Cina nel 1972 o, in un altro quadrante, con l'inatteso viaggio di Sadat a Gerusalemme nel 1977. 
Tuttavia, lo scenario più ampio in cui la prossima Presidenza americana dovrà collocarsi è in buona parte giá predisposto e difficilmente modificabile. Si può "disinventare" la globalizzazione, si possono ignorare le forti interrelazioni economiche e commerciali che avvolgono l'intero globo? Si può prescindere, nel prossimo futuro, dalla dipendenza energetica e delle materie prime? Si possono accantonare le istituzioni multilaterali, che conferiscono un minimo di legittimità alle relazioni internazionali? Si possono bloccare, con un atto d'imperio, le correnti migratorie planetarie? Si può far fronte da soli, quale che sia il potere relativo di cui si dispone, alle nuove minacce transnazionali che incombono sull'umanità, come il terrorismo, il cambiamento climatico, il rischio di proliferazione nucleare, il depauperamento delle risorse alimentari, l'insufficienza dell'approvvigionamento idrico? Si possono risolvere con il solo strumento militare inestricabili crisi regionali?
Se la riposta è no, allora dobbiamo convenire che le vecchie categorie utilizzate per l'analisi della politica americana, pur tenendo conto del forte ruolo dei Capi dell'esecutivo in un sistema presidenziale, non sono più adatte a farci comprendere le nuove regole del gioco. Il prossimo Presidente degli Stati Uniti non avrà, infatti, dinanzi a sé la classica scelta tra "isolazionismo" o " interventismo", per la semplice ragione che non c'è più un mondo esterno da una parte e il contesto nazionale dall'altro. Tutto è interrelato, interconnesso, intrecciato. Un esempio? Il salvataggio della Chrysler di Detroit è avvenuto grazie ad un’iniziativa bi-nazionale (un prestito statunitense e canadese di 7,6 miliardi di dollari), ma con il concorso decisivo di un’azienda di un Paese terzo (la Fiat) che a sua volta è ora in qualche modo  "salvata" dal surplus della consociata americana; il modello è quello del "costruttore globale" di auto. Le ricadute, localissime, si misurano in posti di lavoro preservati in Michigan e in Ontario (ma ciò sembra applicarsi meno, purtroppo, agli operai italiani..). Inoltre, lo scongiurato fallimento dell'industria automobilistica americana ha reso più plausibile la prospettiva di una ripresa economica mondiale (benché essa appaia ancora lontana). In questo contesto, il prossimo Presidente degli Stati Uniti potrà essere più o meno protezionista, più o meno incline alla retorica del "buy American", ma dovrá essere comunque un attivista internazionalista anche solo per difendere gli interessi americani. Certo, nel caso di un “neofita” come Romney, si tratterebbe di scontare un periodo di “apprendistato”, ma questo non è di per sé un fatto problematico.
Quanto a noi Europei, dovremmo imparare ad essere meno allarmisti. Ho sentito ripetere che il riferimento all'Europa è stato quasi del tutto assente dalla campagna presidenziale. Ma davvero? E di cosa si discettava, quindi, ogni volta che si faceva riferimento alla crisi finanziaria e alla questione dell'indebitamento pubblico? Come Romney ha dimostrato in una delle sue ultime uscite elettorali, l'Europa è ben presente nell'orizzonte politico americano, se non altro nei termini di "cattive pratiche" di finanza pubblica da non emulare; di rimando, gli Europei non cessano di ricordare ai dirimpettai dell'altra sponda dell'Atlantico che la crisi finanziaria globale ha avuto un "innesco" americano. Benché in termini critici, è in confronto vivace e vitale; sarebbe impensabile che la stessa cosa avvenisse, che so, tra Washington e Pechino senza provocare un duro scontro internazionale.
In generale, la visione del ruolo degli Stati Uniti nel nuovo contesto globale oscilla tra i due poli opposti del "declinismo" e del "primatismo". Per la prima scuola di pensiero, la traslazione del potere economico globale dall'Occidente all'Oriente relegherebbe gli USA  in una posizione difensiva, destinata tuttavia ad essere inefficace nel lungo periodo. Per gli assertori del "primato" americano, gli Stati Uniti sarebbero invece in grado di conservare ancora a lungo l'egemonia ideologica globale (con il liberalismo), oltre che in termini di capacità militari. John Hulsman e Anatol Lieven coniarono, qualche anno fa, l'espressione "realismo etico"; sembra un ossímoro, ma è in realtà l'unica politica estera praticabile - che si tratti o meno di una super-potenza - in un mondo sempre più difficile da interpretare.