Realismo etico: un programma per il Presidente

C'è un inconveniente, difficilmente eliminabile, nelle nostre analisi riguardanti le elezioni presidenziali americane. Si tratta principalmente di questo: tutte le elezioni, benché importanti, sono contingenti, rispondono cioè ad una logica temporale di breve o - se va bene - di medio periodo. I processi di cambiamento sul piano sociale, economico e scientifico-tecnologico si proiettano invece, solitamente, sul lungo termine. Anche i critici della "velocitá eccessiva" della globalizzazione devono comunque porsi dal punto di vista di diversi decenni, e tale prospettiva non è compatibile con un mandato elettorale. Mentre nel mondo avvengono mutamenti demografici, culturali, identitari ed economici destinati a ridisegnare la mappa del pianeta, ci ritroviamo puntualmente a disquisire se questo o quello dei candidati favorirá o meno il rapporto con l'Europa, come si porrà nei confronti della Cina, quale atteggiamento assumerà nei confronti del mondo arabo-islamico. Intendiamoci: non c'è dubbio che lo "stile" di una Presidenza rispetto a un'altra possa fare la differenza, come abbiamo tutti potuto costatare nel passaggio da George W.Bush a Obama (basti confrontare la pericolosa dottrina della "esportazione della democrazia" con il discorso di Obama al Cairo nel 2009). Ed è anche provato che un gesto di rottura di un Presidente possa imprimere un'accelerazione a processi in corso, come avvenne in occasione della spettacolare visita di Nixon in Cina nel 1972 o, in un altro quadrante, con l'inatteso viaggio di Sadat a Gerusalemme nel 1977. 
Tuttavia, lo scenario più ampio in cui la prossima Presidenza americana dovrà collocarsi è in buona parte giá predisposto e difficilmente modificabile. Si può "disinventare" la globalizzazione, si possono ignorare le forti interrelazioni economiche e commerciali che avvolgono l'intero globo? Si può prescindere, nel prossimo futuro, dalla dipendenza energetica e delle materie prime? Si possono accantonare le istituzioni multilaterali, che conferiscono un minimo di legittimità alle relazioni internazionali? Si possono bloccare, con un atto d'imperio, le correnti migratorie planetarie? Si può far fronte da soli, quale che sia il potere relativo di cui si dispone, alle nuove minacce transnazionali che incombono sull'umanità, come il terrorismo, il cambiamento climatico, il rischio di proliferazione nucleare, il depauperamento delle risorse alimentari, l'insufficienza dell'approvvigionamento idrico? Si possono risolvere con il solo strumento militare inestricabili crisi regionali?
Se la riposta è no, allora dobbiamo convenire che le vecchie categorie utilizzate per l'analisi della politica americana, pur tenendo conto del forte ruolo dei Capi dell'esecutivo in un sistema presidenziale, non sono più adatte a farci comprendere le nuove regole del gioco. Il prossimo Presidente degli Stati Uniti non avrà, infatti, dinanzi a sé la classica scelta tra "isolazionismo" o " interventismo", per la semplice ragione che non c'è più un mondo esterno da una parte e il contesto nazionale dall'altro. Tutto è interrelato, interconnesso, intrecciato. Un esempio? Il salvataggio della Chrysler di Detroit è avvenuto grazie ad un’iniziativa bi-nazionale (un prestito statunitense e canadese di 7,6 miliardi di dollari), ma con il concorso decisivo di un’azienda di un Paese terzo (la Fiat) che a sua volta è ora in qualche modo  "salvata" dal surplus della consociata americana; il modello è quello del "costruttore globale" di auto. Le ricadute, localissime, si misurano in posti di lavoro preservati in Michigan e in Ontario (ma ciò sembra applicarsi meno, purtroppo, agli operai italiani..). Inoltre, lo scongiurato fallimento dell'industria automobilistica americana ha reso più plausibile la prospettiva di una ripresa economica mondiale (benché essa appaia ancora lontana). In questo contesto, il prossimo Presidente degli Stati Uniti potrà essere più o meno protezionista, più o meno incline alla retorica del "buy American", ma dovrá essere comunque un attivista internazionalista anche solo per difendere gli interessi americani. Certo, nel caso di un “neofita” come Romney, si tratterebbe di scontare un periodo di “apprendistato”, ma questo non è di per sé un fatto problematico.
Quanto a noi Europei, dovremmo imparare ad essere meno allarmisti. Ho sentito ripetere che il riferimento all'Europa è stato quasi del tutto assente dalla campagna presidenziale. Ma davvero? E di cosa si discettava, quindi, ogni volta che si faceva riferimento alla crisi finanziaria e alla questione dell'indebitamento pubblico? Come Romney ha dimostrato in una delle sue ultime uscite elettorali, l'Europa è ben presente nell'orizzonte politico americano, se non altro nei termini di "cattive pratiche" di finanza pubblica da non emulare; di rimando, gli Europei non cessano di ricordare ai dirimpettai dell'altra sponda dell'Atlantico che la crisi finanziaria globale ha avuto un "innesco" americano. Benché in termini critici, è in confronto vivace e vitale; sarebbe impensabile che la stessa cosa avvenisse, che so, tra Washington e Pechino senza provocare un duro scontro internazionale.
In generale, la visione del ruolo degli Stati Uniti nel nuovo contesto globale oscilla tra i due poli opposti del "declinismo" e del "primatismo". Per la prima scuola di pensiero, la traslazione del potere economico globale dall'Occidente all'Oriente relegherebbe gli USA  in una posizione difensiva, destinata tuttavia ad essere inefficace nel lungo periodo. Per gli assertori del "primato" americano, gli Stati Uniti sarebbero invece in grado di conservare ancora a lungo l'egemonia ideologica globale (con il liberalismo), oltre che in termini di capacità militari. John Hulsman e Anatol Lieven coniarono, qualche anno fa, l'espressione "realismo etico"; sembra un ossímoro, ma è in realtà l'unica politica estera praticabile - che si tratti o meno di una super-potenza - in un mondo sempre più difficile da interpretare.