La Chiesa nel mondo post-europeo

Forse mai come negli ultimi 50 anni la Chiesa cattolica è stata, nella sua composizione, così "universale". In effetti, alla diminuzione dell’affiliazione religiosa cattolica in Europa, ha fatto da contrappeso la persistente influenza del cattolicesimo in continenti extra-europei, dalle Americhe all'Africa all'Asia (pur sfidata dal crescente proselitismo protestante). Nel 2010, la popolazione cattolica mondiale ha raggiunto una cifra vicina al miliardo e 200 milioni di fedeli (un miliardo e 196 milioni) con un incremento di 15 milioni, equivalente all’1.3 percento. La Chiesa cattolica conta su circa 3000 diocesi presenti nel mondo, di taglia molto diversa tra loro, e su più di 400 mila centri pastorali, parrocchie e centri missionari.
Le cifre mostrano il peso dei cattolici extra-europei nella “mappa” del cattolicesimo. I cattolici, in rapporto alla popolazione mondiale, sono il 17.5 percento della stessa. Essi sono il 28,5 % della popolazione dell’America Latina e il 23.8 di quella europea.
I battezzati cattolici in Brasile sono più di 128 milioni. A parte l’Italia, altri tre Paesi fanno registrare un numero di cattolici superiore ai 50 milioni: il Messico, gli Stati Uniti, le Filippine. In Paesi come l’Argentina e la Colombia i cattolici superano i 25 milioni (come avviene per la Francia, la Spagna, la Germania). Tuttavia il dinamismo e la struttura organizzativa dei cattolici d’America è oggi ben superiore alle comunità del Vecchio Continente. Da questo punto di vista, oggi il mondo cattolico è più un mondo “americo-europeo” che “euro-americano”. I cattolici sono inoltre ben radicati in Africa sub-sahariana e in particolare in Angola e Zaire.
A questa articolazione globale ha corrisposto solo in parte e solo in tempi relativamente recenti una parallela "ristrutturazione" della governance romana. Il rinnovamento "geo-grafico" della Curia è avvenuto con lentezza e a fasi alterne, benché già Paolo VI l'avesse auspicata ed incoraggiata con la costituzione Regimini Ecclesiae Universae, emanata nel 1967, e improntata allo spirito di apertura del Concilio Ecumenico Vaticano II. Oltre ad una razionalizzazione dei Dicasteri, infatti, Paolo VI mirava anche a rendere la composizione della Curia romana più internazionale. I progressi ci sono stati con Giovanni Paolo II e con Benedetto XVI. Il Papa polacco compì, con la costituzione Pastor Bonus del 1988, un'ulteriore riforma della Curia, sottolineando come essa dovesse assolvere alla funzione di "amministrare tutte le nazioni" e prospettando una struttura e metodi d'azione meno centralistici, più collegiali e meno "romani".
L’amministrazione centrale vaticana è senza dubbio una spia della “internazionalizzazione” della Chiesa, ma ancor più rilevante è ovviamente la composizione del Collegio cardinalizio. Al momento, dei “cardinali elettori” (cioè quelli che non hanno superato ancora gli 80 anni d’età e quindi partecipano al conclave) 63 sono europei, 13 dell’America settentrionale, 20 dell’America latina, 11 dell’Africa, 8 dell’Asia e 1 dell’Oceania. Gli Italiani sono 29, e ciò fa della Chiesa italiana quella più rappresentata nel collegio.
La preponderanza dei cardinali europei è certamente un legato storico, ma non è in linea con lo sviluppo extra-europeo della Chiesa. Benedetto XVI ha avuto piena consapevolezza di tale distorsione, e nello scorso ottobre diede un chiaro segnale nella direzione di una maggiore rappresentatività dei continenti all’interno del collegio cardinalizio, nominando sei cardinali provenienti da Asia, Africa, Medio Oriente, Americhe, “escludendo” italiani (in particolare il Patriarca di Venezia e l’Arcivescovo di Torino e altri esponenti della Curia e direttori di Pontifici Consigli).
La questione, tuttavia, non riguarda la mera rappresentanza geografica. E’ piuttosto in gioco l’agenda setting della Chiesa cattolica in un modo in rapida trasformazione. Il cattolicesimo si sviluppa nelle aree emergenti, e cioè proprio nei centri che se da un lato hanno tratto beneficio dalla globalizzazione, dall’altro mettono in discussione sia la sua natura “occidentalista”, sia l’attuale struttura della governance economica mondiale. Negli anni ’60 si parlava di “inculturazione”, ad indicare la necessità che la Chiesa missionaria in Africa assumesse, nei limiti del possibile, alcune caratterizzazioni delle culture locali. Oggi la sfida è ben più impegnativa, e consiste, se vogliamo, in una de-occidentalizzazione della cattolicità, che, in quest’ottica, è chiamata a recuperare la sua antica vocazione universalista. In un certo senso, di tratterebbe di tradurre in pratica l’esortazione dell’Apostolo Paolo: “Non c'è Greco o Giudeo, circoncisione o incirconcisione, barbaro, Scita, schiavo, libero” (Col 3,11). Questa impostazione non è condivisa da tutti, in Vaticano e fuori di esso, perché rischia di entrare in collisione con la visione euro-centrica e con la narrativa di una religione “giudaico-cristiana” abbeveratasi anche alle fonti della cultura greco-romana. L’Europa rimane ancora oggi la preoccupazione principale della Chiesa cattolica “romana”, a cominciare dalla questione della mancata inclusione della menzione delle radici cristiane nel Preambolo del (naufragato) Trattato costituzionale europeo, per finire con il progetto, che ha avuto proprio il Benedetto XVI uno degli ispiratori, di un “Pontificio consiglio per la Promozione della nuova evangelizzazione”, guidato da Mons. Rino Fisichella. La nuova struttura ha come riferimento fondamentale la “ri-evangelizzazione” dell’Europa, e dell’Occidente più in generale, e rappresenta, in positivo, una presa di coscienza del rischio di una de-cristianizzazione non certo a causa di una presunta “invasione” dell’Islam, o di una secolarizzazione sistematica, ma per l’avvento di nuove generazioni di “indifferenti” più che di non-credenti in senso tecnico. In questo scenario complesso, fatto di priorità e sfide, si collocherà la scelta del nuovo Papa, che sarà chiamato alla guida di una Chiesa in un mondo che se è in parte post-secolare è anche soprattutto post-europeo.