1.
Machiavelli e gli albori della
diplomazia residente
A distanza di 5 secoli, cosa può ancora insegnare il
Segretario Fiorentino al diplomatico del terzo millennio? Certo è che oggi la
diplomazia come funzione sperimenta una radicale trasformazione, pur senza
perdere i suoi connotati distintivi. In particolare, nell’era dei big data il diplomatico deve anzitutto
essere un analista politico, in grado di decifrare la complessità che si
manifesta nelle diverse sfere delle attività umane e sociali. L’attività
negoziale rimane una caratteristica saliente della diplomazia, ma si trasforma
da una parte nella fattispecie del “negoziato permanente” all’interno delle
istituzioni multilaterali e in particolare nel contesto integrativo dell’Unione
Europea, dall’altra assume i connotati di una diplomazia di crisi, sia in
relazione alle questioni che sono cruciali per la sicurezza in situazioni
conflittuali o post-conflittuali, sia in quelle riguardanti le criticità del
sistema economico globale.
Nell’era di Machiavelli la nuova struttura politica
integrativa, lo stato-nazione, era ai suoi albori; oggi siamo dinanzi a sfide
spesso radicali allo stato sovrano westphaliano in un contesto sempre più
globale e transnazionale.
Cominciamo col dire che Machiavelli non fu, ovviamente,
un diplomatico nel senso moderno del termine. Fu un inviato speciale di
Firenze, in un’epoca in cui la diplomazia residente e non occasionale cominciava
a prendere piede in concomitanza con la nascita e il consolidamento dello stato
moderno. Ciò non impedì che Machiavelli intuisse le potenzialità intrinseche in
una nuova organizzazione delle ambascerìe. Come si evince dai rapporti spediti
nel corso delle sue numerose missioni diplomatiche, Machiavelli vedeva nella
diplomazia permanente una sorta di equivalente politico-diplomatico della sua
tesi sulla necessità, in campo militare, di formare un esercito regolare e non
affidarsi solamente ai servizi di mercenari.
Egli non cessa infatti di protestare, nei suoi resoconti, sul fatto che le
ambascerie di Firenze sono troppo spesso affidate a mercanti e a viaggiatori
spesso impreparati e inviati improvvisati, mentre il Duca Valentino in due
settimane aveva speso in corrieri e inviati speciali – scrive tra lo sconsolato e l’ammirato
Machiavelli da Imola nel 1502 –
tanto denaro quanto chiunque altro avrebbe speso in due anni.
Le provvisioni di questo signore, di che per più mie ho
scritto, si sollecitano da ogni parte, e ha spesi, poiché io fui qui, tanti
danari in cavallari e mandatari, quanti un’altra signoria non spende in due
anni.
L’idea che la diplomazia potesse essere un campo sui cui
investire, anche finanziariamente, non sembra che fosse una priorità della
Signoria. Al contrario, i mezzi di cui potrà disporre Machiavelli saranno
limitati e inadeguati. In effetti, nelle sue lettere Machiavelli non mancherà
di lamentarsi insistentemente della mancanza di adeguate risorse finanziarie,
prospettando più volte addirittura l’immediato rientro in patria in assenza di
provvedimenti urgenti da parte dei suoi referenti istituzionali fiorentini.
Scrive insieme a Francesco della Casa, suo compagno nella prima legazione in
Francia, rendendo evidenti le condizioni precarie in cui si svolge la loro
missione:
Pensino le Signorie vostre che noi non siamo né di tale
credito che noi potessimo, come molti ambasciadori, intractenerci di qua né
mesi né settimane sanza provvedimento delle Signorie vostre; alle quali ci
raccomandiamo.
E da Imola, durante la seconda legazione al Valentino:
Io partirò domattina di qui et ne andò dreto alla Corte,
non di buona voglia, perché io non mi sento bene; et oltre alle altre mia
incommodità, io ho avuto da le Signorie vostre 55 ducati, et ne ho spesi infino
ad qui 62, truovomi in borsa 7 ducati, dipoi mi converrà ubbidire alla
necessità. Et però prego vostre Signorie mi provvegghino, quae bene valeant.
Non sono che due esempi di una permanente situazione di fondi
insufficienti a sostenere una legazione per un tempo prolungato; ma si tratta
di una conseguenza di una concezione della diplomazia che stenta ad uscire
dalla occasionalità e dall’essere intesa come una professione per rampolli di
famiglie nobili e ricche. L’evoluzione in senso “weberiano” della diplomazia, e
cioè la sua trasformazione in una professione di tipo legal-razionale, con
l’allargamento della sua base sociale alla borghesia, è di là da venire.
2.
Machiavelli diplomatico
Machiavelli divenne, nel 1498, all’età di 29 anni,
secondo cancelliere della repubblica e quasi immediatamente assunse anche il
ruolo di segretario dei Dieci di Balìa (o di Guerra). Fu in detta funzione che
Machiavelli entrò in diretto contatto con gli “agenti” diplomatici, sia
scrivendo istruzioni per gli Ambasciatori, sia svolgendo egli stesso missioni
diplomatiche (Legazioni e Commissarie) talvolta di secondo livello (nel caso vi
fosse in sede un “oratore” già inviato da Firenze o la sede fosse
temporaneamente “vacante”), talaltra complesse e delicate, come quella presso
Luigi XII o il Valentino (Cesare Borgia), la cui figura in qualche modo
emblematica ispirò in buon parte le riflessioni sulla politica contenute nel
Principe.
L’organizzazione alquanto flessibile dei rapporti
diplomatici a Firenze faceva molto affidamento anche sul ruolo dei mandatari, inviati non tanto per
negoziare questioni sostanziali, ma per osservare e riferire o sistemare
questioni non ritenute di importanza strategica. Machiavelli svolse incarichi
diplomatici sia di portata “europea” (in Francia, in Germania) sia di rilevanza
“italiana”, nel processo di ristrutturazione della “balance of power” in
Toscana e nell’intera penisola, non senza risvolti oltrefrontiera (a Pisa,
Siena, Piombino, Mantova, Verona, presso il Valentino, alla Corte papale).
Anche la natura delle missioni fa registrare una considerevole varietà: da
quelle di tipo politico-diplomatico a quelle militari e strategiche, a quelle
di tipo economico-commerciale e persino religioso (v.tabella).
Legazioni e Commissarie
di Niccolò Machiavelli
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12-14 luglio 1499
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Legazione a Caterina Sforza
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10 giugno-11 luglio 1500
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Missione al campo sotto Pisa
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luglio-dicembre 1500
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Prima legazione in Francia (con Francesco della Casa)
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22-27 giugno 1502
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Prima legazione al Valentino
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23 ottobre -18 dicembre 1503
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Legazione presso la Corte papale
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19 gennaio – 1° marzo 1504
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Seconda legazione in Francia (mentre era “oratore”
Paolo Valori)
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9-11 aprile 1505
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Legazione a Giampaolo Baglioni
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16-14 luglio 1505
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Terza legazione presso Pandolfo Petrucci a Siena
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30 dicembre 1505-14 marzo 1506
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Commissione nel Mugello e nel Casentino
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25 agosto-26 ottobre 1506
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Seconda legazione presso la Corte papale
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9-15 agosto 1507
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Quarta legazione a Siena
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21 dicembre 1507-14 giugno 1508
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Missione in Germania alla Corte dell’Imperatore
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16-26 agosto 1508
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Commissione per il dominio fiorentino
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Gennaio-giugno 1509
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Commissione al campo contro Pisa
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10-15 marzo 1509
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Legazione al Signore di Piombino
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30 marzo-6 giugno 1509
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Seguito della commissione al campo contro Pisa
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10 novembre-17 dicembre 1509
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Commissione a Mantova e a Verona per affari con
l’imperatore
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20 giugno-24 settembre 1510
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Terza legazione in Francia
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10 settembre-4 ottobre 1511
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Quarta legazione in Francia
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2-9 novembre 1511
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Commissione a Pisa al campo del Concilio gallicano
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2 dicembre 1511-24 agosto 1512
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Commissione per fare soldati
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9 luglio-10 settembre 1520
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Commissione a Lucca per conto dei mercanti fiorentini
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11-20 maggio 1521
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Legazione al capitolo dei frati minori a Carpi
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19 agosto-settembre 1525
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Commissione a Venezia per conto dei provveditori del
Levante
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Luglio-ottobre 1526
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Al campo della lega di Cognac
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30 novembre-4 dicembre 1526
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Legazione a Francesco Guicciardini a Modena
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3 febbraio-13 aprile 1527
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Legazione a Francesco Guicciardini a Parma, a Bologna e
in Romagna
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3.
La diplomazia in Machiavelli:
metodo e funzione
Machiavelli non ha lasciato alcun trattato sistematico
sulla diplomazia paragonabile alle questioni teoriche e pratiche sviluppate in
modo organico nel Principe e nei Discorsi sulla Prima Deca di Tito Livio.
I riferimenti a Machiavelli diplomatico, in effetti,
hanno, da un lato, una natura spesso storiografica e persino biografica,
dall’altro rischiano di sovrapporre questioni politiche e, più precisamente,
come diremmo oggi, di politica estera (la diplomazia come metodo), con la diplomazia come funzione.
Lo nota Gramsci, criticando un lavoro di Paolo Treves,
in cui non si “distingue bene «politica» da «diplomazia»”.
Nella politica infatti – osserva Gramsci - l’elemento
volitivo ha un’importanza molto più grande che nella diplomazia. La diplomazia
sanziona e tende a conservare le situazioni create dall’urto delle politiche
statali; è creativa solo per metafora o per convenzione filosofica (tutta
l’attività umana è creativa).
E’ interessante notare come Machiavelli, pur nella sua
ottica a dir poco disincantata, non arriva a sostenere, come fa Gramsci
trattando dello scetticismo di Guicciardini, che “il diplomatico, per lo stesso
abito professionale, è portato allo scetticismo e alla grettezza
conservatrice.” Si tratta di un’attività “subalterna – come emerge dall’analisi
di Gramsci della figura di Guicciardini -
cioè subordinata, esecutivo-burocratica, che deve accettare una volontà
estranea (quella politica del proprio governo o principe) alle convinzioni
particolari del diplomatico (che può, è vero, sentire quella volontà come
propria, in quanto corrisponde alle proprie convinzioni, ma può anche non
sentirla: l’essere la diplomazia divenuta necessariamente una professione
specializzata, ha portato a questa conseguenza, di poter staccare il
diplomatico dalla politica dei governi mutevoli”.
Se ci limitassimo a considerare le riflessioni di
Machiavelli sulla diplomazia come metodo,
dovremmo rapidamente concludere che tale corso d’azione appare come residuale,
o come necessitato, laddove non sia possibile raggiungere obiettivi che
contemplino anche l’uso della forza. Da
questo punto di vista, Machiavelli ha anticipato la tesi della possibilità di
una diplomazia coercitiva, e cioè di un’azione politica internazionale che non
escluda il ricorso alla violenza. Si tratterebbe, più precisamente, di
“compellenza”,
nel gergo della dottrina strategica. E’ la retorica, spesso purtroppo
accompagnata dai fatti, di negoziati in cui, come si ama ripetere, “tutte le
opzioni sono sul tavolo”.
Vorrei però in questa sede concentrarmi di più sulla
diplomazia come funzione, e come
Machiavelli la concepisce e la descrive come ambito specifico (anche se non
ancora “specializzato”) dell’azione politico-istituzionale al di là dei confini
della repubblica.
4.
I diplomatici e la questione
della fiducia
Dico subito che è compito impervio e forse nemmeno
pienamente legittimo cercare di ricostruire una sorta di teoria pragmatica
della diplomazia nei numerosi rapporti redatti e inviati da Machiavelli. Forse
lo scritto che più si avvicina a una trattazione coerente sulla funzione
diplomatica è la famosa Lettera del 1522 di istruzioni – o meglio,
raccomandazioni - a Raffaello Girolami
allorché quest’ultimo si apprestava a partire come inviato preso la Corte
imperiale spagnola.
In questa istruzione, considerata forse come troppo politically correct rispetto alle
valutazioni e prese di posizione dello stesso segretario fiorentino durante le
sue missioni, emerge in modo molto marcato la questione della “reputazione”,
intesa questa volta non in modo strettamente strumentale come in alcuni
passaggi del Principe, ma come requisito essenziale per il successo della
stessa ambasceria.
E soprattutto si debbe ingegnare un oratore di
acquistarsi reputazione, la quale si acquista col dare di se esempli di uomo da
bene, ed essere tenuto liberale, intero, e non avaro e doppio, e non essere
tenuto uno che creda una cosa, e dicane
un’altra. Questa parte importa assai, perché io so di quelli che per essere
uomini sagaci e doppj hanno in modo perduta la fede col Principe, che non hanno
mai potuto dipoi negoziare seco; e seppure qualche volta è necessario
nascondere con le parole una cosa, bisogna farlo in modo che non appaja, e
apparendo sia parata e presta la difesa.
Si tratta di una dimensione – quella della reputazione
derivante dal non venir meno alla parola data - che appare piuttosto arduo
abbinare al pensiero di Machiavelli, dal momento che uno dei consigli che egli
stesso dà ai reggitori è che
non
può, pertanto, uno signore prudente, né debbe, osservare la fede, quando tale
osservanzia li torni contro e che sono spente le cagioni che la feciono
promettere.
Eppure quello che si evidenzia in questo passaggio è
esattamente la pistis, la fiducia,
intesa come affidabilità, e non solo e non tanto come una virtù. L’affidabilità - che associare al ruolo del diplomatico è
quanto meno ardito, a giudicare dalla “cattiva stampa” che tale funzione ha
ancora oggi agli occhi dell’opinione pubblica – è ritenuta nelle teorizzazioni
e nella pratica del negoziato internazionale come una qualità dirimente degli
attori, se essi intendono sviluppare una
relazione produttiva che si proietti anche nel futuro e che non venga ridotta
semplicemente ad un gioco a somma zero.
Le perdite momentanee in un determinato negoziato o quelle che si subiscono in
una “zona” negoziale rispetto ad un'altra, vengono, in questa prospettiva
assorbite nella prospettiva di negoziati futuri, nei quali si confida di
ottenere, invece, risultati soddisfacenti. Quest’ottica è quella che ad esempio
nei negoziati che hanno luogo nell’Unione Europea dà fondamento al cosiddetto juste retour, vale a dire l’aspettativa
di concessioni future da parte di partners
negoziali in termini di compensazione delle perdite attuali.
C’è dunque una ragione molto realistica e non certo etica
alla radice della raccomandazione di Machiavelli ai diplomatici di osservare
per quanto possibile la parola data, ed è legata alla probabilità di ottenere
risultati, visto che comunque il metodo solamente
diplomatico è una scelta subottimale rispetto a una combinazione di persuasione
e costrizione.
Per tale ragione Machiavelli, come egli stesso scrive,
cercò di guadagnare la fiducia dello stesso Cesare Borgia durate la sua
legazione a Imola:
E mi sforzo per ogni verso farmi uomo di fede appresso
sua eccellenza, e potergli parlare domesticamente
Appaiono dunque in conflitto, nella logica di
Machiavelli, due principi cardine delle relazioni internazionali, che hanno
notevoli implicazioni anche per i diplomatici di professione: da una parte, il
principio pacta sunt servanda, e cioè
la necessità di rispettare gli accordi conclusi nel libero esercizio della
volontà politica; dall’altra il criterio di revisione rebus sic stantibus, e cioè la verifica del permanere o meno nel
tempo delle basi politiche e sociali che sono alla radice dell’intesa.
5.
Il “reporting”: quanto, cosa e
come riferire
Un secondo elemento rilevante nelle istruzioni a Girolami
è la rilevanza della funzione di reporting
degli inviati, vale a dire l’attività di analisi e di rappresentazione delle
realtà politiche osservate, che Machiavelli chiama “avvisi” e che per lungo
tempo nella tradizione diplomatica si sono chiamati “telegrammi” (oggi, più
prosaicamente, “messaggi”).
Durante le sua prima missione presso il Valentino,
Machiavelli ha il sentore che il Consiglio dei Dieci non appare soddisfatto
dalla frequenza dei rapporti che egli gli invia,
e si difende con puntiglio:
Intendo come le signorie vostre si dolgono che miei
avvisi son rari; il che mi dispiace; e tanto più quanto a me non pare potere
migliorare avendo scritto a’ 7, 9, 11, 12, 13, 14, 15, 16, 17, 20, 23, 27, e
queste sono dei 29 e 30
Successivamente, piccato per le critiche dei Dieci nei
suoi confronti per una presunta mancanza di costanza nell’inviare i suoi
rapporti, Machiavelli scrive seccamente:
Io prego le SS.VV. mi abbino per scusato, e pensino che
le cose non s’indovinono; e intendino che si ha a fare qui con un principe che
si governa da sé; e che chi non vuole scrivere ghiribizzi e sogni bisogna che
riscontri le cose, e nel riscontrarle va tempo, e io m’ingegno di spenderlo e
non lo gittare via.
In realtà i messaggi che Machiavelli invia ai suoi
referenti in patria trovano notevole apprezzamento. Gli scrive Biagio
Buonaccorsi il 23 agosto del 1500, durante la prima legazione in Francia:
Io non voglio mancare di significarvi quanto le vostre
lettere satisfanno a omni uno; e crediatemi, Niccolò, ché sapete che l’adulare
non è mia arte, che trovandomi io a leggere quelle vostre prime a certi
cittadini e de’ primi, ne fusti sommamente commendato.
Da
parte sua, Niccolò Valori scrive di
apprezzare “i raguagli e discorsi vostri” inviati dalla corte del Valentino,
che non potrebbano essere migliori né più aprovati. E
volessi Idio che ogni uomo si governassi come voi, che si farebbe manco errori.
I messaggi che gli Ambasciatori dovrebbero scrivere – e
questo rimane valido ancora oggi – sono di tre tipi fondamentali: quelli
descrittivi dell’attualità, della routine;
quelli che riscostruiscono vicende passate, che sono a fondamento talvolta
delle criticità presenti; quelli che si proiettano in una dimensione temporale
futura, e che con un termine anglosassone potremmo definire come la vision, la visione, che gli inviati o
oratori siano capaci o meno di sviluppare.
Fanno ancora grande onore a un imbasciatore gli avvisi che lui scrive a chi o manda, i
quali sono di tre sorte: o di cose che si trattano, o di cose che si son
concluse e fatte, o delle cose che si hanno a fare, e di queste conjetturare
bene il fine che le debbono avere.
Le tre categorie menzionate da Machiavelli si possono
sintetizzare in termini di accurata ricostruzione di eventi, di interpretazione
degli stessi, di proiezione degli scenari che a partire da essi possono
delinearsi nelle relazioni tra le unità politiche. Machiavelli adottò uno
strumento usato soprattutto dalla diplomazia veneta, e cioè il rapporto di fine
missione o “relazione finale degli ambasciatori, in cui si dà conto minuzioso
del paese nel quale si è stati, delle sue istituzioni, dei personaggi
principali a cominciare dal principe”.
Si tratta di un’attività che non è predittiva nel senso
delle scienze sociali, ma che è piuttosto un esercizio di prospettazione di
possibilità probabilistiche; dunque, di un’attività di natura qualitativa e non
semplicemente quantitativa. Questa
funzione, se vogliamo, di proiezione strategica è considerata da Machiavelli
come la più importante ed anche la più impegnativa tra le varie articolazioni
del reporting:
Ma saper bene le pratiche che vanno attorno, e
conjetturarne il fine, questo è difficile, perché è necessario solo colle
conjetture e col giudizio aiutarsi.
La “conjettura” di cui parla Machiavelli non è tuttavia
un esercizio privo di rischi, se esso porta il decisore politico a compiere
scelte sbagliate, fino all’opzione conflittuale. Le responsabilità del
consigliere sarebbero in tal caso molto gravi. Tuttavia in questo campo arriva
in soccorso di Machiavelli Francesco Guicciardini, affermando che se l’evento è
stato diverso dal giudicio, non per questo si debbe dare
colpa a chi avessi consigliato la guerra, poi che le ragione erano tale che lo
persuadevano a ogni savio.
Troppo dura sarebbe la condizione a cui sono sottoposti
e' consiglieri de' principi, se fussono obligati a
portare in consiglio non solo discorsi e considerazione umane, ma ancora o
giudicii di astrologi, o pronostici di spiriti, o profezie di frati.
6.
La rete informativa
Il terzo punto che vorrei trattare riguarda il flusso di
informazioni che Machiavelli immagina circolare
attorno all’inviato, e che vede coinvolti numerosi e eterogenei attori:
lo stesso diplomatico, la sua madrepatria, faccendieri e cortigiani locali
(che, sia detto per inciso, Machiavelli raccomanda di “coltivare” anche con
metodi poco ortodossi, come la corruzione; prendiamolo però per il verso
giusto, e diciamo che Machiavelli era sensibile al ruolo delle lobby e dei non-State actors…). L’intuizione
fondamentale di Machiavelli è che le informazioni tendono a pervenire a chi già
ne detiene, in una sorta di network
informativo in cui la corrente è biunivoca e la circolazione continua. Per
ottenere informazioni pregiate – sostiene Machiavelli – bisogna essere in grado
di offrirne.
In una città a volere che un suo ambasciatore sia onorato
non può farsi cosa migliore, che tenerlo copioso di avvisi, perché gli uomini
che sanno di poter trarne, fanno a gara a dirgli quello che gl’intendono.
Una volta ottenute le informazioni ritenute utili, il
diplomatico deve soppesarle, ponderarle, al fine di identificare le cose “vere”
o quanto meno “verosimili”. Riferire ai propri stakeholders in patria è ovviamente il passo successivo, ma con una
particolarità. Machiavelli consiglia infatti di porre una prudente distanza tra
il diplomatico e i giudizi che egli/ella esprime, non per un asettico esercizio
di obiettività o di avalutatività, ma per rafforzare con riferimenti autorevoli
o veritativi le proprie considerazioni. A questo fine, Machiavelli suggerisce
di spersonalizzare l’opinione resa:
Queste cose adunque bene intese e meglio esaminate
faranno che poi potrete esaminare e considerare il fine di una cosa, e farne
giudizio scrivendola. E perché mettere il giudizio vostro nella bocca vostra
sarebbe odioso, è chi usa nelle lettere questo termine, che prima di discorre
le pratiche che vanno attorno, gli uomini che le maneggiano, e gli umori che le
muovono, e dipoi si dice queste parole: Considerate adunque tutto quello che vi si è
scritto; gli uomini prudenti che si trovano quà, giudicano che ne abbia a
seguire il tale e tale effetto.
Si tratta di un’accortezza non solo stilistica, ma anche
prudenziale – come abbiamo visto a proposito della “conjettura”; oggi essa si
ritrova nella formula, usata a lungo dalla diplomazia italiana, che attribuisce
giudizi e valutazioni a “fonti bene informate” o ai “circoli politici” vicini
alle Autorità dei Paese di accreditamento.
7.
Machiavelli e le “virtù”
diplomatiche
Se volessimo sintetizzare ciò che Machiavelli ci ha
lasciato in termini di utilità per la funzione diplomatica odierna, potremmo
forse identificare i seguenti elementi:
· Necessità di riconcettualizzare
il ruolo del diplomatico non tanto in termini di negoziatore diretto, ma in
termini di facilitatore affidabile, e dunque credibile senza necessariamente essere imparziale. In un quadro
globale in continuo movimento la funzione diplomatica ha una valenza
stabilizzatrice.
· Persistente necessità della
diplomazia permanente e residente, nonostante la retorica del web e della e-diplomacy, della diplomazia virtuale o
dei social networks (non c’è nulla
che possa sostituire la cura diuturna degli affari internazionali assicurata
dai diplomatici). Per Machiavelli sono almeno cinque le ragioni di una
diplomazia “continua”:
1.
avere la possibilità di cogliere immediatamente le occasioni di successo
quando si presentano, anche in modo imprevisto;
2.
poter davvero acquisire conoscenza e influenza;
3.
riuscire a far sì che le intese raggiunte in termini generali siano
effettivamente applicate, tradotte in pratica;
4.
mostrare considerazione per lo stato di accreditamento attraverso l’invio
di rappresentanti di alto rango;
5.
configurare il ruolo del diplomatico in termini di analista politico, in
grado di prospettare anche scenari strategici e in ogni caso di indicare la
possibile evoluzione degli eventi e degli avvenimenti. D’altra parte, lo stesso
Machiavelli riuscì, grazie agli incarichi diplomatici, ad affinare quella
scienza politica, quel realismo, il cui fondamento principale consisteva
nell’osservazione e nell’acquisizione di sempre maggiore esperienza delle cose
umane, essenziale per prevedere l’esito di un’impresa.
Nel Rapporto delle cose della Magna
del giugno 1508, Machiavelli dichiarava che la finalità del suo Rapporto era
quella di riferire «alla mescolata» ciò che aveva sentito dire, presentandolo
non come vero o ragionevole, ma solo come testimonianza,
parendomi l’ufizio d’un servitore sia porre innanzi al
signor suo quanto egli intende, aciocché di quello vi sia di buono e’ possi far
capitale.
E da Imola, il 3 novembre 1502, scriverà
ai Dieci
che
se le parole e le
pratiche mostrono accordo, li ordini e preparazioni mostrono guerra.
E’ interessante constare come queste ragioni a sostegno
della diplomazia attenta, assidua e direi responsive
che stanno alla base dell’incipiente diplomazia stabile e bilaterale si
applichino, oggi, alla diplomazia multilaterale, e specialmente alle
istituzioni internazionali o integrative come l’Unione europea, configurabili
esattamente nei termini di un ordine o sistema negoziale permanente.