Il recente vertice del G7, nonostante l'atteggiamento russo teso a minimizzarne il significato, costituisce, in realtà, un momento di ri-definizione della cosiddetta "governance globale". In quanto gruppo informale, e non vera "istituzione internazionale", il G8 è costituito, in fondo, da "auto-nominati" e se ne diventa membri in base a cooptazione. Proprio questo suo carattere destrutturato aveva consentito, con la fine della Guerra Fredda, di invitare la Russia a farne parte, senza troppe complicazioni. Tuttavia, nella sostanza, la Russia non si era mai fino in fondo integrata in un gruppo che – ricordiamolo – è nato per favorire il coordinamento tra le principali potenze industriali che adottano sistemi economici e politici di tipo occidentale. Dopo gli entusiasmi iniziali, ben presto si era dovuto prendere atto che su molte questioni di politica internazionale, e in particolare nell'ambito della sicurezza, la Russia andava per conto suo. Da questo punto di vista, il G7 non è mai diventato davvero G8. Tuttavia la partecipazione della Russia era legata alla prospettiva di una ripartenza nella collaborazione tra Mosca e Washington dopo la caduta del Muro di Berlino. Da questo punto di vista, la trasformazione del G7 in G8 aveva assunto un valore politico e simbolico importante. Per questo motivo, benché il Ministro degli esteri russo Lavrov abbia dichiarato che “non è una tragedia” per la Russia non far più parte del gruppo, ciononostante si tratta di un’involuzione rilevante, che ha anch’essa un valore altamente simbolico. Inoltre, dopo l’annessione della Crimea la percezione della Russia sul piano internazionale non sarà più la stessa; in qualche modo, l’effetto negativo in termini di “legittimità” internazionale della mossa di Mosca è paragonabile, per le conseguenze a lungo termine, all’intervento americano in Iraq nel 2003. L’onda lunga di quella decisione unilaterale presa dall’Amministrazione Bush cambiò per oltre un decennio la “reputazione” degli USA non solo nel mondo arabo-islamico, ma su scala globale. Allo stesso modo, le ripercussioni dell’annessione della Crimea si faranno sentire non solo in Europa Orientale, ma in tutta l’Eurasia (compreso il Caucaso) e a livello mondiale. Nel mondo contemporaneo non contano più solo il potere militare o economico; conta altrettanto, e in modo strutturale, l’identità di un Paese in quanto membro responsabile e affidabile della comunità internazionale. Non è un caso che Europa e Stati Uniti abbiano avviato una riflessione concreta sulla riduzione della dipendenza da Mosca per le risorse energetiche (che è reciproca: l’ottanta percento delle forniture russe è acquistata dall’Europa!). In prospettiva, la questione della Crimea costringerà gli Stati Uniti a ri-focalizzarsi sull’Europa, e non solo sull’Asia come area di interesse strategico ed economico per Washington. Una prova di questo rinnovato interesse è data dal rilancio del negoziato per la conclusione di un grande accordo di libero scambio e cooperazione economica tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti (il TTIP - Transatlantic Trade and Investment Partnership). E’ presto, forse, per parlare di una nuova Guerra Fredda; siamo piuttosto in una fase di “transizione di potere” a livello mondiale, e in questo riallineamento la Russia non appare come una vera e propria “potenza emergente”, nonostante faccia parte del gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Come avvenuto per Washington, anche Mosca dovrà fare i conti con cambiamenti strutturali; le ambizioni egemoniche, come sempre, non possono prescindere dalle reali capacità e soprattutto con dalla loro sostenibilità pratica e politica. Nel merito, l’annessione della Crimea rappresenta un residuo della decrepita idea che a ogni stato debba corrispondere una ed una sola nazione, e cioè una popolazione omogenea in quanto a lingua, etnia, tradizioni, ecc. Dal Trattato di Versailles in poi, si tratta di un’illusione – quella della perfetta coincidenza tra “stati” e “nazioni” – che ha provocato solo tragedie umane e politiche. Se vogliamo, era più moderna, paradossalmente, la struttura multinazionale dell’Impero Romano o la Respublica Christiana del Medioevo. Leggere un buon libro di storia internazionale, a Mosca come a Washington, non farebbe male.
Iparchi elpida
“Iparchi elpida!” – C’è speranza! Questo lo slogan che mi accoglie ad
Atene, nella centralissima piazza Syntagma, ove si svolge un’ordinata e
colorata manifestazione di un movimento evangelico. La mobilitazione provocata
dalla crisi ha anche queste dimensioni, se vogliamo un po’ millenariste, oltre
a quelle della protesta violenta o dei cortei organizzati. Molto meglio,
ovviamente, delle ronde razziste di Alba Dorata, la formazione di estrema
destra che continua a compiere incursioni di stampo in perfetto stile
squadrista, complendo prevalentemente gli immigrati in nome della “purezza” etnica
e di un nazionalismo aberrante.
Torno ad Atene a vent’anni di distanza da un’esperienza professionale
quadriennale, e trovo una città molto cambiata. Paradossalmente, il cambiamento
è avvenuto nella direzione del miglioramento: un nuovo e moderno aeroporto,
grandi arterie stradali, una efficientissima e ramificata metropolitana, nuove
infrastrutture sportive e di accoglienza. Il risultato degli ingenti investimenti
compiuti per l’organizzazione dei Giochi Olimpici di Atene del 2004. Si tratta,
lo so, di un’impressione superficiale. Nella città c’è un clima dimesso, molti
negozi hanno chiuso nonostante l’industria del turismo, che rappresenta ancora
oggi una fonte di reddito per molte aree del Paese. C’è poi una desolante e
eloquente proliferazione dell’accattonaggio, che colpisce persone di tutte le
età e etnie, compresi molti giovani greci. L’argomento del giorno è la chiusura
della televisione nazionale greca, la ERT (2656 posti di lavoro a rischio): una
controversa decisione assunta dal governo di coalizione che ha provocato
l’uscita dalla maggioranza del partito della “sinistra democratica” (DIMAR) e
portato alla formazione di un esecutivo sostenuto solo da Nuova Democrazia
(centro-destra) e PASOK (centro-sinistra). Una maggioranza a forte rischio,
visto che i due partiti hanno solo 153 parlamentari su 300. Come in tutti i
Paesi che hanno subito l’impatto dell’austerità, c’è una sostanziale sfiducia
nella politica. “Dexià” e “aristerà”, destra e sinistra, “sono tutti uguali” è
la risposta standard alla richiesta di un parere sul governo e sui partiti.
Vista da Atene, la crisi greca e la tormentata vicenda della “troika”
(Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea)
sembrano il risultato di una colossale miopia. La disoccupazione ha raggiunto
in Grecia la cifra record del 27%, mentre quella giovanile viaggia intorno al
64%; ciononostante, come condizione per assegnare una nuova tranche di aiuti da più di 8 miliardi di euro, si è chiesto alla Grecia di mettere in mobilità
(in sostanza, fuori del mercato del lavoro) ben 12.500 impiegati del settore
pubblico, senza che vengano offerte prospettive di ricollocazione. D’altra parte, il senso dell’appartenenza
alla storia europea è molto forte; il restauro in corso del Partenone,
sull’Acropoli, è il simbolo di questo legame e anche della voglia di riscatto
del popolo greco. Come è stato possibile, viene da chiedersi, anche solo ipotizzare
di “perdere la Grecia”? Quali meccanismi inesorabili dell’economia e della
tecnocrazia hanno reso plausibile l’impensabile, e cioè un’Unione Europea che
decide di abbandonare la Grecia al suo destino? Ironia della sorte, la Grecia
gestisce nel primo semestre del 2014 la presidenza di turno del Consiglio
dell’Unione Europea. Mentre visito il nuovo e
modernissimo museo dell’Acropoli, con le sue meraviglie, mi viene in mente che
l’Europa ha un debito con la Grecia. Il fregio del Partenone si trova, per
vicende storiche, al British Musuem. Sarebbe un gesto di immenso valore
restituirlo alla Grecia; un gesto simbolico di una solidarietà europea che
sembra essere svanita con la logica dei mercati finanziari e l’assillo dello spread.
Verso le elezioni europee 2014
L’Europa – e lo dimostrano tutte
le critiche che le vengono rivolte - è ancora un tema che mobilita le coscienze
e l’opinione pubblica Nonostante tutto, l’Europa continua ad essere un punto
focale nella vita dei cittadini. Io dico sempre che
quando i padri costituenti hanno varato il progetto di integrazione europea
avevano sì un sogno, ma soprattutto hanno avviato un progetto politico, hanno
compiuto una scelta che, alla luce delle trasformazioni in atto nel mondo
attuale, appare decisamente strategica. Allora tale progetto appariva
visionario, specie per quanto riguarda la dimensione della condivisione della
sovranità. Non è vero quello che si dice comunemente, e cioè che l’Europa ha
assorbito la sovranità degli stati e noi, quindi, l’abbiamo persa. Se ne parla
molto in relazione all’euro, come se il ritorno alla nostra liretta, in un
mondo di colossi economici, ci potesse consentire il ritorno alla nostra
sovranità: in realtà, con la lira oggi saremmo molto più limitati nel nostro
orizzonte di azione e saremmo sottoposti alle decisioni (per nulla
democratiche) e alle speculazioni dei grandi mercati finanziari. Dovremmo
capire che l’Europa è un progetto che richiede partecipazione e responsabilità;
tutti dovremmo farcene carico. Sembra infatti che quando oggi parliamo di
Europa, ci riferiamo a una realtà estranea, posta al di là delle nostre frontiere
e anche al di fuori del nostro controllo. Proprio su questa falsa
rappresentazione hanno giocato, in questi ultimi anni, persino governi
nazionali, facendo passare come imposizioni di Bruxelles decisioni che invece
sono state concordate tra i governi nazionali, creando nel nostro immaginario il
mito delle decisioni europee arbitrarie e prive di controllo. L’Europa, in
realtà, funziona con dei Consigli settoriali, a cui partecipano i ministri
competenti dei vari Paesi, e che partecipano in modo diretto alla presa di decisioni.
Rispetto a questo scenario, un
primo elemento che è opportuno introdurre è quello del reale “stato dell’Unione”,
ovvero come gli Europei davvero percepiscono l’Unione. Cosa preoccupa veramente
i cittadini in questo momento? Nei sondaggi dell’Eurobarometro, la risposta che
si pone al primo posto riguarda la condizione economica; seguono la
disoccupazione, quindi le finanze nei vari Paesi e poi l’inflazione. Ciò
dimostra come i cittadini siano assolutamente consapevoli delle realtà, molto
più di quanto non sembri percepire la politica. Uno dei temi populisti che
maggiormente sta ricorrendo in Europa è che la “minaccia” più grande sia
rappresentata dalle migrazioni, che invece troviamo molto giù nella scala delle
preoccupazioni dei cittadini, così come le tasse. Ovviamente le preoccupazioni concrete
dei cittadini sono frutto della crisi che ha colpito l’Europa a partire dal
2008. In effetti, in Europa il tasso di disoccupazione continua a salire mentre
l’ America, pur colpita gravemente dalla crisi, ha un valore di disoccupazione
che comincia a scendere. In America viene attuata una politica economica che
sostiene la crescita; politica che invece non troviamo in Europa, soprattutto
perché non c’è un governo politico dell’Europa, l’euro è abbandonato a sé
stesso. Nonostante tutto, nonostante la crisi, i cittadini – come ci dice
l’Eurobarometro - mostrano ancora fiducia nei confronti dell’Europa, mentre la
totale mancanza di fiducia è nei confronti dei governi nazionali. Se si chiede
ai cittadini chi dovrebbe agire affinché la situazione migliori, la maggior
parte continua a ritenere che sia l’Unione Europea a dover agire. Tuttavia si
riscontra anche una diminuzione percentuale dei giudizi positivi sull’Unione: a
partire dal 2006 fino al 2013 la fiducia nell’Europa è scesa dal 50% al 30%;
quanti considerano l’UE un fatto totalmente negativo sono saliti dal 15% al 30%.
Ciò che però preoccupa di più è la percentuale degli indifferenti, che potrebbero
trasformarsi in un numero molto alto di astenuti alle prossime elezioni europee
di maggio 2014. Anche per quanto riguarda il tema dell’euro, la maggioranza dei
cittadini europei, seppur lievemente, continua a considerarlo un fatto
positivo: anche in Italia il 59% dei cittadini ritiene che l’Euro sia un fatto positivo;
sembra che i cittadini comprendano che, se non ci fosse stato l’euro, le
conseguenze della crisi economica sarebbero state ancor più devastanti, poiché la
si sarebbe dovuta affrontare con una moneta internazionalmente debole come la
lira. In totale, il 51% dei cittadini europei crede ancora nell’euro. Se poi
chiediamo ai cittadini la loro valutazione
sui singoli risultati dell’UE, ciò che colpisce maggiormente è il l’apprezzamento
per la libera circolazione delle persone e dei beni; quindi, l’abbattimento
delle frontiere. L’altro punto qualificante è la pace tra i Paesi dell’UE:
l’Europa ha completamente “disinventato” la guerra. Questo ovviamente non
toglie che alle porte dell’Europa siano scoppiati dei conflitti. La domanda che
ci si pone è se l’Europa possa in qualche modo influire sui Paesi che si
trovano nel suo Vicinato per favorire la stabilità e la convivenza pacifica; ma
questa è un’altra storia.
Secondo me i cittadini europei
fanno bene a fidarsi delle istituzioni europee quando queste fanno proposte
sagge. Una di queste idee che però fatica ad essere messa in pratica dagli
stati membri è la politica “Europa 2020: una crescita intelligente, sostenibile
e solidale”: un’Europa che investa nell’istruzione, che non inquini e che affronti la piaga delle nuove povertà.
Abbiamo gli strumenti adatti a combattere la povertà? Abbiamo la volontà
politica? Gli strumenti per raggiungere questa crescita sono tanti, io auspicherei
che si raggiungesse almeno l’obiettivo, proposto dall’Europa, di spendere il 3%
del prodotto interno lordo per la ricerca e lo sviluppo e favorire non una
competitività dei nostri prodotti ottenuta riducendo in modo insostenibile le
conquiste di civiltà ed equità per i lavoratori per tentare battere la
concorrenza di Paesi dove il costo del lavoro è infinitamente più basso, ma
agendo sul lato dell’innovazione, amplificando da qui al 2020 il numero dei
laureati. L’Italia, negli ultimi anni, ha visto una diminuzione del numero dei
laureati: se le risorse di un Paese non vengono impiegate per favorire i
giovani, il suo futuro è compromesso. A livello politico non sembra, però, che
questo tema sia tenuto in debito conto.
La Commissione Europea ha
lanciato “Erasmus Plus”, il progetto pluriannuale che consente ai giovani di svolgere
periodi di studi all’estero, e mette a disposizione fino al 2020 quasi 15
miliardi di Euro da investire; è rivolto
ai giovani sotto i 30 anni, e include anche quanti desiderano migliorare la loro
formazione lavorativa. In realtà il dato dei 15 miliardi non è così alto come
sembra; in generale, il bilancio dell’UE equivale a più o meno l’1% del PIL degli
Stati membri. Un problema strutturale, una vera palla al piede, è che l’Europa
è frammentata in termini di politiche economiche; i singoli Paesi pretendono di risolvere i
problemi di crescita e occupazione in maniera autonoma, quindi con duplicazioni
e sprechi. Tuttavia bisogna essere chiari: la mancanza di unità in Europa non è
un tema economico; bisogna agire a livello politico. Il problema è l’insufficienza
della sovranità condivisa: assistiamo, al contrario, a una ri-nazionalizzazione
delle politiche. C’è uno studio della Commissione Europea su quale sarà il
contributo dell’Europa al PIL mondiale fino al 2050. Attualmente il contributo
dell’Europa è del 25%; nel 2050 scenderà al 15%. Anche grandi Paesi come la Germania,
da soli, comunque, si troveranno a non avere un ruolo così determinante sul
piano globale, perché si troveranno accanto a colossi come la Cina e ad altri
Paesi che crescono velocemente, come il Messico, la Turchia, l’Indonesia, la
Nigeria. Questi ultimi possono contare su livelli di crescita molto alti, anche
grazie a scelte intelligenti, come quella di sulle tecnologie del futuro.
L’Indonesia nel 2050 scalzerà l’Italia al nono posto tra i Paesi più
industrializzati del mondo. Il mondo come lo conosciamo oggi è destinato a
mutare radicalmente e la cosa migliore sarebbe accompagnare o anticipare questi
mutamenti, per non giungere impreparati. A livello mondiale, si va verso una
sempre maggiore integrazione. Accade , dunque, un fatto paradossale: proprio
ora che c’è più bisogno di una politica a favore dell’integrazione, in Europa si
comincia a parlare di disintegrazione: uscire dall’euro, chiudere le frontiere,
tutti concetti inutili e antistorici. Oggi tutto è transnazionale, l’unica cosa
che rimane territoriale è la politica. Il problema maggiore dell’Europa è costituito
proprio dal “freno” azionato da diversi Paesi, che ostacolano la formazione di politiche
integrate. Ciò non significa necessariamente creare un governo sovranazionale a
Bruxelles, ma incrementare la condivisione di sovranità in tutti quegli ambiti
che non possono più essere governati a livello nazionale. Non dobbiamo perdere
l’identità nazionale, ma solo migliorare l’integrazione delle politiche comuni.
Abbiamo integrando l’agricoltura, abbiamo integrato in buona parte i trasporti,
i mercati, abbiamo abbattuto - seppure in modo ancora incompleto - le frontiere per la libera circolazione. Dobbiamo
ora integrare le politiche economiche. Sarebbe ora il caso di vedere in azione una
nuova generazione di politici europei che si diano da fare per una rifondazione
dell’Unione. Non si tratta solo di modificare singole regole tecniche, ma di
far progredire l’integrazione in ambiti
fondamentali; altrimenti torniamo indietro. In questo momento quello che ci
blocca è una certa ideologia che nasce in ambito tedesco, che è stata definita Ordoliberalismus,
cioè un liberalismo basato sull’idea che le regole devono essere sempre e
comunque rispettate: le regole vengono create, poi agiscono indipendentemente
dalla politica. Per la Banca Centrale Europea, per i parametri di Maastricht vale
tale principio: abbiamo creato delle regole, ma nessuno è in grado di applicarle in modo intelligente e flessibile,
perché a nessuna istituzione è stata data la competenza politica per farlo. Ad
esempio oggi tutti concordano che c’è bisogno di regolare le finanze, ma si sta
agendo solo sulle finanze pubbliche e non sulle quelle private. E’ proibito, ad
esempio, ai governi dei Paesi membri dell’UE di sforare la soglia del 3% del
deficit del bilancio corrente, ma poi la finanza speculativa privata agisce
liberamente e praticamente senza vere regole internazionali o europee. Dov’è la
politica? Qual ruolo svolge? Creiamo regole che però alla fine colpiscono solo
i cittadini e non si applicano allo stesso modo al settore privato. In Germania
si è molto parlato dell’economia sociale di mercato, che però si è persa per
strada, perché l’elemento sociale non è più di moda oggi in Europa. Un’economia
sociale non significa solo uno stato sociale in senso tradizionale (ad esempio pagare
le pensioni), ma anche avere gli strumenti per alleviare la disoccupazione. Il cosiddetto
“fiscal compact” ha persino indurito le regole di Maastricht: è stato imposto
come obiettivo imprescindibile delle politiche economiche nazionali il raggiungimento
del pareggio di bilancio; si è quindi
riproposta a tutta l’Unione un’ideologia politico-economica di tipo tedesco. Noi
questo “fiscal compact” l’abbiamo sottoscritto; al sua logica è diventata in
tutta Europa quella prevalente e nessuno oggi prova a sfidare questa ortodossia.
Non siamo più al cospetto di una impostazione veramente politica
dell’integrazione europea, ma di una tecnica finanziaria. Non c’è un dibattito
tra visioni contrapposte; prevalgono i tecnicismi, che poi però hanno influenza
diretta o indiretta sulla nostra vita quotidiana. L’IMU ha una relazione con
questo, la spending review ha una
relazione con questo. L’Europa entra nelle nostre case senza che ci sia stato
un confronto o uno scontro politico su questo, abbiamo oggi delle politiche e non la politica, abbiamo delle scelte che di
fatto vengono prese senza discussioni e poi messe in atto. Quando si dice: “inseriamo
nella Costituzione la regola del pareggio di bilancio”, si tratta di una regola
che influisce su tutti, che modifica persino i caratteri del nostro modello
sociale, ed è assurdo che non sia stato possibile discuterne a fondo.
Ciò che è più grave, è che oggi, in
Europa ci troviamo di fronte a nuove faglie e separazioni, tutto il contrario
dell’Europa unita. Abbiamo Paesi che danno più di quello che prendono e Paesi
che prendono più di ciò che danno; l’Europa della crescita da un lato e quella
della recessione dall’altro; abbiamo quelli che credono nella formazione di un
unico popolo europeo democratico, nel demos,
e chi accentua sempre più il fattore
dell’ethnos, di identità esclusive. Un esempio di pregiudizio? L’Italia è uno
dei maggiori contribuenti netti dell’Europa, non ha preso nessun contributo,
neanche un centesimo, dal fondo salva-stati istituito per i Paesi in difficoltà
di liquidità; ciononostante, la considerazione che si ha dell’Italia nell’Europa
del Nord è quella di un Paese in bancarotta, alla stregua della Grecia. Non è
affatto così!
Ci sono poi delle fratture che
separano l’UE dal mondo esterno. Proliferano i localismi, le spinte alle
secessioni, le richieste di costruire sempre più barriere protettive. Ad
esempio, il fondamentale dibattito sull’ingresso nell’UE della Turchia viene
ridotto alla mitologia dei confini dell’Europa, frutto di una costruzione
mentale e di scelte identitarie arbitrarie.
Anche per questi motivi, la
stagione delle elezioni europee sarà complessa e difficile. Nel Parlamento di
Strasburgo potrebbe aumentare non solo gli euroscettici (che già ci sono), ma gli eurodemolitori. I presupposti, purtroppo, ci
sono. Se si considera che la partecipazione alle elezioni europee è andata
scemando enormemente nel corso degli anni (da oltre il 60% nel 1979 a poco più
del 40% del 2009), questa volta c’è il rischio che essa si riduca addirittura
al 30% e che buona parte di questo 30% sarà formato da chi intende “smontare”
l’Europa. Si potrebbe quindi arrivare ad avere un Parlamento Europeo eletto
solo dal 30% dei cittadini; per giunta, tali cittadini potrebbero essere, in
prevalenza, quelli che voglio “rottamare” l’Unione.
La questione europea rimane
complessa, soprattutto per quei Paesi che si trovano in una vera e propria
paranoia sociale come la Grecia o la Spagna. Le condizioni negative portano tra
l’altro a movimenti migratori “interni” in Europa di elevata intensità, che
riguardano soprattutto giovani, e che
creano condizioni drammatiche perché vanno a drenare le risorse migliori delle
società dei Paesi europei che si trovano in difficoltà economiche, a vantaggio
dei Paesi più prosperi.
E’ interessante notare che si è
sempre detto che avremmo risolto il problema della scarsa legittimità delle
istituzioni europee concedendo maggiore potere al Parlamento europeo. Il
maggior potere è di fatto stato concesso, e ciononostante si assiste ad una diminuzione
della partecipazione. C’è, quindi, un
problema di leggibilità di quello che succede nelle istituzioni. E’ in effetti
molto difficile far capire i meccanismi della presa di decisione nelle
istituzioni europee, e capire, in tale costruzione barocca, qual è davvero il
ruolo del Parlamento europeo. La famosa Costituzione europea, che fu bocciata con
due referendum in Francia e dall’Olanda, in realtà metteva un po’ d’ordine in
queste procedure, rendendole più chiare. Vogliamo parlare seriamente di quei
referendum? Quelli che si svolsero in Francia e in Olanda furono non referendum
europei, ma consultazioni popolari nazionali; ciò significa che 70-80 milioni
di europei, sui circa 450 milioni dell’Unione, hanno impedito l’entrata in
vigore della Costituzione, anche se in altri Paesi essa era stata ratificata.
Se si fosse tenuto un vero referendum pan-europeo nello stesso giorno e
avessimo chiesto il parere di tutti i cittadini europei, noi oggi probabilmente
avremmo la Costituzione europea. In questo caso, una minoranza ha impedito
all’Europa intera di avere un quadro istituzionale più chiaro e comprensibile.
Sul piano politico, i partiti ( e
i governi) europei hanno oggi un grave problema. Ci sono governi al potere che prendono
decisioni che portano anche ad alcuni risultati, ma che alla fine non vengono
percepiti come rappresentativi. All’opposto, abbiamo partiti rappresentativi di
istanze popolari che difendono tematiche molto serie, che però non esercitano
responsabilità; se fossero al governo, non si conformerebbero alle politiche
europee prevalenti, con effetti che potrebbero aggravare la crisi sociale ed
economica, a meno che non cambino fondamentalmente le regole europee.
Per concludere, vorrei toccare un
ultimo argomento, che riguarda le sfide
dell’UE in relazione alle prossime elezioni. Possiamo individuare tre ambiti. Il
primo è quello della polity. Riguarda
la cittadinanza europea, il governo dell’euro, il ruolo della Banca Centrale,
la creazione di nuove figure istituzionali, come un vero e proprio un ministro
dell’economia europeo. Riguarda anche l’atteggiamento nei confronti dei nostri
vicini, ad esempio i Paesi dei Balcani. Nei confronti di queste regioni
l’Europa ha una responsabilità storica. La Croazia è membro dell’UE da luglio
2013. La Slovenia ha già aderito da tempo. La Serbia è un Paese candidato, chissà
se la stessa Bosnia potrà esserlo in futuro. L’Albania ha avviato il processo
di avvicinamento all’Unione. Tutto questo ha sanato, in qualche modo, le
gravissime colpe di omissione dell’Europa nella tragedia dell’ex-Jugoslavia;
seppur con imperdonabile ritardo, l’Europa ha saputo dare una risposta
strutturale..
Il secondo punto concerne la politics, la politica intesa come
confronto tra visioni diverse. Fino a questo momento le elezioni europee sono
state viste come una sorta di prolungamento delle elezioni nazionali; abbiamo
spesso mandando al Parlamento europeo persone che erano uscite dal circuito
della politica nazionale, assegnando quindi oggettivamente all’Assemblea di
Strasburgo il rango di un’istituzione rappresentativa di second’ordine.
Pertanto, ora è essenziale restituire al Parlamento europeo la centralità
politica, istituzionale e rappresentativa che esso merita. A questo fine, c’è
bisogno di sviluppare un serrato confronto tra diverse visioni politiche: vogliamo
un’Europa dell’austerità o un’Europa della crescita? Vogliamo un’Europa basata
su regole astratte non governate da nessuno o vogliamo la creazione di un
ministro dell’economia? Questi sono i confronti necessari e ineludibili su cui
basare le elezioni europee.
Un terzo aspetto sono le policies, le concrete politiche riguardanti
i vari ambiti. Ad esempio, cosa fa l’Europa nei confronti delle altre potenze
come la Russia, la Cina, il Brasile? Per restare nel Mediterraneo, ancora non è
chiaro se l’Europa consideri la Primavera Araba una minaccia o una opportunità.
Io non voglio esaltare necessariamente la Primavera Araba come un fenomeno
interamente positivo; come abbiamo visto in questi mesi – basti pensare
all’Egitto - ci sono enormi contraddizioni e problemi, ma appare un errore
continuare a pensare a questi processi come a un potenziale pericolo. Dovremmo guardare a questi Paesi come realtà sociali
che hanno avviato un processo di liberazione nazionale; tali Paesi sono stati
governati per decenni da autocrati con i quali noi stessi in Occidente abbiamo
per anni concluso trattati e fatto accordi. La domanda è: l’Europa vuole entrare
nell’ottica di appoggiare questi tentativi di ripartenza democratica, oppure preferisce
disinteressarsene completamente, rimanendo alla finestra per vedere prima come
vanno a finire? In questo secondo caso, l’Europa non avrebbe più titolo di lamentarsi
se la piazza araba guarda con molto più interesse, ad esempio, a Washington che
non a Bruxelles. Questo avviene perché l’Europa si mostra sospettosa nei
confronti di queste trasformazioni, mentre attori internazionali non europei,
come gli Stati Uniti, danno maggior credito a tali processi. Questa area del
mondo in verità è per noi molto importante dal punto di vista politico,
economico, dal punto di vista delle fonti energetiche. Ma il punto fondamentale
rimane il processo politico avviato; sarebbe un errore storico affrontare
questa questione con la latente nostalgia dei dittatori!
L’Europa ha ancora molto da dire,
ma bisogna prendere coscienza delle criticità, dei nodi irrisolti. E’
fondamentale, però, un apporto di quanti intendono impegnarsi “politicamente”.
Impegnarsi politicamente non vuol dire solamente candidarsi alle elezioni o
governare. Uno dei problemi seri che abbiamo in Europa e in Italia è quello
della competenza civica. Noi come cittadini siamo spesso incompetenti, non conosciamo
i meccanismi: la competenza civica è il primo livello e fondamentale di
partecipazione politica al fine di favorire scelte ragionate, partecipate e
solidali.
La nostra condizione di oggi ben
si rispecchia in un’immagine giuntaci dall’autore latino Lucrezio che, nel De rerum natura, dice: “E’ una
bellissima cosa stare al sicuro sulla riva e guardare da lontano una nave che
lentamente affonda”. La notizia, oggi in Europa e nel mondo, è che la riva non
c’è più, siamo tutti imbarcati e quindi o troviamo tutti insieme la rotta
oppure naufragheremo. Io credo che con un’Europa che guardi costruttivamente a
una maggiore integrazione il pericolo possa essere scongiurato.
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