Iparchi elpida

“Iparchi elpida!” – C’è speranza! Questo lo slogan che mi accoglie ad Atene, nella centralissima piazza Syntagma, ove si svolge un’ordinata e colorata manifestazione di un movimento evangelico. La mobilitazione provocata dalla crisi ha anche queste dimensioni, se vogliamo un po’ millenariste, oltre a quelle della protesta violenta o dei cortei organizzati. Molto meglio, ovviamente, delle ronde razziste di Alba Dorata, la formazione di estrema destra che continua a compiere incursioni di stampo in perfetto stile squadrista, complendo prevalentemente gli immigrati in nome della “purezza” etnica e di un nazionalismo aberrante.
Torno ad Atene a vent’anni di distanza da un’esperienza professionale quadriennale, e trovo una città molto cambiata. Paradossalmente, il cambiamento è avvenuto nella direzione del miglioramento: un nuovo e moderno aeroporto, grandi arterie stradali, una efficientissima e ramificata metropolitana, nuove infrastrutture sportive e di accoglienza. Il risultato degli ingenti investimenti compiuti per l’organizzazione dei Giochi Olimpici di Atene del 2004. Si tratta, lo so, di un’impressione superficiale. Nella città c’è un clima dimesso, molti negozi hanno chiuso nonostante l’industria del turismo, che rappresenta ancora oggi una fonte di reddito per molte aree del Paese. C’è poi una desolante e eloquente proliferazione dell’accattonaggio, che colpisce persone di tutte le età e etnie, compresi molti giovani greci. L’argomento del giorno è la chiusura della televisione nazionale greca, la ERT (2656 posti di lavoro a rischio): una controversa decisione assunta dal governo di coalizione che ha provocato l’uscita dalla maggioranza del partito della “sinistra democratica” (DIMAR) e portato alla formazione di un esecutivo sostenuto solo da Nuova Democrazia (centro-destra) e PASOK (centro-sinistra). Una maggioranza a forte rischio, visto che i due partiti hanno solo 153 parlamentari su 300. Come in tutti i Paesi che hanno subito l’impatto dell’austerità, c’è una sostanziale sfiducia nella politica. “Dexià” e “aristerà”, destra e sinistra, “sono tutti uguali” è la risposta standard alla richiesta di un parere sul governo e sui partiti.

Vista da Atene, la crisi greca e la tormentata vicenda della “troika” (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea) sembrano il risultato di una colossale miopia. La disoccupazione ha raggiunto in Grecia la cifra record del 27%, mentre quella giovanile viaggia intorno al 64%; ciononostante, come condizione per assegnare una nuova tranche di aiuti da più di 8 miliardi di euro, si è chiesto alla Grecia di mettere in mobilità (in sostanza, fuori del mercato del lavoro) ben 12.500 impiegati del settore pubblico, senza che vengano offerte prospettive di ricollocazione.  D’altra parte, il senso dell’appartenenza alla storia europea è molto forte; il restauro in corso del Partenone, sull’Acropoli, è il simbolo di questo legame e anche della voglia di riscatto del popolo greco. Come è stato possibile, viene da chiedersi, anche solo ipotizzare di “perdere la Grecia”? Quali meccanismi inesorabili dell’economia e della tecnocrazia hanno reso plausibile l’impensabile, e cioè un’Unione Europea che decide di abbandonare la Grecia al suo destino? Ironia della sorte, la Grecia gestisce nel primo semestre del 2014 la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Mentre visito il nuovo e modernissimo museo dell’Acropoli, con le sue meraviglie, mi viene in mente che l’Europa ha un debito con la Grecia. Il fregio del Partenone si trova, per vicende storiche, al British Musuem. Sarebbe un gesto di immenso valore restituirlo alla Grecia; un gesto simbolico di una solidarietà europea che sembra essere svanita con la logica dei mercati finanziari e l’assillo dello spread.