Sicurezza, democrazia, partecipazione. Intervista a Pasquale Ferrara

(di Aldo Liga - 5.7.2012)
Pasquale Ferrara, diplomatico di carriera e professore universitario, dirige dal luglio del 2011 lo European University Institute di Fiesole. Il nostro incontro prende spunto dalla lettura del libro “Lo stato preventivo. Democrazia securitaria e sicurezza democratica” (Rubbettino, 2010). In questo testo Ferrara si concentra sull’analisi della reazione delle democrazie alle minacce esterne. Ad essere indagata è la relazione fra libertà e sicurezza, fra democrazia e terrore. Fondamentale per la nascita del volume l’esperienza del Segretario a Washington come Primo Consigliere nel settore politico presso l’Ambasciata d’Italia.
Nel descrivere la relazione fra civiltà e barbarie all’indomani dell’11 settembre Lei utilizza l’interessante immagine di San Giorgio che combatte il drago: “la giostra agonale assume ritmi sempre più incalzanti ed incontrollabili, tanto che il profilo del santo e del drago si mostrano sfuggenti e difficilmente distinguibili, fino al paradosso di divenire addirittura intercambiabili”.
È una riflessione basata sugli archetipi della civiltà occidentale, il bene contro il male. Non è solo una figura mitologica, ma ha anche una certa attualità politica, penso a Reagan, che definiva l’URSS “impero del male”, o a George W. Bush, che ha parlato di “asse del male”. Il libro si riferisce alla cosidetta “Global War on Terror”, che, definendo distintamente San Giorgio e il drago, trasmetteva l’illusione che si potesse derivarne una polarità. Oggi al contrario le figure non so no più così distinte. La perdita di credibilità dell’Occidente nella lotta al terrorismo avviene nel momento stesso in cui esso nega i suoi valori fondamentali. Tale operazione, veicolata anche dal mito della paura globale, panica, in un mondo in cui non si comprendono da dove provengono le minacce ha avuto una forte premialità politica. Il libro nasce dall’esperienza presso l’Ambasciata italiana a Washington, fra il 2002 e il 2006. Durante questa esperienza ho avuto modo di vivere sul campo la rielezione di Bush proprio intorno al tema della difesa dell’America. In quel caso il termine “terror” non era riferito soltanto al terrorismo ma anche alla globalizzazione, alla migrazione… Una sorta di passepartout che veicolava significati diversi. Oggi la situazione è molto cambiata, mi trovo concorde con Ulrich Beck quando parla di “società globale del rischio”: tutti i rischi vengono declinati dal potere secondo le convenienze del momento. L’insicurezza globale viene “sequestrata” dal potere per scopi puramente strumentali. La partecipazione politica oggi si gioca sulla capacità di riuscire a distinguere le caratteristiche funzionali del potere dal tema dell’insicurezza globale. La politica non può dare sicurezza, è anzi il principale fattore di insicurezza. Oggi lo stesso stato westfaliano è fonte di insicurezza, la sua permanenza crea insicurezza: oggi in Europa, ad esempio, gli investitori non credono più nello stato nazionale.
In particolare Lei parla di “deinocrazia”, governo del terrificante, condizione di precarietà assoluta, di pericolo permanente, di minaccia persistente ed incombente. Molti regimi occidentali si sono quindi progressivamente trasformati in “democrazie securitarie”.
Il terrore ha assunto il ruolo di formula politica per ridurre la complessità, per ricondurre le società ad un modello standard. Ha assunto la funzione di programma politico, di normalizzatore. Il “terrificante” è un fenomeno diverso. La nozione stessa di insicurezza indistinta è stata incorporata negli assetti del potere, è l’azione stessa che è improntata sul terrore che rimane sullo sfondo, non è palese, si intravede in controluce. Al contempo, è come se lo Stato, in antitesi rispetto al pensiero di Hobbes, fosse divenuto una sorta di “agenzia delle assicurazioni” da cui devono arrivare tutte le certezze che la società civile vuole. Viene delegata al potere la prospettiva del futuro. Questo è un problema che più che i sistemi politici in sé riguarda le società stesse che hanno abdicato e appaltato allo stato le proprie prerogative. Con i regimi di welfare si è parlato di overload di domande nei confronti degli stati. Ora si è giunti a richieste di sicurezza esistenziale. I governi non riescono a tenere il passo: l’antipolitica nasce anche da questa disillusione. Va pertanto ripensato il rapporto fra società e politica.
Un’esperienza di società minacciata dal suo stesso governo è quella da Lei vissuta personalmente in Cile, durante la fase di transizione dei primi anni ’90.
Tramite l’impiego di strumenti tecnologici lo stato era effettivamente il principale elemento di insicurezza. Nei regimi dittatoriali sudamericani esistevano meccanismi di difesa preventiva messi in atto allo scopo di esercitare un potere pervasivo. Nel Cile di Pinochet vennero adottati decreti-legge segreti e leggi segrete, trascritte in una sorta di gazzetta ufficiale, anch’essa segreta. Queste leggi nascondevano che il regime si appropriava di grosse fette del reddito per finanziare la repressione interna.
Per circa un decennio il terrorismo è stato percepito dalla maggioranza degli europei come un rischio presente, reale, imminente. Oggi sembra che il tema sia passato in secondo piano, o almeno sia stato ridimensionato. In che modo viene percepito oggi il terrorismo?
La “Global War on Terror” è un triste capitolo della sudditanza dell’Europa agli Stati Uniti. Per circa un decennio alla lotta contro il terrorismo è stato dato un posto centrale e fondamentale in quasi tutti i vertici internazionali, anche quando le delegazioni statunitensi non erano presenti. Ma il terrorismo era “il” problema  fondamentale dell’umanità? E le malattie endemiche? Il cambiamento climatico? La sicurezza alimentare? Ora la situazione sembra mutata, anche perché l’amministrazione Obama si è focalizzata su tematiche interne: un ripiegamento sostanzialmente giustificato dall’insostenibilità di gestire in termini securitari l’assetto globale. Con Obama si è assistito ad una virata: al centro vi è oggi il multilateralismo efficace, quindi una maggiore apertura alle organizzazioni internazionali. Questo non è ancora però segno di una svolta radicale, ma è sintomo eloquente di un’insostenibilità del ruolo globale degli USA e quindi, conseguentemente, di debolezza.
La caratteristica principale della reazione delle democrazie all’11 settembre 2001 è stato l’aver reso intermittente e condizionale la validità dei codici. La creazione quindi di uno spazio politico privo di legge tramite l’imposizione di uno stato di eccezione o di un regime emergenziale. Lei critica fortemente l’abdicazione dei principi democratici per l’autodifesa degli stessi. La ritiene un’involuzione della democrazia. Alle luce delle sue considerazioni vorrei però un commento su episodi eticamente riprovevoli ma in parte efficaci: mi riferisco alle azioni del BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais), i cui interventi sono stati particolarmente incisivi nel contrasto alla criminalità all’interno delle favelas brasiliane. Ne “Lo Stato preventivo” Lei cita la teoria del “male minore” (lesser evil) di Ignatieff, ovvero “l’ammissibilità di eccezioni mirate e temporanee al principio di legalità”.
La deinocrazia prevede uno stato di eccezione non dichiarato, non identificabile come tale, insidioso, ubiquo. Per rispondere alla sua domanda vanno prese in considerazione due dimensioni. La prima: vi sono punti non negoziabili. Il rispetto della dignità umana – violarlo compromette la stessa sicurezza dello stato nel lungo periodo. Utilizzando l’opposizione fra il pensiero di Bentham (l’azione eticamente giusta è quella che massimizza la felicità totale aggregata) e quello di Kant (l’uomo come fine, mai come mezzo), credo che in caso di dubbio e conflitto debba prevalere quello kantiano. Mi definisco un realista etico: conseguire risultati sì, ma non a qualsiasi costo. Bisogna chiedersi se gli effetti di breve periodo possono essere visibili, ma anche cosa questa azione produce strutturalmente nel lungo periodo. La seconda dimensione è quella della pubblicità degli atti: qualsiasi misura può essere adottata ma va sottoposta a controllo democratico tramite il Parlamento o gli organi giudiziari.
Sintomo dello stato di eccezione e della “riduzione dell’universalità dei diritti” sono le cosiddette “consegne extragiudiziarie”. In Italia il caso Abu Omar è stato seguito con notevole interesse dall’opinione pubblica e su di esso è stato posto il segreto di stato. Fra “democrazia securitaria” e “sicurezza democratica”, dove si colloca tale istituto?
Il segreto di stato è più congeniale alla democrazia securitaria ed è un istituto che va rivisitato. In Italia è in corso una corposa revisione dei meccanismi per la verifica dei requisiti di sussistenza della necessità di imporre il segreto. La vera sicurezza comunitaria non ha bisogno del segreto di stato. La paura viene dal fatto che viviamo isolati nel mondo, costituiamo una “folla solitaria”. La sicurezza comunitaria si fonda sul rafforzamento del vincolo comunitario per non sentirsi schiacciati dalla globalizzazione. Ad esempio, nel caso dell’insicurezza dei cittadini dovuta alla percezione di crescente criminalità, la riappropriazione degli spazi urbani è più efficace dell’istituzione di ronde.
Proprio nella sicurezza comunitaria Lei intravede una via d’uscita.
La vera via d’uscita da uno stato di eccezione non dichiarato si potrà avere soltanto ripartendo dalla quotidianità, dal confronto, dal dialogo sulle scelte della politica. La via d’uscita non si trova in nuove richieste allo stato ma nel riappropriarsi della dimensione comunitaria, del futuro, del territorio in una dimensione partecipativa. Solo su questo processo di inclusione e corresponsabilizzazione può basarsi la sicurezza democratica.