La sfida greca


“Elpida erchete”, è tornata la speranza, è lo slogan di Alexis Tsipras. La sua vittoria alle elezioni politiche greche, che lo hanno portato al governo, è una svolta radicale non solo per la politica ellenica, ma per l’intera Unione Europea, o almeno per l’area dell’Euro. Formazioni con un simile programma anti-austerity si vanno consolidando nei Paesi del Mediterraneo, a cominciare da Podemos in Spagna, senza considerare il rafforzamento dell’atteggiamento anti-euro in Italia con il Movimento 5 stelle e la svolta post-secessionista della Lega. La differenza, non da poco, con altre formazioni europee è che nel programma di Syriza non c’è un’avventuristica “uscita dall’Euro”. Nel suo discorso la sera del trionfo, Tsipras ha annunciato che la Grecia metterà fine ad “anni di oppressione” a seguito delle politiche di rigore della Troika economica (Commissione Europea, Banca Centrale Europea e Fondo Monetario internazionale). L’imposizione, a partire specialmente dal 2010, di politiche restrittive della spesa pubblica ha approfondito la recessione della Grecia, che nel 2014 ha fatto registrare un tasso di disoccupazione generale del 28%, con punte fino al 60% tra i giovani. Come ha osservato Paul Krugman, le politiche irrealistiche sinora adottate per “salvare” la Grecia hanno affossato il Paese; l’avvento del governo Tsipras può rappresentare l’iniezione di un sano realismo nelle politiche della Troika. Tsipras ha denunciato con forza anche le sperequazioni interne, che paradossalmente, confermando le tesi sulla concentrazione della ricchezza dell’economista Thomas Piketty, si sono acuite durante la crisi e il programma di ristrutturazione economica; l’istituzione di un Ministero per la trasparenza – insieme alla scelta di un team economico competente - è un segnale forte contro l’evasione fiscale e la corruzione. Il nuovo premier greco ha dimostrato anche un pragmatismo perfino spregiudicato siglando un’alleanza indigesta con la formazione populista e xenofoba di Panos Kammenos. Si apre ora una difficile partita nell’Eurozona. E’ prevedibile che i Paesi che invocano un alleggerimento ragionevole delle politiche rigoriste comincino a lavorare in modo più coordinato, in una sorta di coalizione informale pro-crescita. Sarebbe però pericoloso se questo riallineamento portasse ad una polarizzazione su base nazionale all’interno dell’Unione, disgregando non solo l’area dell’Euro, ma lo stesso processo di integrazione. Si avvertono già segnali di divergenza, ad esempio, sull’atteggiamento da assumere nei confronti della Russia; Tsipras si è detto contrario alle sanzioni verso Mosca in relazione alla crisi ucraina, e un’Europa che già si presenta debole potrebbe veder ulteriormente ridotta la sua rilevanza in un contesto strategico. Il caso greco è un’occasione per prendere atto, una volta per tutte, come sostiene Wolfgang Streek, che l’Europa rischia di vedere smantellato il patto sociale che consentiva di coniugare – pur in misura diversa tra Paese e Paese – il capitalismo con la democrazia, il mercato con lo stato. La questione di fondo è che l’integrazione economica non può più reggersi senza un minimo di integrazione politica e di integrazione sociale. Non sembri vuota retorica europeista. Per ridare centralità alla democrazia nell’era dell’economia e della finanza transnazionale non serve (né è più possibile!) tornare allo stato chiuso, bisogna rispondere rendendo transazionale, e cioè veramente europea, anche la politica.