Trattati di Roma, 60 anni dopo


Qualcuno potrebbe ritenere, con buona ragione, che non ci sia molto da festeggiare in Europa nel momento in cui si celebra il sessantesimo anniversario dei trattati di Roma. Molta acqua è passata sotto i ponti dal 1957, quando la creazione del mercato unico europeo sembrò rappresentare un passaggio fondamentale verso la costruzione di un’Europa unita.  Così non è stato, pur con tutti i meriti che di certo l’Unione Europa ha acquisito. Anzi, oggi più che all’integrazione europea si pensa alla disintegrazione europea, specie dopo la Brexit.  Forse non sarà così, ma sicuramente abbiamo oggi un’Europa che nella migliore delle ipotesi naviga a vista, nella peggiore si rassegna a rimpicciolirsi, e non solo geograficamente. Ma il pericolo è un altro, quello del ritorno prepotente dei nazionalismi, che sono le vere forze che sostengono i populismi di ogni colore. Sessant’anni dopo, il ciclo politico della condivisione di sovranità sembra esaurirsi, Bruxelles appare sempre più lontana, l’adesione dell’Est europeo si rivela una “fusione fredda” (cioè senza convinzione), le regioni limitrofe all’Europa sono teatro di conflitti a bassa o alta intensità (Ucraina, Libia, Siria), i rapporti con un candidato storico all’accesso all’Unione, la Turchia di Erdogan, diventato sempre più tesi (basti pensare alla crisi con l’Olanda). Ma il paradosso più evidente è che mentre i Trattati di Roma avevano significato l’abbattimento delle frontiere (per i lavoratori, le merci, i capitali e i servizi), l’Unione Europea de 2017 appare in misura maggiore o minore rivalutare le frontiere come barriere, specie per i migranti e i rifugiati.  Ci si è parzialmente integrati in settori tecnici come i trasporti e in campo finanziario come avvenuto per la moneta unica, ma abbiamo lasciato ai governi nazionali materie essenziali come la politica estera, la difesa e la sicurezza, la politica economica e la tassazione. La proposta che nasce dopo sessant’anni di integrazione è quella delle “cooperazioni rafforzate”: un’Europa a più velocità, nella quale alcuni stati possano decidere di unirsi più strettamente, mentre altri resterebbero a un livello di cooperazione meno impegnativo. Sarà forse una soluzione inevitabile, ma certamente non era questo il progetto dei fondatori, che pensavano all’unità nella diversità, non alla diversificazione nell’unione. L’Europa, però, si può ancora fare: basta volerlo.