Quando, qualche decennio fa, ci si accorse che gli Stati non erano più i soli ad agire nella politica internazionale, fu inventata l’espressione “neo-pluralismo”. Una pluralità di soggetti erano apparsi sulla scena del mondo: istituzioni internazionali, organizzazioni della società civile, individualità (come, ad esempio, i premi Nobel per la pace). In questa grande trasformazione, alcuni predissero persino la fine dello Stato-Nazione. La profezia non si avverò, ma non si può dire, oggi, che gli Stati godano di un’ottima salute. Oltre alla difficoltà di controllare poteri economici globali (le multinazionali, la finanza, i colossi di Internet), gli Stati devono stare attenti ora al fronte interno, cioè alle spinte secessioniste, separatiste, localiste. Lo abbiamo visto in Catalogna; lo abbiamo visto in grande scala, rispetto all’UE, con il referendum inglese per uscire dall’Unione europea. Ma tutti i Paesi sono attraversati da movimenti di frammentazione: sia per ridiscutere frontiere coloniali (in Africa), sia per formare nuove aggregazioni a carattere etnico-culturale (il Kurdistan), sia per recuperare identità storiche reali, ma molto enfatizzate dall’immaginazione collettiva. Oltre ai micro-regionalismi europei, vi sono casi macroscopici, assai differenti, come il Tibet ed i separatismi islamici nel Caucaso russo.
Il problema, alle nostre latitudini, sembrerebbe ridursi ad una questione di delimitazione territoriale: dove tirare la linea? Il problema è, invece, proprio la linea. È paradossale che gli Stati – che certamente non danno sempre buona prova nel mondo globalizzato – siano contestati per… crearne di nuovi! Come se moltiplicare le frontiere fosse la panacea di tutti i mali. In realtà, accanto ai vincoli sociali locali, le nostre identità sono sempre più disperse in una miriade di legami immateriali, che non sono affatto racchiusi in un territorio, e che danno vita ad un nuovo “brodo”, fatto di convergenze, da un lato, e di diversità, dall’altro. Torniamo dunque all’idea del pluralismo, che fa di noi degli esseri situati nello spazio e nel tempo ma anche proiettati verso un fitto tessuto di relazioni che certo va ben oltre i territori auto-sufficienti (ammesso che ne esistano). Fare tanti nuovi Staterelli non mi sembra una risposta furba a questa nuova condizione. Ma soprattutto, è il confine invisibile dell’indifferenza al resto del mondo che rischia di rinchiuderci in una prigione, più o meno dorata.