L’anno era il 2004. Nello studio ovale della casa Bianca sedeva George W. Bush, ad Islamabad governava il generale Pervez Musharraf, autore di un colpo di stato nel 1999. Gli Stati Uniti, concentrati nelle operazioni militari (pur molto diverse tra loro) in Afghanistan contro i Talebani e in Iraq puntavano sul Pakistan per un decisivo sostegno nella regione, arrivando a definire il paese come uno dei “principali alleati non appartenenti alla NATO”. Era stato così anche durante l’occupazione sovietica dell’Afghanistan a partire dal 1979, per un decennio, quando dal Pakistan venivano preparate e lanciate le azioni di guerriglia dei Mujahidin, i “patrioti” islamici bene addestrati per fronteggiare i russi. Sono passati tre lustri, ma sembra un secolo. All’alba del 2018, il presidente Trump ha affidato ad un tweet un atto d’accusa verso Islamabad che apparentemente non lascia margini di fraintendimenti: «Gli Stati Uniti – ha scritto Trump - hanno stupidamente dato al Pakistan più di 33 miliardi di dollari in aiuti negli ultimi 15 anni, e loro non ci hanno dato altro che menzogne e inganni, pensando che i nostri leader siano degli stupidi. Proteggono gli stessi terroristi cui noi, poco aiutati, diamo la caccia in Afghanistan. Basta!». Il Pakistan “utile” della guerra fredda e della lotta ai Talebani si è trasformato, per Washington, in un Paese scomodo, ed i Pakistani sono tra coloro che più soffrono delle restrizioni sui visti introdotte da Trump. Ci si sarebbe potuti attendere una crisi diplomatica di ampie proporzioni; invece, la reazione del Pakistan è stata ferma ma tutto sommato misurata. Nonostante le tensioni crescenti (divergenze sul significato di lotta al terrorismo, violazioni della sovranità del Pakistan da parte di forze americane impegnate in Afghanistan, uso dei droni con decine di vittime civili, ambivalenza del rapporto di Washington tra Islamabad e New Delhi) non sembra che Trump voglia spingere l’alleato asiatico nelle braccia della Cina o della Russia. La questione, piuttosto, dovrebbe essere, per le due parti, quella di risanare una “relazione tossica” sin dalle origini, perché basata su interessi strategici e sul sostegno militare (forniture di armi e di tecnologia bellica). Il Pakistan, in effetti, è alla ricerca di una sua strada, più autonoma, con una riduzione della dipendenza da Washington. I rapporti asimmetrici non giovano a nessuno.
Il mondo "liquido"
C’è chi pensa che, in Medio Oriente, in Africa, in Asia, ci sia la possibilità di riprodurre l’intuizione che è alla base dell’Unione Europea con la messa in comune, nel 1950, del carbone e dell’acciaio, gli “ingredienti” della macchina bellica delle potenze europee, ed in particolare di Francia e Germania. Solo che, invece del carbone e dell’acciaio, le risorse da condividere sarebbero, oggi, il petrolio e l’acqua.
Alcuni sviluppi recenti, ad esempio, come il rinvenimento di grandi giacimenti di gas nelle acque territoriali di Egitto, Israele, Libano, Cipro, rendono tale prospettiva estremamente attuale, anche se estremamente improbabile, viste le tensioni nell’area.
Ma che dire dell’acqua? Esiste, ad esempio, un mega-progetto di collegamento tra il Mar Rosso ed il Mar Morto, per rimpinguare il livello di quest’ultimo (sceso in modo preoccupante) che però è bloccato da conflitti e diffidenze reciproche. In modo molto più drammatico, in Africa il lago Ciad, dal 1963, ha perso circa il 90 per cento della sua massa d'acqua, con conseguenze devastanti per la sicurezza alimentare delle popolazioni. Il progetto “Transacqua” si base sull’idea di portare acqua proprio verso quel lago, in via di progressiva desertificazione, tramite dighe, reti idriche e canali addirittura dal bacino del Congo. Ma dove sono i finanziamenti?
Sempre in Africa, l’Etiopia ha lanciato il progetto della più grande diga del continente, la “Grand Ethiopian Renaissance Dam”, superiore a quella di Assuan in Egitto, e che creerà un nuovo lago di 1874 chilometri quadrati. Il fiume interessato – che non è certo secondario per la storia della regione e persino per la storia dell’umanità - è il Nilo, e l’Egitto ha ovviamente fatto sentire forte la sua voce contraria, temendo conseguenze a valle del grande fiume, e la tensione tra Il Cairo e Addis Abeba è alta. Eppure proprio questa vicenda potrebbe essere assunta a paradigma della dimensione transnazionale di tutti i fattori che contano nella politica degli stati e per i popoli delle aree più svantaggiate, e la cui situazione è aggravata dal caos climatico e geo-politico. La Grande Diga è, il caso di dirlo, un metaforico spartiacque tra appropriazione e condivisione, tra sovranità e solidarietà. Dietro tutte le questioni “liquide” del pianeta si celano scelte politiche fondamentali per il futuro del mondo, ben oltre la politica internazionale.
Armi o istituzioni
Ogni anno il SIPRI, l’Istituto internazionale di Stoccolma per le ricerche sulla pace, pubblica statistiche ragionate sulle spese militari nel mondo. Rispetto al 2016, la spesa globale per armamenti è cresciuta, nel 2017, dell’1,1%, raggiungendo la cifra astronomica di 1739 Miliardi di dollari. Il meno che si possa dire è che la disponibilità di strumenti militari di varia taglia e natura non facilita la ricerca di soluzioni pacifiche alle crisi ed alle tensioni. Mentre gli Stati Uniti restano di gran lunga in testa alla classifica (nel 2017 hanno speso 610 miliardi dollari) la Cina si presenta con cifre di tutto rispetto, essendo progressivamente passata dal 5,8 percento della spesa mondiale del 2008 al 13 percento del 2017. Ma anche la spesa indiana per armamenti cresce, con un incremento del 5.5 percento rispetto al 2016. In generale, si osserva una “migrazione” delle spese militari dall’area atlantica a quella asiatica. E’ chiaro che in Asia non tutti credono che l’ascesa della Cina sia del tutto “pacifica”. Al contrario, anche per le difficoltà economiche, l’esborso in armamenti della Russia è sceso del 20 percento nel 2017 rispetto al 2016.
La spesa militare più preoccupante, non in valore assoluto o percentuale, ma per il suo significato, riguarda il Medio Oriente, che ha fatto registrare un 6.2 percento in più rispetto al 2016, con punte in Iran (19 percento), Iraq (22 percento), Arabia Saudita (9.2 percento). E ciò in una situazione di bilanci pubblici in crisi per via del calo del presso del petrolio. Cosa rivelano queste cifre? Per una parte, esse sono lo specchio di tensioni crescenti (si pensi alla contrapposizione tra Iran ed Arabia Saudita). Ma esse riflettono anche il declino di credibilità delle istituzioni internazionali e del sistema della “difesa collettiva” delle Nazioni Unite. Non è vero che la guerra sia la continuazione della politica; essa ne rappresenta il pieno fallimento. Organizzazioni internazionali forti riducono l’incertezza, creano un terreno favorevole alle transazioni, al negoziato. L’attuale fase di ri-nazionalizzazione della politica mondiale lavora in senso opposto alla sicurezza internazionale, e la sensazione di imprevedibilità fa crescere l’illusione pericolosa di una difesa armata. In realtà, l’unico serio meccanismo di risoluzione delle crisi rimane una saggia ed equilibrata diplomazia preventiva, di cui c’è estremo bisogno.
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