Religione e relazioni internazionali
Sempre maggiore attenzione viene dedicata da analisti, commentatori e policy makers al crescente ruolo delle religioni nelle relazioni internazionali, nella consapevolezza che le questioni identitarie e culturali in genere siano divenute cruciali per la stabilita', la pace e la cooperazione internazionale. Molte sono le iniziative che si registrano sia a livello di strutture diplomatiche che di riflessione strategica nella direzione di una maggiore attenzione al rapporto tra religione e politica internazionale. Non e' esagerato affermare che si tratta di una tematica che assume ormai un’importanza analoga – fatte le debite differenze - a quella della non-proliferazione nucleare. La prospettiva che sottolinea il ruolo e la funzione delle religioni sulla scena mondiale si affianca, con pari forza e dignita' analitica, nella sua versione “costruttiva” di dialogo tra le civilta', ai due paradigmi contraddittori della “fine della storia”, da una parte (in termini di affermazione globale del modello democratico-liberale), e dello “scontro di civilta'” dall’altro (che invece sottolinea la sostanziale “intraducibilita'” reciproca delle culture e delle civilizzazioni). Si tratta, infine, di una necessaria integrazione dei parametri utilizzati nell’analisi politico-diplomatica, senza la quale appare impossibile comprendere la gran parte delle trasformazioni o anche involuzioni presenti in diverse regioni, dal Medio Oriente ampliato all’Asia Centrale. L’attuale situazione internazionale ci pone l’obbligo morale di condurre una politica pro-attiva nella direzione della reciproca comprensione inter-culturale, attuata attraverso concrete pratiche di dialogo e di ascolto delle reciproche “ragioni”. Lavorare per un nuovo ordine mondiale pacifico, pluralistico e condiviso anche sotto il profilo del reciproco riconoscimento delle identita' (incluse quelle religiose) non e' un obiettivo idealistico; al contrario, si tratta di una politica estera fortemente realistica, in quanto essa consente di prefigurare concrete e solide alternative al confronto ed al conflitto. La politica inter-culturale a livello internazionale non si basa, infatti, su costruzioni astratte, ma sulla “ragion pratica”. In questo rinnovamento dei paradigmi della diplomazia e dell’azione di politica estera entrano in gioco la consapevolezza di essere entrati in un fase multipolare, la necessita' di una nuova e piu' ampiamente accettata legittimita' delle norme e delle istituzioni internazionali, un’idea di pace di respiro ampio ed articolato, che comprenda anche gli aspetti – da essa inscindibili -della giustizia (in termini di possibilita' di sviluppo per tutti) e della riconciliazione come metodo per risolvere alla radice le contrapposizioni piu' pervicaci. Nel contesto delle attivita' promosse nell’ambito dell’«Alleanza delle civilta'», si svolgerà a Trento il 22-23 ottobre prossimi un seminario internazionale su 'Religione e relazioni internazionali. Opportunita' e sfide'. Vi parteciperanno una trentina di persone, individuate tra i maggiori esperti e studiosi del tema in argomento, oltre a rappresentanti di movimenti ed organismi religiosi particolarmente attivi a favore del dialogo interculturale e di organizzazioni internazionali impegnate in questo settore. Attraverso il seminario si intendono perseguire tre obiettivi; analizzare l'evoluzione della teoria delle relazioni internazionali di fronte al riaffermarsi delle religioni; approfondire il ruolo delle religioni quale strumento di diplomazia preventiva; infine, valutare la funzione che le riunioni dei leaders religiosi ad alta visibilita' (come quella svoltasi recentemente a Roma su iniziativa della CEI in occasione del G8, o di altro genere, come la 'preghiera per la pace' di Assisi del 1986) possono svolgere per la promozione di un clima maggiormente favorevole alla reciproca conoscenza, al dialogo 'strutturale' tra le grandi aree religiose e culturali del pianeta e al rafforzamento delle convergenze su tematiche di carattere globale. Il seminario consentira' di elaborare, oltre ad una sintesi finale dei lavori, una serie di raccomandazioni per gli attori statali e non-statali, soprattutto con riferimento al ruolo che le convinzioni religiose possono assumere in termini di diplomazia preventiva.
Le avventure della sovranità
Una lettura transnazionale
La Carta e la Dichiarazione
Uno dei temi portanti su cui si gioca la credibilità della comunità internazionale è il rapporto tra due principi che sembrano entrare talvolta in conflitto. Da una parte, la sovranità degli stati, con il correlato principio di non ingerenza; dall'altro, i diritti umani fondamentali, che hanno assunto un valore transnazionale, non tenendo conto dei confini degli stati. In qualche modo, sembra determinarsi una contraddizione tra due documenti "fondanti" per l'ordine mondiale: vale a dire, la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ma è una contraddizione solo apparente, e spesso invocata da regimi e governi che hanno tutto l'interesse a presentare come intangibile la sovranità statale.
Sovranità e «governance» globale
Se c'è una convinzione che è ormai maturata nella coscienza internazionale, è che la sovranità statale non è più un fatto assoluto. In primo luogo, perché essa deve ormai fare i conti con una governance globale che esige precisi comportamenti dagli stati. In secondo luogo, perché i governi non sono più gli attori esclusivi della politica internazionale. Basti pensare alle organizzazioni internazionali, alle associazioni transnazionali della società civile, agli organismi ed autorità spirituali, oltre ovviamente alle grandi corporations economiche a vocazione globale.
«Responsabilità di proteggere» e «dovere di prevenire»
Ma soprattutto l'assolutezza e l'esclusività della sovranità statale è messa in discussione da un altro grande principio che si è venuto affermando in campo internazionale, e cioè la «responsabilità di proteggere». E' un principio molto semplice ma anche molto incisivo : esso implica che la sovranità statale ha una ragion d'essere nel dovere delle autorità di governo di proteggere i loro cittadini. Quando, invece della protezione, un governo esercita la minaccia o l'oppressione verso il popolo che dovrebbe in teoria difendere da pericoli interni ed esterni, allora l'esclusività della sovranità viene meno, ed è la comunità internazionale che deve svolgere una funzione supplente di protezione, di difesa, di salvaguardia. In altri termini, la sovranità ha una natura funzionale, e se non assolve più ai compiti per i quali è costituita essa perde ogni credenziale politica, soprattutto in campo internazionale. Un punto essenziale tuttavia da sottolineare al riguardo è che la constatazione di questo «fallimento» delle funzioni statali fondamentali in materia di diritti umani non può essere affidata alla discrezionalità dei singoli Governi, ma va affidata alle organizzazioni internazionali a carattere universale, come le Nazioni Unite, e va compiuta attraverso una procedura pre-costituita. Sappiamo bene come sia difficile far valere la «responsabilità di proteggere» all'interno di un organismo complesso come le Nazioni Unite, ed in particolare il Consiglio di Sicurezza. Spesso occorre trovare uno spazio di manovra tra la minaccia del veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la tentazione delle maggiori potenze di «fare da sole». Ed è in questo stretto margine che si inserisce un corollario fondamentale della «responsabilità di proteggere», e cioè il «dovere di prevenire». Nel caso del genocidio, ad esempio, è evidente che è assai più importante ed efficace la diplomazia preventiva rispetto all'intervento internazionale (se e quando si riesca a deciderlo!) teso ad arrestare un orribile crimine in atto contro un'intera categoria di persone innocenti.
Democrazia e diritti umani
Ma occorre spingersi anche più in là della semplice constatazione della complessità di un tema – quello della sovranità - che è eminentemente politico prima ancora che giuridico e procedurale. Occorre cioè chiedersi se oggi anche il postulato di un rapporto di mutua implicazione «automatica» tra democrazia e diritti non debba essere aggiornato. In primo luogo, perché assistiamo al sorgere di democrazie «illiberali», in cui alle caratteristiche elettive del sistema non fa riscontro un corpus giuridico ed ancor più una prassi improntata al rispetto dei diritti protetti da precise garanzie procedurali. Come non vi può essere vera democrazia senza diritti umani, non vi può essere, di converso, rispetto dei diritti umani senza democrazia, come si è preteso in alcune «democradure» asiatiche e nel mondo arabo. Il campo dei diritti umani non è perciò una «specializzazione» secondaria della politica internazionale o una nicchia per esperti di diritto internazionale. Si tratta al contrario di una questione che è divenuta cruciale per l'ordine internazionale, per la stabilità e la pace. E la comunità internazionale deve sapersi dare nuove regole e un nuovo «codice di condotta» che ponga la dignità umana tra le grandi questioni strategiche del XXI secolo, almeno in termini analoghi a quello del disarmo nucleare.
Sovranità «inclusiva»
La riflessione sui diritti «cosmopolitici» o universali ci spinge ben oltre gli angusti limiti rivendicativi della sovranità «esclusiva». Va affermato, al contrario, l’idea che l’unico tipo di sovranità effettivamente esercitabile in un mondo interconnesso, interdipendente e progressivamente integrato sia piuttosto di tipo «inclusivo». Dalle considerazioni che precedono emerge con chiarezza, infatti, che il concetto stesso di sovranità è sottoposto ad una crescente pressione da parte di norme e pratiche di tipo cosmopolitico. Come afferma Seyla Benhabib, il sistema degli Stati si trova intrappolato tra sovranità e ospitalità, cioè tra le caratterizzazioni territoriali ed esclusive del potere e la crescente portata transnazionale del sistema dei diritti. Una conferma, attualizzata, delle tesi di Kant e Kelsen. In particolare, si verifica la sovrapposizione (che rischia di divenire contrapposizione) menzionata da Kant tra jus civitatis, jus gentium e jus cosmopoliticum.
Sovranità e cittadinanza
Ad esempio, una delle componenti essenziali della sovranità intesa come fenomeno produttivo di coerenti ed univoci effetti giuridici e politici per le persone, vale a dire la cittadinanza, non risponde più ad un modello unitario, poiché essa subisce un processo di progressiva «disaggregazione». Vengono cioè scorporate dal nucleo concettuale della cittadinanza «classica» o moderna le sue tre dimensioni costitutive: l’identità collettiva, i privilegi derivanti dall’appartenenza politica ad un’entità di tipo statuale e il titolo a fruire dei diritti sociali e dei relativi vantaggi. Come le altre categorie politiche, la sovranità è anch’essa oggetto di «iterazioni» democratiche, cioè di «ripetizioni linguistiche, giuridiche, culturali e politiche in trasformazione, richiami che sono anche revoche. Esse non solo mutano le interpretazioni stabilite, ma trasformano anche quella che passa per la visione valida o consolidata del precedente dotato d’autorità» (Seyla Benhabib). Vale a dire che la sovranità non è un dato, non si trova «in natura» nel sistema politico, ma può e deve essere oggetto di riconcettualizzazione a partire dalla comunità politica ampliata o inclusiva, attraverso un processo di ridefinizione e di risemantizzazione compiuto in modo aperto e costruttivo, secondo le procedure tipiche della democrazia deliberativa.
La Carta e la Dichiarazione
Uno dei temi portanti su cui si gioca la credibilità della comunità internazionale è il rapporto tra due principi che sembrano entrare talvolta in conflitto. Da una parte, la sovranità degli stati, con il correlato principio di non ingerenza; dall'altro, i diritti umani fondamentali, che hanno assunto un valore transnazionale, non tenendo conto dei confini degli stati. In qualche modo, sembra determinarsi una contraddizione tra due documenti "fondanti" per l'ordine mondiale: vale a dire, la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ma è una contraddizione solo apparente, e spesso invocata da regimi e governi che hanno tutto l'interesse a presentare come intangibile la sovranità statale.
Sovranità e «governance» globale
Se c'è una convinzione che è ormai maturata nella coscienza internazionale, è che la sovranità statale non è più un fatto assoluto. In primo luogo, perché essa deve ormai fare i conti con una governance globale che esige precisi comportamenti dagli stati. In secondo luogo, perché i governi non sono più gli attori esclusivi della politica internazionale. Basti pensare alle organizzazioni internazionali, alle associazioni transnazionali della società civile, agli organismi ed autorità spirituali, oltre ovviamente alle grandi corporations economiche a vocazione globale.
«Responsabilità di proteggere» e «dovere di prevenire»
Ma soprattutto l'assolutezza e l'esclusività della sovranità statale è messa in discussione da un altro grande principio che si è venuto affermando in campo internazionale, e cioè la «responsabilità di proteggere». E' un principio molto semplice ma anche molto incisivo : esso implica che la sovranità statale ha una ragion d'essere nel dovere delle autorità di governo di proteggere i loro cittadini. Quando, invece della protezione, un governo esercita la minaccia o l'oppressione verso il popolo che dovrebbe in teoria difendere da pericoli interni ed esterni, allora l'esclusività della sovranità viene meno, ed è la comunità internazionale che deve svolgere una funzione supplente di protezione, di difesa, di salvaguardia. In altri termini, la sovranità ha una natura funzionale, e se non assolve più ai compiti per i quali è costituita essa perde ogni credenziale politica, soprattutto in campo internazionale. Un punto essenziale tuttavia da sottolineare al riguardo è che la constatazione di questo «fallimento» delle funzioni statali fondamentali in materia di diritti umani non può essere affidata alla discrezionalità dei singoli Governi, ma va affidata alle organizzazioni internazionali a carattere universale, come le Nazioni Unite, e va compiuta attraverso una procedura pre-costituita. Sappiamo bene come sia difficile far valere la «responsabilità di proteggere» all'interno di un organismo complesso come le Nazioni Unite, ed in particolare il Consiglio di Sicurezza. Spesso occorre trovare uno spazio di manovra tra la minaccia del veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la tentazione delle maggiori potenze di «fare da sole». Ed è in questo stretto margine che si inserisce un corollario fondamentale della «responsabilità di proteggere», e cioè il «dovere di prevenire». Nel caso del genocidio, ad esempio, è evidente che è assai più importante ed efficace la diplomazia preventiva rispetto all'intervento internazionale (se e quando si riesca a deciderlo!) teso ad arrestare un orribile crimine in atto contro un'intera categoria di persone innocenti.
Democrazia e diritti umani
Ma occorre spingersi anche più in là della semplice constatazione della complessità di un tema – quello della sovranità - che è eminentemente politico prima ancora che giuridico e procedurale. Occorre cioè chiedersi se oggi anche il postulato di un rapporto di mutua implicazione «automatica» tra democrazia e diritti non debba essere aggiornato. In primo luogo, perché assistiamo al sorgere di democrazie «illiberali», in cui alle caratteristiche elettive del sistema non fa riscontro un corpus giuridico ed ancor più una prassi improntata al rispetto dei diritti protetti da precise garanzie procedurali. Come non vi può essere vera democrazia senza diritti umani, non vi può essere, di converso, rispetto dei diritti umani senza democrazia, come si è preteso in alcune «democradure» asiatiche e nel mondo arabo. Il campo dei diritti umani non è perciò una «specializzazione» secondaria della politica internazionale o una nicchia per esperti di diritto internazionale. Si tratta al contrario di una questione che è divenuta cruciale per l'ordine internazionale, per la stabilità e la pace. E la comunità internazionale deve sapersi dare nuove regole e un nuovo «codice di condotta» che ponga la dignità umana tra le grandi questioni strategiche del XXI secolo, almeno in termini analoghi a quello del disarmo nucleare.
Sovranità «inclusiva»
La riflessione sui diritti «cosmopolitici» o universali ci spinge ben oltre gli angusti limiti rivendicativi della sovranità «esclusiva». Va affermato, al contrario, l’idea che l’unico tipo di sovranità effettivamente esercitabile in un mondo interconnesso, interdipendente e progressivamente integrato sia piuttosto di tipo «inclusivo». Dalle considerazioni che precedono emerge con chiarezza, infatti, che il concetto stesso di sovranità è sottoposto ad una crescente pressione da parte di norme e pratiche di tipo cosmopolitico. Come afferma Seyla Benhabib, il sistema degli Stati si trova intrappolato tra sovranità e ospitalità, cioè tra le caratterizzazioni territoriali ed esclusive del potere e la crescente portata transnazionale del sistema dei diritti. Una conferma, attualizzata, delle tesi di Kant e Kelsen. In particolare, si verifica la sovrapposizione (che rischia di divenire contrapposizione) menzionata da Kant tra jus civitatis, jus gentium e jus cosmopoliticum.
Sovranità e cittadinanza
Ad esempio, una delle componenti essenziali della sovranità intesa come fenomeno produttivo di coerenti ed univoci effetti giuridici e politici per le persone, vale a dire la cittadinanza, non risponde più ad un modello unitario, poiché essa subisce un processo di progressiva «disaggregazione». Vengono cioè scorporate dal nucleo concettuale della cittadinanza «classica» o moderna le sue tre dimensioni costitutive: l’identità collettiva, i privilegi derivanti dall’appartenenza politica ad un’entità di tipo statuale e il titolo a fruire dei diritti sociali e dei relativi vantaggi. Come le altre categorie politiche, la sovranità è anch’essa oggetto di «iterazioni» democratiche, cioè di «ripetizioni linguistiche, giuridiche, culturali e politiche in trasformazione, richiami che sono anche revoche. Esse non solo mutano le interpretazioni stabilite, ma trasformano anche quella che passa per la visione valida o consolidata del precedente dotato d’autorità» (Seyla Benhabib). Vale a dire che la sovranità non è un dato, non si trova «in natura» nel sistema politico, ma può e deve essere oggetto di riconcettualizzazione a partire dalla comunità politica ampliata o inclusiva, attraverso un processo di ridefinizione e di risemantizzazione compiuto in modo aperto e costruttivo, secondo le procedure tipiche della democrazia deliberativa.
Afghanistan: dalla "exit strategy" alla "transition strategy"
Un «cambio di paradigma»
Il recente processo elettorale afghano ha prodotto un effetto ambivalente nel giudizio dei piu' influenti analisti internazionali. Da una parte, si tratta indubbiamente della conferma di un percorso di “afghanizzazione” della transizione, nel quale la popolazione afghana ha dimostrato di saper resistere a minacce ed intimidazioni da parte delle forze dell’estremismo talebano. Da questo punto di vista, la partecipazione al voto e' un fatto di per se' incoraggiante. Anche lo scontro tra i due principali candidati rientra in un logica di competizione politica che restituisce alla societa' afghana il diritto di dividersi – sia pure pericolosamente - secondo linee interne piu' che sotto la pressione di forze internazionali (e Paesi diversamente interessati, come il Pakistan e l’India) o, peggio, sotto l’assillo del terrorismo stragista. Si tratta tuttavia ancora di una parvenza di democrazia, fragilissima sotto il profilo istituzionale e in costante pericolo di involuzione sotto il profilo politico e della governance regionale e locale. Difficile dunque dire se l’Afghanistan abbia raggiunto o stia per raggiungere il «tipping point» o punto di non-ritorno rispetto al recente passato. Tuttavia, per usare un’immagine della termodinamica, potremmo dire che nella migliore delle ipotesi l’entropia abbia rallentato e che si renda visibile un qualche «ordine» (pur dissipativo…) nel caos. L’altra faccia della medaglia, riguardo alla situazione afghana, e' l’atteggiamento talora perplesso della comunita' internazionale (al di la' della ovvia conferma «pubblica» degli impegni assunti, specie nei riguardi del principale alleato), che rispetto alla lentezza del consolidamento democratico e soprattutto del miglioramento qualitativo del livello di sicurezza mostra segni di impazienza. In tutti i Paesi coinvolti emerge infatti – a livello di forze politico-parlamentari e dell’opinione pubblica piu' in generale - un latente quanto pericoloso scetticismo sulla possibilita' che l’Afghanistan rappresenti in futuro una «success story» tale da giustificare ulteriori sacrifici di uomini e risorse. Specie nei Paesi che costituiscono i principali contributori all’ISAF e in generale alla missione di stabilizzazione dell’Afghanistan si fanno strada ipotesi precoci e pericolose di «exit strategy» sul «modello» (se si puo' definire tale) della progressiva riduzione e riposizionamento delle forze americane in Iraq. Un altro modo di porre il problema consiste nell'abbandonare il tema della ricerca di una "exit strategy" per ricercare invece le concrete modalita' di una "transition strategy".
A questo riguardo, e' evidente che la strategia qaedista punta proprio sulla compromissione del processo in atto in Iraq anche per dare un segnale «dissuasivo» rispetto al futuro dell’Afghanistan: la recente recrudescenza degli attentanti in Iraq ha come scopo anche quello di interferire pesantemente nella transizione afgana. Tutto cio' ha come sotto-prodotto quello di accrescere l’ansia da risultato presso le forze politiche e parlamentari occidentali, che tentano di rilanciare la prospettiva di una permanenza militare in Afghanistan su basi parzialmente nuove, come l’idea - non certo originale - di un «dialogo» con i Talebani «moderati», vale a dire non collegati con formazioni terroristiche e disponibili a deporre le armi e ad entrare nel gioco democratico. Anche negli Stati Uniti cominciano a serpeggiare posizioni piu' scettiche e meno convinte sugli esiti e sugli sbocchi della «guerra di Obama». A questo proposito, e' di notevole interesse l’intervento di Richard Haass, Presidente dell’influente «Council on Foreign Relations». Haass, che fu anche a capo della policy unit del Dipartimento di Stato durante la prima amministrazione di George W. Bush, ha recentemente scritto un commento per il «New York Times» (21 agosto 2009) in cui mette in discussione uno dei punti fermi alla base della giustificazione della presenza in Afghanistan di forze internazionali, e cioe' che si tratti di una «guerra per necessita'» (war of necessity) e non di una «guerra per scelta» (war of choice). Haass anzitutto conia una nuova espressione per indicare il fatto che l’aumento del contingente americano (17.000 unita' in piu' e 4.000 nuovi addestratori, che portano la presenza militare americana a piu' di 60.000 operativi) in effetti ha tra l’altro l’obbiettivo di dare maggior respiro al consolidamento delle istituzioni e delle forze di sicurezza afgane: si tratterebbe di un «armed state building». Inoltre Haass considera la nuova postura Americana verso i Talebani «resistenti» nel sud e nell’est del Paese come una sorta di coinvolgimento diretto nella «guerra civile afghana». Affinche' una Guerra possa essere definita 'war of necessity', essa – argomenta Haass – deve superare due test: in primo luogo, deve coinvolgere interessi nazionali vitali; in secondo luogo, non ci devono essere alternative praticabili rispetto all’uso della forza per la protezione di tali interessi. Per Haass, possono essere definite «guerre necessarie» la Seconda Guerra Mondiale, la guerra di Corea e la prima guerra del Golfo. Anche l’invasione dell’Afghanistan subito dopo l’11 settembre puo' essere definita una guerra necessaria. Ma ora, con la presenza a Kabul di un governo «amico» di Washington, occorre chiedersi – argomenta Haass – se la presenza militare americana sia ancora una «necessita'». In effetti, anche nel caso in cui la missione abbia successo – definendo il «successo» nei termini minimi del consolidamento di un Governo afghano mediamente in grado di controllare il territorio – non c’e' alcuna garanzia che l’Afghanistan non possa anche in futuro essere considerato ancora da Al Qaeda come una base organizzativa e operativa.In ogni caso – sostiene Haass – vi sono almeno due alternative alla politica attuale dell’Amministrazione nei confronti dell’Afghanistan. La prima implica la riduzione delle truppe da combattimento e il rafforzamento degli attacchi con droni sui campi terroristi, l’intensificazione dell’addestramento delle forze di polizia e militari afghane, un piu' rilevante aiuto allo sviluppo e un'azione diplomatico-negoziale per frantumare il fronte talebano. Piu' radicalmente, la seconda alternativa esposta da Haass contempla l’ipotesi (teorica) di un completo ritiro di tutte le forze americane dall’Afghanistan e al contempo la concentrazione di tutti gli sforzi su strategie regionali e globali di contro-terrorismo e su iniziative di sicurezza interna («homeland security») per proteggere gli Stati Uniti da minacce che possano provenire proprio dall’Afghanistan. Da questo punto di vista, si tratterebbe di un approccio simile a quello adottato nei confronti di Paesi - come la Somalia – che non sono in grado di combattere il terrorismo (o non ne hanno la volonta' politica) senza tuttavia che gli Stati Uniti contemplino ipotesi di intervento militare. L’Afghanistan e' dunque, per Haass, una guerra scelta – la guerra scelta da Obama. Essa sarebbe paragonabile al Vietnam, alla Bosnia, al Kosovo, all’Iraq attuale. Non avrebbe dunque proprio i caratteri di eccezionalita' costantemente evocati da Obama e che, tra parentesi, costituiscono una sorta di «mantra» nei circoli dell’Alleanza Atlantica, specie nei termini della «public diplomacy». Si tratta percio' di una tesi particolarmente corrosiva e suscettibile di approfondire i dubbi ed alimentare i dibattiti che gia' caratterizzano il confronto politico interno in molti Paesi alleati. E' un vero e proprio 'paradigm shift'. Le guerre scelte – osserva Haass - non sono per definizione buone o cattive: il giudizio dipende dalla comparazione tra risultati e costi, e se l’impiego della forza e' piu' produttivo rispetto ad altre alternative. Haass riconosce che questo genere di equazione, per l’Afghanistan, e' estremamente complesso da risolvere. Se il rischio oggi per l’Afghanistan, in caso di un ritiro o riduzione delle forze americane, e' che i Talebani possano prendere Kabul e far cadere il governo centrale, Haass giudica che tale eventualita' rimarrebbe comunque nel novero delle possibilita', anche nella circostanza in cui le forze americane venissero ulteriormente incrementate, ma ad un costo umano, militare ed economico incomparabilmente superiore. Haass conclude che non solo l’Afghanistan e' una guerra per scelta, ma e' anche una scelta ardua. Tutto considerato, la bilancia sembra pendere ancora, nella valutazione di Haass, per un impegno di tipo militare, anche in termini accresciuti, poiche' la probabilita' di ottenere un qualche limitato successo e' ancora alta e gli interessi americani in gioco sono molto rilevanti. Tuttavia il Congresso e l’opinione pubblica dovrebbero assumere un atteggiamento di maggior attenzione agli sviluppi sul terreno: in altri termini, l’apertura di credito nei confronti delle scelte di Obama per l’Afghanistan non dovrebbe essere illimitata o incondizionata. Cio' esattamente perche' non essendo una guerra necessaria (per la quale ogni sforzo sarebbe in principio giustificato), quella in Afghanistan deve costantemente trovare la propria giustificazione funzionale e di efficacia. Senza dimenticare che un’eccessiva concentrazione sull’Afghanistan rischia di drenare risorse per altri fronti politico-diplomatici e strategici fondamentali, quali lo stesso Iraq, per non parlare della Corea del Nord e dell’Iran.
Un altro importante opinionista, Thomas Friedman, scrive sull’ «International Herald Tribune» del 7 settembre 2009 che l’alternativa in Afghanistan è tra «light black» (Karzai & Co.) e « dark black» (Taliban Inc.). La «nuova» strategia proposta dal generale americano Stanley McChrystal riduce le ambizioni alla creazione di «uno Stato afghano ragionevolmente non corrotto al servizio del suo popolo, che sia un partner dell’America nell’impegno di mantenere l’Afghanistan libero dai signori della droga e della guerra, oltre che dai Talebani e da Al Qaeda». Già questo appare un compito estreamente arduo. Per ottenere tale obiettivo, in ogni caso, l’invio di un maggior numero di truppe non è sufficiente. Occorre infatti adottare una logica, molto più impegnativa, di un vero e proprio «state-building» «in un contesto massimamente inospitale ed in uno tra i più poveri e più tribalizzati paesi del mondo». Anche Friedman propone un cambiamento del discorso politico («narrative») sull’Afghanistan, introducendo una semplice ma efficace metafora, e cioè il passaggio dalla fase di «babysitting» (e cioè impedire il ritorno al potere di Al Qaeda e dei Talebani) a quella dell’«adozione», che comporta l’assistenza diretta e continua allo stato afghano affinché si consolidi e alla fine si «emancipi» dalla tutela internazionale. La missione viene ridefinita non più solo in termini «negativi» - e cioè impedire che il Paese scivoli in una spirale estremista, islamista e terrorista - ma anche in termini «positivi», vale a dire edificare una struttura di governance politica, articolare un’impalcatura economica, garantire un necessario ordine pubblico e di sicurezza e offrire uno spazio di espressione e di partecipazione per la società civile. Per passare dal «babysitting» all’ «adozione» è però necessario un dibattito nazionale (non solo negli Stati Uniti), che consenta di chiarire i termini della missione e di uscire da ogni possibile ambivalenza, che –conclude Friedman – è il preludio di un disastro in Afghanistan, da tutti giustamente paventato.
Il recente processo elettorale afghano ha prodotto un effetto ambivalente nel giudizio dei piu' influenti analisti internazionali. Da una parte, si tratta indubbiamente della conferma di un percorso di “afghanizzazione” della transizione, nel quale la popolazione afghana ha dimostrato di saper resistere a minacce ed intimidazioni da parte delle forze dell’estremismo talebano. Da questo punto di vista, la partecipazione al voto e' un fatto di per se' incoraggiante. Anche lo scontro tra i due principali candidati rientra in un logica di competizione politica che restituisce alla societa' afghana il diritto di dividersi – sia pure pericolosamente - secondo linee interne piu' che sotto la pressione di forze internazionali (e Paesi diversamente interessati, come il Pakistan e l’India) o, peggio, sotto l’assillo del terrorismo stragista. Si tratta tuttavia ancora di una parvenza di democrazia, fragilissima sotto il profilo istituzionale e in costante pericolo di involuzione sotto il profilo politico e della governance regionale e locale. Difficile dunque dire se l’Afghanistan abbia raggiunto o stia per raggiungere il «tipping point» o punto di non-ritorno rispetto al recente passato. Tuttavia, per usare un’immagine della termodinamica, potremmo dire che nella migliore delle ipotesi l’entropia abbia rallentato e che si renda visibile un qualche «ordine» (pur dissipativo…) nel caos. L’altra faccia della medaglia, riguardo alla situazione afghana, e' l’atteggiamento talora perplesso della comunita' internazionale (al di la' della ovvia conferma «pubblica» degli impegni assunti, specie nei riguardi del principale alleato), che rispetto alla lentezza del consolidamento democratico e soprattutto del miglioramento qualitativo del livello di sicurezza mostra segni di impazienza. In tutti i Paesi coinvolti emerge infatti – a livello di forze politico-parlamentari e dell’opinione pubblica piu' in generale - un latente quanto pericoloso scetticismo sulla possibilita' che l’Afghanistan rappresenti in futuro una «success story» tale da giustificare ulteriori sacrifici di uomini e risorse. Specie nei Paesi che costituiscono i principali contributori all’ISAF e in generale alla missione di stabilizzazione dell’Afghanistan si fanno strada ipotesi precoci e pericolose di «exit strategy» sul «modello» (se si puo' definire tale) della progressiva riduzione e riposizionamento delle forze americane in Iraq. Un altro modo di porre il problema consiste nell'abbandonare il tema della ricerca di una "exit strategy" per ricercare invece le concrete modalita' di una "transition strategy".
A questo riguardo, e' evidente che la strategia qaedista punta proprio sulla compromissione del processo in atto in Iraq anche per dare un segnale «dissuasivo» rispetto al futuro dell’Afghanistan: la recente recrudescenza degli attentanti in Iraq ha come scopo anche quello di interferire pesantemente nella transizione afgana. Tutto cio' ha come sotto-prodotto quello di accrescere l’ansia da risultato presso le forze politiche e parlamentari occidentali, che tentano di rilanciare la prospettiva di una permanenza militare in Afghanistan su basi parzialmente nuove, come l’idea - non certo originale - di un «dialogo» con i Talebani «moderati», vale a dire non collegati con formazioni terroristiche e disponibili a deporre le armi e ad entrare nel gioco democratico. Anche negli Stati Uniti cominciano a serpeggiare posizioni piu' scettiche e meno convinte sugli esiti e sugli sbocchi della «guerra di Obama». A questo proposito, e' di notevole interesse l’intervento di Richard Haass, Presidente dell’influente «Council on Foreign Relations». Haass, che fu anche a capo della policy unit del Dipartimento di Stato durante la prima amministrazione di George W. Bush, ha recentemente scritto un commento per il «New York Times» (21 agosto 2009) in cui mette in discussione uno dei punti fermi alla base della giustificazione della presenza in Afghanistan di forze internazionali, e cioe' che si tratti di una «guerra per necessita'» (war of necessity) e non di una «guerra per scelta» (war of choice). Haass anzitutto conia una nuova espressione per indicare il fatto che l’aumento del contingente americano (17.000 unita' in piu' e 4.000 nuovi addestratori, che portano la presenza militare americana a piu' di 60.000 operativi) in effetti ha tra l’altro l’obbiettivo di dare maggior respiro al consolidamento delle istituzioni e delle forze di sicurezza afgane: si tratterebbe di un «armed state building». Inoltre Haass considera la nuova postura Americana verso i Talebani «resistenti» nel sud e nell’est del Paese come una sorta di coinvolgimento diretto nella «guerra civile afghana». Affinche' una Guerra possa essere definita 'war of necessity', essa – argomenta Haass – deve superare due test: in primo luogo, deve coinvolgere interessi nazionali vitali; in secondo luogo, non ci devono essere alternative praticabili rispetto all’uso della forza per la protezione di tali interessi. Per Haass, possono essere definite «guerre necessarie» la Seconda Guerra Mondiale, la guerra di Corea e la prima guerra del Golfo. Anche l’invasione dell’Afghanistan subito dopo l’11 settembre puo' essere definita una guerra necessaria. Ma ora, con la presenza a Kabul di un governo «amico» di Washington, occorre chiedersi – argomenta Haass – se la presenza militare americana sia ancora una «necessita'». In effetti, anche nel caso in cui la missione abbia successo – definendo il «successo» nei termini minimi del consolidamento di un Governo afghano mediamente in grado di controllare il territorio – non c’e' alcuna garanzia che l’Afghanistan non possa anche in futuro essere considerato ancora da Al Qaeda come una base organizzativa e operativa.In ogni caso – sostiene Haass – vi sono almeno due alternative alla politica attuale dell’Amministrazione nei confronti dell’Afghanistan. La prima implica la riduzione delle truppe da combattimento e il rafforzamento degli attacchi con droni sui campi terroristi, l’intensificazione dell’addestramento delle forze di polizia e militari afghane, un piu' rilevante aiuto allo sviluppo e un'azione diplomatico-negoziale per frantumare il fronte talebano. Piu' radicalmente, la seconda alternativa esposta da Haass contempla l’ipotesi (teorica) di un completo ritiro di tutte le forze americane dall’Afghanistan e al contempo la concentrazione di tutti gli sforzi su strategie regionali e globali di contro-terrorismo e su iniziative di sicurezza interna («homeland security») per proteggere gli Stati Uniti da minacce che possano provenire proprio dall’Afghanistan. Da questo punto di vista, si tratterebbe di un approccio simile a quello adottato nei confronti di Paesi - come la Somalia – che non sono in grado di combattere il terrorismo (o non ne hanno la volonta' politica) senza tuttavia che gli Stati Uniti contemplino ipotesi di intervento militare. L’Afghanistan e' dunque, per Haass, una guerra scelta – la guerra scelta da Obama. Essa sarebbe paragonabile al Vietnam, alla Bosnia, al Kosovo, all’Iraq attuale. Non avrebbe dunque proprio i caratteri di eccezionalita' costantemente evocati da Obama e che, tra parentesi, costituiscono una sorta di «mantra» nei circoli dell’Alleanza Atlantica, specie nei termini della «public diplomacy». Si tratta percio' di una tesi particolarmente corrosiva e suscettibile di approfondire i dubbi ed alimentare i dibattiti che gia' caratterizzano il confronto politico interno in molti Paesi alleati. E' un vero e proprio 'paradigm shift'. Le guerre scelte – osserva Haass - non sono per definizione buone o cattive: il giudizio dipende dalla comparazione tra risultati e costi, e se l’impiego della forza e' piu' produttivo rispetto ad altre alternative. Haass riconosce che questo genere di equazione, per l’Afghanistan, e' estremamente complesso da risolvere. Se il rischio oggi per l’Afghanistan, in caso di un ritiro o riduzione delle forze americane, e' che i Talebani possano prendere Kabul e far cadere il governo centrale, Haass giudica che tale eventualita' rimarrebbe comunque nel novero delle possibilita', anche nella circostanza in cui le forze americane venissero ulteriormente incrementate, ma ad un costo umano, militare ed economico incomparabilmente superiore. Haass conclude che non solo l’Afghanistan e' una guerra per scelta, ma e' anche una scelta ardua. Tutto considerato, la bilancia sembra pendere ancora, nella valutazione di Haass, per un impegno di tipo militare, anche in termini accresciuti, poiche' la probabilita' di ottenere un qualche limitato successo e' ancora alta e gli interessi americani in gioco sono molto rilevanti. Tuttavia il Congresso e l’opinione pubblica dovrebbero assumere un atteggiamento di maggior attenzione agli sviluppi sul terreno: in altri termini, l’apertura di credito nei confronti delle scelte di Obama per l’Afghanistan non dovrebbe essere illimitata o incondizionata. Cio' esattamente perche' non essendo una guerra necessaria (per la quale ogni sforzo sarebbe in principio giustificato), quella in Afghanistan deve costantemente trovare la propria giustificazione funzionale e di efficacia. Senza dimenticare che un’eccessiva concentrazione sull’Afghanistan rischia di drenare risorse per altri fronti politico-diplomatici e strategici fondamentali, quali lo stesso Iraq, per non parlare della Corea del Nord e dell’Iran.
Un altro importante opinionista, Thomas Friedman, scrive sull’ «International Herald Tribune» del 7 settembre 2009 che l’alternativa in Afghanistan è tra «light black» (Karzai & Co.) e « dark black» (Taliban Inc.). La «nuova» strategia proposta dal generale americano Stanley McChrystal riduce le ambizioni alla creazione di «uno Stato afghano ragionevolmente non corrotto al servizio del suo popolo, che sia un partner dell’America nell’impegno di mantenere l’Afghanistan libero dai signori della droga e della guerra, oltre che dai Talebani e da Al Qaeda». Già questo appare un compito estreamente arduo. Per ottenere tale obiettivo, in ogni caso, l’invio di un maggior numero di truppe non è sufficiente. Occorre infatti adottare una logica, molto più impegnativa, di un vero e proprio «state-building» «in un contesto massimamente inospitale ed in uno tra i più poveri e più tribalizzati paesi del mondo». Anche Friedman propone un cambiamento del discorso politico («narrative») sull’Afghanistan, introducendo una semplice ma efficace metafora, e cioè il passaggio dalla fase di «babysitting» (e cioè impedire il ritorno al potere di Al Qaeda e dei Talebani) a quella dell’«adozione», che comporta l’assistenza diretta e continua allo stato afghano affinché si consolidi e alla fine si «emancipi» dalla tutela internazionale. La missione viene ridefinita non più solo in termini «negativi» - e cioè impedire che il Paese scivoli in una spirale estremista, islamista e terrorista - ma anche in termini «positivi», vale a dire edificare una struttura di governance politica, articolare un’impalcatura economica, garantire un necessario ordine pubblico e di sicurezza e offrire uno spazio di espressione e di partecipazione per la società civile. Per passare dal «babysitting» all’ «adozione» è però necessario un dibattito nazionale (non solo negli Stati Uniti), che consenta di chiarire i termini della missione e di uscire da ogni possibile ambivalenza, che –conclude Friedman – è il preludio di un disastro in Afghanistan, da tutti giustamente paventato.
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