Una lettura transnazionale
La Carta e la Dichiarazione
Uno dei temi portanti su cui si gioca la credibilità della comunità internazionale è il rapporto tra due principi che sembrano entrare talvolta in conflitto. Da una parte, la sovranità degli stati, con il correlato principio di non ingerenza; dall'altro, i diritti umani fondamentali, che hanno assunto un valore transnazionale, non tenendo conto dei confini degli stati. In qualche modo, sembra determinarsi una contraddizione tra due documenti "fondanti" per l'ordine mondiale: vale a dire, la Carta delle Nazioni Unite e la Dichiarazione universale dei diritti dell'uomo. Ma è una contraddizione solo apparente, e spesso invocata da regimi e governi che hanno tutto l'interesse a presentare come intangibile la sovranità statale.
Sovranità e «governance» globale
Se c'è una convinzione che è ormai maturata nella coscienza internazionale, è che la sovranità statale non è più un fatto assoluto. In primo luogo, perché essa deve ormai fare i conti con una governance globale che esige precisi comportamenti dagli stati. In secondo luogo, perché i governi non sono più gli attori esclusivi della politica internazionale. Basti pensare alle organizzazioni internazionali, alle associazioni transnazionali della società civile, agli organismi ed autorità spirituali, oltre ovviamente alle grandi corporations economiche a vocazione globale.
«Responsabilità di proteggere» e «dovere di prevenire»
Ma soprattutto l'assolutezza e l'esclusività della sovranità statale è messa in discussione da un altro grande principio che si è venuto affermando in campo internazionale, e cioè la «responsabilità di proteggere». E' un principio molto semplice ma anche molto incisivo : esso implica che la sovranità statale ha una ragion d'essere nel dovere delle autorità di governo di proteggere i loro cittadini. Quando, invece della protezione, un governo esercita la minaccia o l'oppressione verso il popolo che dovrebbe in teoria difendere da pericoli interni ed esterni, allora l'esclusività della sovranità viene meno, ed è la comunità internazionale che deve svolgere una funzione supplente di protezione, di difesa, di salvaguardia. In altri termini, la sovranità ha una natura funzionale, e se non assolve più ai compiti per i quali è costituita essa perde ogni credenziale politica, soprattutto in campo internazionale. Un punto essenziale tuttavia da sottolineare al riguardo è che la constatazione di questo «fallimento» delle funzioni statali fondamentali in materia di diritti umani non può essere affidata alla discrezionalità dei singoli Governi, ma va affidata alle organizzazioni internazionali a carattere universale, come le Nazioni Unite, e va compiuta attraverso una procedura pre-costituita. Sappiamo bene come sia difficile far valere la «responsabilità di proteggere» all'interno di un organismo complesso come le Nazioni Unite, ed in particolare il Consiglio di Sicurezza. Spesso occorre trovare uno spazio di manovra tra la minaccia del veto da parte dei membri permanenti del Consiglio di Sicurezza e la tentazione delle maggiori potenze di «fare da sole». Ed è in questo stretto margine che si inserisce un corollario fondamentale della «responsabilità di proteggere», e cioè il «dovere di prevenire». Nel caso del genocidio, ad esempio, è evidente che è assai più importante ed efficace la diplomazia preventiva rispetto all'intervento internazionale (se e quando si riesca a deciderlo!) teso ad arrestare un orribile crimine in atto contro un'intera categoria di persone innocenti.
Democrazia e diritti umani
Ma occorre spingersi anche più in là della semplice constatazione della complessità di un tema – quello della sovranità - che è eminentemente politico prima ancora che giuridico e procedurale. Occorre cioè chiedersi se oggi anche il postulato di un rapporto di mutua implicazione «automatica» tra democrazia e diritti non debba essere aggiornato. In primo luogo, perché assistiamo al sorgere di democrazie «illiberali», in cui alle caratteristiche elettive del sistema non fa riscontro un corpus giuridico ed ancor più una prassi improntata al rispetto dei diritti protetti da precise garanzie procedurali. Come non vi può essere vera democrazia senza diritti umani, non vi può essere, di converso, rispetto dei diritti umani senza democrazia, come si è preteso in alcune «democradure» asiatiche e nel mondo arabo. Il campo dei diritti umani non è perciò una «specializzazione» secondaria della politica internazionale o una nicchia per esperti di diritto internazionale. Si tratta al contrario di una questione che è divenuta cruciale per l'ordine internazionale, per la stabilità e la pace. E la comunità internazionale deve sapersi dare nuove regole e un nuovo «codice di condotta» che ponga la dignità umana tra le grandi questioni strategiche del XXI secolo, almeno in termini analoghi a quello del disarmo nucleare.
Sovranità «inclusiva»
La riflessione sui diritti «cosmopolitici» o universali ci spinge ben oltre gli angusti limiti rivendicativi della sovranità «esclusiva». Va affermato, al contrario, l’idea che l’unico tipo di sovranità effettivamente esercitabile in un mondo interconnesso, interdipendente e progressivamente integrato sia piuttosto di tipo «inclusivo». Dalle considerazioni che precedono emerge con chiarezza, infatti, che il concetto stesso di sovranità è sottoposto ad una crescente pressione da parte di norme e pratiche di tipo cosmopolitico. Come afferma Seyla Benhabib, il sistema degli Stati si trova intrappolato tra sovranità e ospitalità, cioè tra le caratterizzazioni territoriali ed esclusive del potere e la crescente portata transnazionale del sistema dei diritti. Una conferma, attualizzata, delle tesi di Kant e Kelsen. In particolare, si verifica la sovrapposizione (che rischia di divenire contrapposizione) menzionata da Kant tra jus civitatis, jus gentium e jus cosmopoliticum.
Sovranità e cittadinanza
Ad esempio, una delle componenti essenziali della sovranità intesa come fenomeno produttivo di coerenti ed univoci effetti giuridici e politici per le persone, vale a dire la cittadinanza, non risponde più ad un modello unitario, poiché essa subisce un processo di progressiva «disaggregazione». Vengono cioè scorporate dal nucleo concettuale della cittadinanza «classica» o moderna le sue tre dimensioni costitutive: l’identità collettiva, i privilegi derivanti dall’appartenenza politica ad un’entità di tipo statuale e il titolo a fruire dei diritti sociali e dei relativi vantaggi. Come le altre categorie politiche, la sovranità è anch’essa oggetto di «iterazioni» democratiche, cioè di «ripetizioni linguistiche, giuridiche, culturali e politiche in trasformazione, richiami che sono anche revoche. Esse non solo mutano le interpretazioni stabilite, ma trasformano anche quella che passa per la visione valida o consolidata del precedente dotato d’autorità» (Seyla Benhabib). Vale a dire che la sovranità non è un dato, non si trova «in natura» nel sistema politico, ma può e deve essere oggetto di riconcettualizzazione a partire dalla comunità politica ampliata o inclusiva, attraverso un processo di ridefinizione e di risemantizzazione compiuto in modo aperto e costruttivo, secondo le procedure tipiche della democrazia deliberativa.