Afghanistan: dalla "exit strategy" alla "transition strategy"

Un «cambio di paradigma»
Il recente processo elettorale afghano ha prodotto un effetto ambivalente nel giudizio dei piu' influenti analisti internazionali. Da una parte, si tratta indubbiamente della conferma di un percorso di “afghanizzazione” della transizione, nel quale la popolazione afghana ha dimostrato di saper resistere a minacce ed intimidazioni da parte delle forze dell’estremismo talebano. Da questo punto di vista, la partecipazione al voto e' un fatto di per se' incoraggiante. Anche lo scontro tra i due principali candidati rientra in un logica di competizione politica che restituisce alla societa' afghana il diritto di dividersi – sia pure pericolosamente - secondo linee interne piu' che sotto la pressione di forze internazionali (e Paesi diversamente interessati, come il Pakistan e l’India) o, peggio, sotto l’assillo del terrorismo stragista. Si tratta tuttavia ancora di una parvenza di democrazia, fragilissima sotto il profilo istituzionale e in costante pericolo di involuzione sotto il profilo politico e della governance regionale e locale. Difficile dunque dire se l’Afghanistan abbia raggiunto o stia per raggiungere il «tipping point» o punto di non-ritorno rispetto al recente passato. Tuttavia, per usare un’immagine della termodinamica, potremmo dire che nella migliore delle ipotesi l’entropia abbia rallentato e che si renda visibile un qualche «ordine» (pur dissipativo…) nel caos. L’altra faccia della medaglia, riguardo alla situazione afghana, e' l’atteggiamento talora perplesso della comunita' internazionale (al di la' della ovvia conferma «pubblica» degli impegni assunti, specie nei riguardi del principale alleato), che rispetto alla lentezza del consolidamento democratico e soprattutto del miglioramento qualitativo del livello di sicurezza mostra segni di impazienza. In tutti i Paesi coinvolti emerge infatti – a livello di forze politico-parlamentari e dell’opinione pubblica piu' in generale - un latente quanto pericoloso scetticismo sulla possibilita' che l’Afghanistan rappresenti in futuro una «success story» tale da giustificare ulteriori sacrifici di uomini e risorse. Specie nei Paesi che costituiscono i principali contributori all’ISAF e in generale alla missione di stabilizzazione dell’Afghanistan si fanno strada ipotesi precoci e pericolose di «exit strategy» sul «modello» (se si puo' definire tale) della progressiva riduzione e riposizionamento delle forze americane in Iraq. Un altro modo di porre il problema consiste nell'abbandonare il tema della ricerca di una "exit strategy" per ricercare invece le concrete modalita' di una "transition strategy".
A questo riguardo, e' evidente che la strategia qaedista punta proprio sulla compromissione del processo in atto in Iraq anche per dare un segnale «dissuasivo» rispetto al futuro dell’Afghanistan: la recente recrudescenza degli attentanti in Iraq ha come scopo anche quello di interferire pesantemente nella transizione afgana. Tutto cio' ha come sotto-prodotto quello di accrescere l’ansia da risultato presso le forze politiche e parlamentari occidentali, che tentano di rilanciare la prospettiva di una permanenza militare in Afghanistan su basi parzialmente nuove, come l’idea - non certo originale - di un «dialogo» con i Talebani «moderati», vale a dire non collegati con formazioni terroristiche e disponibili a deporre le armi e ad entrare nel gioco democratico. Anche negli Stati Uniti cominciano a serpeggiare posizioni piu' scettiche e meno convinte sugli esiti e sugli sbocchi della «guerra di Obama». A questo proposito, e' di notevole interesse l’intervento di Richard Haass, Presidente dell’influente «Council on Foreign Relations». Haass, che fu anche a capo della policy unit del Dipartimento di Stato durante la prima amministrazione di George W. Bush, ha recentemente scritto un commento per il «New York Times» (21 agosto 2009) in cui mette in discussione uno dei punti fermi alla base della giustificazione della presenza in Afghanistan di forze internazionali, e cioe' che si tratti di una «guerra per necessita'» (war of necessity) e non di una «guerra per scelta» (war of choice). Haass anzitutto conia una nuova espressione per indicare il fatto che l’aumento del contingente americano (17.000 unita' in piu' e 4.000 nuovi addestratori, che portano la presenza militare americana a piu' di 60.000 operativi) in effetti ha tra l’altro l’obbiettivo di dare maggior respiro al consolidamento delle istituzioni e delle forze di sicurezza afgane: si tratterebbe di un «armed state building». Inoltre Haass considera la nuova postura Americana verso i Talebani «resistenti» nel sud e nell’est del Paese come una sorta di coinvolgimento diretto nella «guerra civile afghana». Affinche' una Guerra possa essere definita 'war of necessity', essa – argomenta Haass – deve superare due test: in primo luogo, deve coinvolgere interessi nazionali vitali; in secondo luogo, non ci devono essere alternative praticabili rispetto all’uso della forza per la protezione di tali interessi. Per Haass, possono essere definite «guerre necessarie» la Seconda Guerra Mondiale, la guerra di Corea e la prima guerra del Golfo. Anche l’invasione dell’Afghanistan subito dopo l’11 settembre puo' essere definita una guerra necessaria. Ma ora, con la presenza a Kabul di un governo «amico» di Washington, occorre chiedersi – argomenta Haass – se la presenza militare americana sia ancora una «necessita'». In effetti, anche nel caso in cui la missione abbia successo – definendo il «successo» nei termini minimi del consolidamento di un Governo afghano mediamente in grado di controllare il territorio – non c’e' alcuna garanzia che l’Afghanistan non possa anche in futuro essere considerato ancora da Al Qaeda come una base organizzativa e operativa.In ogni caso – sostiene Haass – vi sono almeno due alternative alla politica attuale dell’Amministrazione nei confronti dell’Afghanistan. La prima implica la riduzione delle truppe da combattimento e il rafforzamento degli attacchi con droni sui campi terroristi, l’intensificazione dell’addestramento delle forze di polizia e militari afghane, un piu' rilevante aiuto allo sviluppo e un'azione diplomatico-negoziale per frantumare il fronte talebano. Piu' radicalmente, la seconda alternativa esposta da Haass contempla l’ipotesi (teorica) di un completo ritiro di tutte le forze americane dall’Afghanistan e al contempo la concentrazione di tutti gli sforzi su strategie regionali e globali di contro-terrorismo e su iniziative di sicurezza interna («homeland security») per proteggere gli Stati Uniti da minacce che possano provenire proprio dall’Afghanistan. Da questo punto di vista, si tratterebbe di un approccio simile a quello adottato nei confronti di Paesi - come la Somalia – che non sono in grado di combattere il terrorismo (o non ne hanno la volonta' politica) senza tuttavia che gli Stati Uniti contemplino ipotesi di intervento militare. L’Afghanistan e' dunque, per Haass, una guerra scelta – la guerra scelta da Obama. Essa sarebbe paragonabile al Vietnam, alla Bosnia, al Kosovo, all’Iraq attuale. Non avrebbe dunque proprio i caratteri di eccezionalita' costantemente evocati da Obama e che, tra parentesi, costituiscono una sorta di «mantra» nei circoli dell’Alleanza Atlantica, specie nei termini della «public diplomacy». Si tratta percio' di una tesi particolarmente corrosiva e suscettibile di approfondire i dubbi ed alimentare i dibattiti che gia' caratterizzano il confronto politico interno in molti Paesi alleati. E' un vero e proprio 'paradigm shift'. Le guerre scelte – osserva Haass - non sono per definizione buone o cattive: il giudizio dipende dalla comparazione tra risultati e costi, e se l’impiego della forza e' piu' produttivo rispetto ad altre alternative. Haass riconosce che questo genere di equazione, per l’Afghanistan, e' estremamente complesso da risolvere. Se il rischio oggi per l’Afghanistan, in caso di un ritiro o riduzione delle forze americane, e' che i Talebani possano prendere Kabul e far cadere il governo centrale, Haass giudica che tale eventualita' rimarrebbe comunque nel novero delle possibilita', anche nella circostanza in cui le forze americane venissero ulteriormente incrementate, ma ad un costo umano, militare ed economico incomparabilmente superiore. Haass conclude che non solo l’Afghanistan e' una guerra per scelta, ma e' anche una scelta ardua. Tutto considerato, la bilancia sembra pendere ancora, nella valutazione di Haass, per un impegno di tipo militare, anche in termini accresciuti, poiche' la probabilita' di ottenere un qualche limitato successo e' ancora alta e gli interessi americani in gioco sono molto rilevanti. Tuttavia il Congresso e l’opinione pubblica dovrebbero assumere un atteggiamento di maggior attenzione agli sviluppi sul terreno: in altri termini, l’apertura di credito nei confronti delle scelte di Obama per l’Afghanistan non dovrebbe essere illimitata o incondizionata. Cio' esattamente perche' non essendo una guerra necessaria (per la quale ogni sforzo sarebbe in principio giustificato), quella in Afghanistan deve costantemente trovare la propria giustificazione funzionale e di efficacia. Senza dimenticare che un’eccessiva concentrazione sull’Afghanistan rischia di drenare risorse per altri fronti politico-diplomatici e strategici fondamentali, quali lo stesso Iraq, per non parlare della Corea del Nord e dell’Iran.
Un altro importante opinionista, Thomas Friedman, scrive sull’ «International Herald Tribune» del 7 settembre 2009 che l’alternativa in Afghanistan è tra «light black» (Karzai & Co.) e « dark black» (Taliban Inc.). La «nuova» strategia proposta dal generale americano Stanley McChrystal riduce le ambizioni alla creazione di «uno Stato afghano ragionevolmente non corrotto al servizio del suo popolo, che sia un partner dell’America nell’impegno di mantenere l’Afghanistan libero dai signori della droga e della guerra, oltre che dai Talebani e da Al Qaeda». Già questo appare un compito estreamente arduo. Per ottenere tale obiettivo, in ogni caso, l’invio di un maggior numero di truppe non è sufficiente. Occorre infatti adottare una logica, molto più impegnativa, di un vero e proprio «state-building» «in un contesto massimamente inospitale ed in uno tra i più poveri e più tribalizzati paesi del mondo». Anche Friedman propone un cambiamento del discorso politico («narrative») sull’Afghanistan, introducendo una semplice ma efficace metafora, e cioè il passaggio dalla fase di «babysitting» (e cioè impedire il ritorno al potere di Al Qaeda e dei Talebani) a quella dell’«adozione», che comporta l’assistenza diretta e continua allo stato afghano affinché si consolidi e alla fine si «emancipi» dalla tutela internazionale. La missione viene ridefinita non più solo in termini «negativi» - e cioè impedire che il Paese scivoli in una spirale estremista, islamista e terrorista - ma anche in termini «positivi», vale a dire edificare una struttura di governance politica, articolare un’impalcatura economica, garantire un necessario ordine pubblico e di sicurezza e offrire uno spazio di espressione e di partecipazione per la società civile. Per passare dal «babysitting» all’ «adozione» è però necessario un dibattito nazionale (non solo negli Stati Uniti), che consenta di chiarire i termini della missione e di uscire da ogni possibile ambivalenza, che –conclude Friedman – è il preludio di un disastro in Afghanistan, da tutti giustamente paventato.