L'elefante ha messo le ali


Ho partecipato alla presentazione del libro di Antonio Armellini
L’elefante ha messo le ali.L’India del XXI secolo (prefazione di Giuliano Amato - Università Bocconi editore, 2008). Un punto mi e' sembrato interessante, e cioe' che in India (come altrove) la persecuzione o discriminazione non riguardano solo i cristiani. Credo che occorra chiedere la liberta' religiosa (e il rispetto della diversita' culturale in genere) non solo per chi ci appare "simile", ma in modo universale, valido cioe' per tutte le persone e tutte le comunita'. Ecco uno stralcio del libro di Armellini che tratta della situazione della comunità musulmana in India (pagg.148-150):

La comunità musulmana si sente parte della nazione e al suo interno non vi sono frange significative che guardino al Pakistan come alla madrepatria negata. Eppure, nell’immaginario collettivo la sua lealtà viene messa regolarmente in discussione ed è usata come argomento – o meglio, come scusa – per tutta una serie di piccole e grandi prevaricazioni. Dalle partite di cricket alle scelte di politica estera, i musulmani vengono guardati come «indiani avventizi», il cui cuore tende a battere comunque altrove.
Si tratta di un atteggiamento mentale che non trova, beninteso, una sanzione legislativa: i governi hanno promosso negli anni diverse misure volte a compensare questi squilibri, ma la loro efficacia è stata inferiore alle aspettative ed è giudicata inadeguata anche dalla parte più moderata della comunità musulmana. Al di là di qualsiasi altra considerazione, esse non sono riuscite a chiudere il golfo della diffidenza, che in qualche occasione è stato reso anche più ampio. A partire dal terrorismo. Gli indiani non si stancano di ripetere che il fenomeno terroristico, che vede coinvolti i musulmani, non ha una matrice islamica, bensì una di esclusivo stampo interno: Manmohan Singh ha ripetuto in numerose occasioni, con assoluta sicurezza, che in India non vi è un solo aderente ad al Qaeda. Agli occhi indiani il terrorismo ha un solo Satana, che si chiama Pakistan. Dalle bombe di Bombay nel 1993, all’attacco al Parlamento nel 2001, allo stillicidio di attacchi in Kashmir, il leitmotiv è sempre stato quello del coinvolgimento di Islamabad, grazie alla disponibilità di una vasta reste di basisti nel paese, tratti da un brodo di coltura islamico inaffidabile per definizione. Che i pakistani tengano un occhio su quanto accade nel paese vicino, è probabile; che abbiano messo mano in tutti i fenomeni violenti che presentano un coinvolgimento musulmano è possibile, ma un po’ meno probabile. Le condizioni di emarginazione dei musulmani in India costituiscono un terreno più che fertile per movimenti eversivi di carattere locale. Eppure, ci sarebbe più di un motivo per guardare lontano: gli attacchi alla ferrovia suburbana di Bombay nel 2006, in contemporanea casuale – o forse no – con una serie di esplosioni a Srinagar, nel Kashmir, potrebbe- ro rappresentare il segnale di una capacità organizzativa e di un coordinamento a distanza di tipo nuovo e non troppo dissimile da tecniche e modalità del terrorismo qaedista. Il governo ha messo a tacere qualsiasi speculazione in proposito, ma gli interrogativi rimangono. Di influenze qaediste non si vedono altre tracce, per ora, e le condizioni di arretratezza culturale della comunità musulmana potrebbero averla resa più impermeabile a messaggi ideologici esterni – anche perché essa è nel complesso assai meno radicale di quanto certa propaganda voglia dare da intendere (un solo dato: appena il 4% dei giovani musulmani frequenta le madrassa). Ciò detto, le stesse condizioni di arretratezza potrebbero favorire una progressiva radicalizzazione, alimentata dall’emergere di gruppi acculturati e ideologicamente estremizzanti, specie fra i giovani. Il tante volte evocato Students Islamic Movement of India (SIMI) viene visto dai servizi indiani come la porta d’ingresso privilegiata nel paese per l’ISI. Potrebbe valere la pena di esaminare un po’ più da vicino se da essa – o da strutture consimili – non potrebbe cominciare a fare capolino in questo paese quell’«internazionale del terrorismo» che fiorisce non troppo lontano dai suoi confini. Le condizioni di povertà, isolamento ecc. sembrerebbero esserci tutte e il karma, per i musulmani, non conta. Ancora una volta, la barriera più efficace potrebbe essere stata fornita sinora dalla solidità del tessuto democratico del paese, che si è mostrato in grado di resistere ad onta delle diseguaglianze. Ma fino a quando? I musulmani hanno rappresentato per anni una delle vote banks più affidabili per il partito del Congresso. Nell’intreccio fra casta, comunità e potere, hanno rappresentato una componente tanto solida quanto prevedibile: un fatto questo che, da un lato, ha garantito una certa rappresentanza, ma dall’altro ne ha diminuito il potere contrattuale in termini di scelte elettorali e di influenza. Con la fine dell’egemonia del Congresso, le cose sono andate progressivamente cambiando e oggi il voto musulmano non è più una variabile scontata. I musulmani in India non si sono mai riconosciuti in un partito confessionale (e questo è di per sé un dato significativo, rispetto alle accuse di oscurantismo bigotto che vengono loro regolarmente rivolte); la loro identità politico-elettorale ha teso tradizionalmente a confondersi con quella dei dalit e delle OBC/SC, sia pure con variabili importanti da stato a stato. Il crescente peso delle formazioni regionali ha attribuito un maggior ruolo anche ai musulmani, i quali hanno potuto sfruttare il vantaggio di «fare la differenza» in quegli stati dove la loro consistenza, non rilevantissima in termini assoluti, risultava decisiva per conseguire la maggioranza. Uno schema dal sapore «italiano», che ha dato qua e là risultati paradossali: nella sua campagna vittoriosa in Uttar Pradesh, Mayawati ha riproposto la convergenza bramini-musulmani-intoccabili che aveva garantito negli anni la vittoria del Congresso, da una prospettiva in cui la componente dominante non era più la bramina, bensì l’altra. Persino Narendra Modi, il Chief Minister del Gujarat responsabile politico delle stragi di Godhra del 2002, ha pensato bene di lanciare qualche modesto segnale al voto musulmano durante la sua recente campagna elettorale. Per i musulmani, insomma, la fine della discriminazione non è dietro l’angolo, ma la frammentazione del quadro politico indiano offre la possibilità di entrare in maniera più diretta nel gioco delle influenze e di acquisire una voce meno flebile, in attesa di un’uguaglianza che, terrorismo ed estremismo hindutva permettendo, prima o poi verrà.

Dialogo interculturale e diritti umani


Segnalo un'opera di grande rilievo:Dialogo interculturale e diritti umani. La Dichiarazione Universale dei Diritti Umani. Genesi, evoluzione e problemi odierni (1948-2008), a cura di Luigi Bonanate e Roberto Papini (Il Mulino, Bologna 2008). Mi hanno colpito in particolare alcuni passaggi dell'introduzione:
Sappiamo di essere minacciati da due rischi: il ripiego identitario e l'omologazione culturale, rischi che, portati all'eccesso, comportano, nel primo caso, relativismo culturale (quindi difficolta' a stabilire basi etiche comuni) e, nel secondo, l'annichilimento di ogni differenza, la fine dell'uomo quale essere culturale sotto il dominio pieno delle tecnoscienze e del funzionalismo di cui la globalizzazione dei mercati non sarebbe che l'ultimo dei fattori. Dobbiamo trovare una via mediana affinche' la contaminazione delle culture (fenomeno che esiste da sempre anche se in forma piu' latente) produca arricchimento e non ripiegamento o scontro.(.....) La conoscenza reciproca favorisce il dialogo interculturale che non puo' pero' stabilirsi sul piano della pura neutralita' assiologica, il che avallerebbe, tra l'altro, la tesi che le culture siano del tutto equivalenti. La scoperta della comune umanita' passa attraverso le culture in una ricerca che tende a valorizzare cio' che e' piu' umano, cio' che apre maggiormente all'altro, perche' l'uomo e' un essere relazionale. La prospettiva dovrebbe essere dunque quella di alcuni principi fondamentali relativi ad una cultura civica mondiale.

Parole da bandire

Mi sono rammentato di un'iniziativa di Giornalisti contro il razzismo sull'uso del linguaggio etichettatorio (spesso in termini dispregiativi, anche se talvolta senza intenzionalita' ma per mera pigrizia intellettuale, che in questo caso e' assai perniciosa).


29 luglio 2008
LE PAROLE DA METTERE AL BANDO

CLANDESTINO
Questo termine, molto usato dai media italiani, ha un'accezione fortemente negativa. Evoca segretezza, vite condotte nell'ombra, legami con la criminalità. Viene correntemente utilizzato per indicare persone straniere che per varie ragioni non sono in regola, in tutto o in parte, con le norme nazionali sui permessi di soggiorno, per quanto vivano alla luce del sole, lavorino, conducano esistenze "normali". Sono così definite "clandestine" persone che non sono riuscite ad ottenere il permesso di soggiorno (magari perché escluse da quote d'ingresso troppo basse) o a rinnovarlo, altre che sono entrate in Italia con un visto turistico poi scaduto, altre ancora - ed è il caso meno frequente - che hanno evitato sia il visto turistico sia le procedure (farraginose e poco praticabili per ammissione generale) previste per ottenere nei paesi d'origine il visto d'ingresso in Italia. Spesso sono considerati "clandestini" anche i profughi intenzionati a richiedere asilo o in attesa di una risposta alla loro richiesta, oppure ancora sfollati in fuga da guerre o disastri naturali. E' possibile identificare ogni situazione con il termine più appropriato ed evitare SEMPRE di usare una definizione altamente stigmatizzante come "clandestino".
ALTERNATIVE
All'estero si parla di "sans papiers" (Francia), "non-documented migrant workers" (definizione suggerita dalle Nazioni Unite) e così via. A seconda dei casi, e avendo cura che l'utilizzo sia il più appropriato, è possibile usare parole come "irregolari", "rifugiati", "richiedenti asilo". Sono sempre disponibili e spesso preferibili le parole più semplici e più neutre: "persone", "migranti", "lavoratori". Altre locuzioni come "senza documenti", o "senza carte", o "sans papiers" definiscono un'infrazione amministrativa ed evitano di suscitare immagini negative e stigmatizzanti.

EXTRACOMUNITARIO
Letteralmente dovrebbe indicare cittadini di paesi esterni all'Unione europea, ma questo termine non è mai stato usato per statunitensi, svizzeri, australiani o cittadini di stati "ricchi"; ha finito così per indicare e stigmatizzare persone provenienti da paesi poveri, enfatizzando l'estraneità all'Italia e all'Europa rispetto ad ogni altro elemento (il prefisso "extra" esprime un'esclusione). Ha assunto quindi una connotazione dequalificante, oltre ad essere poco corretto sul piano letterale.
ALTERNATIVE
E' possibile usare “non comunitario” per tutte le nazionalità non Ue, o fare riferimento - quando necessario (spesso la nazionalità viene specificata anche quando è superflua, specie nei titoli) - al paese di provenienza.

VU CUMPRA'
E' un'espressione che storpia l'italiano "Vuoi comprare" ed è usata da anni per definire lavoratori stranieri, specialmente africani, che esercitano il commercio ambulante. E' una locuzione irrispettosa delle persone alle quali si riferisce e stigmatizzante, oltre che inutile sul piano lessicale.
ALTERNATIVE
E' possibile usare i termini "ambulante", "venditore".

NOMADE (e CAMPI NOMADI)
Il nomadismo, nelle popolazioni rom e sinte, è nettamente minoritario, eppure il termine nomade è continuamente utilizzato come sinonimo di rom e sinti. Un effetto perverso di questo uso scorretto, è la derivazione "campi nomadi", che fa pensare a luoghi adatti a gruppi umani che si spostano continuamente e quindi a una forma d'insediamento tipica di quelle popolazioni e in qualche modo "necessaria". Non è così. In Europa l'Italia è conosciuta come "il paese dei campi" per le sue politiche di segregazione territoriale; solo una piccola parte dei sinti e dei rom residenti in Italia non sono sedentari. Parlare di nomadi e campi nomadi è quindi improprio e fuorviante, ha esiti discriminatori nella percezione comune e "conferma" una serie di pregiudizi diffusi in particolare nella società italiana.
ALTERNATIVE
I termini più corretti sono rom e sinti, a seconda dei casi (sono due "popoli" diversi), e in aggiunta alla eventuale nazionalità. Al posto di "campi nomadi" è corretto utilizzare, a seconda degli specifici casi, i termini "campi", "campi rom/campi sinti" (gran parte dei rom venuti dalla ex Jugoslavia sono fuggiti da guerre e persecuzioni).

ZINGARI
E' un termine antico, diffuso con alcune varianti in tutta Europa, ma ha assunto una connotazione sempre più negativa ed è ormai respinto dalle popolazioni rom, sinte, etc. E' spesso percepito come sinonimo di "nomadi" e conduce agli stessi effetti distorsivi e discriminatori.
ALTERNATIVE
Rom, sinti

Il mondo di Obama

di Pasquale Ferrara
«La sicurezza e il benessere di ogni americano dipendono dalla sicurezza e dal benessere di coloro che vivono fuori dalle nostre frontiere».
Con questa semplice constatazione, quasi banale se non fosse che giunge dopo anni di esagerazioni «unilaterali», il neopresidente eletto degli Stati Uniti propone un riequilibrio sostanziale della politica estera americana. L’idea che Obama pone alla base del suo programma per le relazioni internazionali è che «l’America non può affrontare da sola le minacce di questo secolo e il mondo non le può affrontare senza l’America». Si direbbe una sorta di “Dichiarazione di interdipendenza”, per usare la felice espressione del politologo americano Benjamin Barber. Su tutti i principali problemi dello scenario internazionale, l’obiettivo di Obama è ricostruire un ruolo guida degli Stati Uniti, ma a partire dalla condivisione degli obiettivi e dei metodi, a partire dall’esempio, e non sulla base di priorità stabilite a Washington e poi presentate al resto del mondo con la logica del “prendere o lasciare”. Per il nuovo presidente, è la diplomazia, è la politica che deve essere al centro dell’iniziativa internazionale degli Stati Uniti, utilizzando – e non scalzando – le istituzioni multilaterali come l’Onu. Le Nazioni Unite non saranno perfette, ma non possono certo essere “accantonate” come ha fatto in momenti cruciali l’amministrazione Bush (per l’Iraq, ad esempio) o come il candidato McCain (peraltro assai ponderato in materia di politica estera) si proponeva di fare creando un’organizzazione parallela, con regole incerte, come la “Lega delle democrazie”. Intendiamoci, Obama non esclude l’uso della forza per la soluzione delle crisi internazionali, ma certamente non come alternativa alla diplomazia e non al di fuori delle regole multilaterali. Il nuovo presidente raccoglie la drammatica eredità di due guerre in cui l’America è impegnata, in Iraq e in Afghanistan. La sua opposizione all’intervento militare in Iraq risale al 2002, ma Obama guiderà il disimpegno delle truppe americane in modo ordinato e senza fughe in avanti che possano pregiudicare la fragile situazione del Paese tra i due fiumi. Per l’Afghanistan, è abbastanza semplicistico far credere che Obama chiederà semplicemente “più soldati” per sconfiggere i talebani. Per trovare una via d’uscita, occorre riformulare l’intera strategia della comunità internazionale in Afghanistan, precisando anzitutto gli obiettivi politici, affinando i termini di un intervento che, per avere successo, deve contare sul sostegno convinto della popolazione afghana e non, riduttivamente, sulle incursioni militari. In sintesi, più idee, non solo muscoli. Nell’area mediorientale, Obama dovrà affrontare il delicatissimo tema del programma nucleare iraniano.
Anche in questo caso, la strada che Obama indica è quella della diplomazia, che non significa certo accondiscendenza. Un Iran dotato di armi nucleari è una prospettiva inaccettabile, ed è un incubo per l’intera regione. Il neoeletto presidente è a favore di un negoziato con Teheran senza precondizioni, ma prospetta anche misure di isolamento politico ed economico dell’Iran se non riscontrerà la volontà di giungere ad una soluzione di compromesso. Ma l’obiettivo caratterizzante della politica estera di Obama consisterà nell’impresa, non certo facile, di ricostruire intorno all’America quel clima di fiducia che soprattutto la guerra in Iraq e la politica della “esportazione della democrazia” ha vanificato in molte parti del mondo, a cominciare dai Paesi arabi. Un modo per ricomporre questo rapporto incrinato consiste nel dare subito priorità alla soluzione del conflitto israelopalestinese. Ci aveva provato anche Bush, ma tardivamente e senza incisività. Ora Obama si ripromette di spendere il suo “impegno personale”, fin dall’inizio, per raggiungere l’obiettivo, troppo lungamente atteso, di due Stati (Israele e Palestina) che vivano fianco a fianco in pace e in sicurezza.

Chiesa, guerra, radici cristiane (?)

Sono stato colpito dalla forza con cui la Chiesa ha chiesto in queste settimane la fine della violenza, il cessate il fuoco e condannato la logica della guerra. Una voce del tutto inascoltata dai forsennati difensori (spesso - paradossalmente - dichiaratamente atei) delle "radici cristiane", auto-investitisi di questa singolare funzione, evidentemente inclini ad un approccio altamente selettivo, fortemente ideologico, tendenzialmente belluino ed "antagonistico" agli insegnamenti del cristianesimo. Qui di seguito gli ultimi interventi su questo tema di Benedetto XVI, che quando vengono citati in tale successione attirano inopinatamente su chi compie tale semplice operazione l'accusa di "strumentalizzare" il pensiero del Papa!

Discorso al Corpo Diplomatico, 8.1.2009
Una volta di più, vorrei ripetere che l’opzione militare non è una soluzione e che la violenza, da qualunque parte essa provenga e qualsiasi forma assuma, va condannata fermamente.

Angelus 4.1.2009
Le drammatiche notizie che ci giungono da Gaza mostrano quanto il rifiuto del dialogo porti a situazioni che gravano indicibilmente sulle popolazioni ancora una volta vittime dell’odio e della guerra. La guerra e l’odio non sono la soluzione dei problemi.

Angelus 28.12.2008
La Terrasanta (…) è nuovamente sconvolta da uno scoppio di inaudita violenza. Sono profondamente addolorato per i morti, i feriti, i danni materiali, le sofferenze e le lacrime delle popolazioni vittime di questo tragico susseguirsi di attacchi e di rappresaglie(..)Imploro la fine di quella violenza, che è da condannare in ogni sua manifestazione, e il ripristino della tregua nella striscia di Gaza; chiedo un sussulto di umanità e di saggezza in tutti quelli che hanno responsabilità nella situazione, domando alla comunità internazionale di non lasciare nulla di intentato per aiutare israeliani e palestinesi ad uscire da questo vicolo cieco e a non rassegnarsi (….) alla logica perversa dello scontro e della violenza, ma a privilegiare invece la via del dialogo e del negoziato.

Gli scudi umani e la filosofia (parte seconda)

C'e' una differenza fondamentale tra la situazione degli "scudi umani" e quella delle "vittime collaterali". Queste utime sono, a conti fatti, il tragico risultato di un mancata (consapevole) considerazione del "principio di precauzione" applicato alle operazioni belliche. L'azione militare, condotta ad esempio in un'area densamente popolata, puo' causare vittime civili, anche se esse non sono ovviamente un obiettivo diretto che si intenda colpire deliberatamente. Benche' la questione delle vittime collaterali non sfugga, anch'essa, ad una valutazione etica fortemente negativa, in quanto fondata su un approccio irresponsabile ed ipocrita degli effetti di un'operazione militare, e pertanto implicante un'accettazione preventiva di un margine di rischio per i non belligeranti eccessivamente elevato e moralmente inaccettabile, la situazione degli "scudi umani" e' assai piu' grave. In tal caso, infatti, le vittime civili sono fatte oggetto diretto di azioni offensive deliberate, sulla base di un ragionamento "cinico" che addossa a quanti usano i civili a questo scopo aberrante (e agli stessi "scudi umani", laddove "consenzienti") la responsabilita' etica della loro soppressione. Si verifica, in altre parole, un processo di traslazione della colpa dai carnefici alle vittime. Se coloro che fanno ricorso agli scudi umani "forzati" dimostrano senza alcun dubbio il piu' bieco disprezzo della vita umana, altrettanto - se non peggio - fanno quanti decidono, sulla base di una valutazione "economica" costi/benefici, che essi possono essere colpiti senza soverchie questioni di coscienza, benche' si abbia piena coscienza della loro condizione e, in particolare, della loro assoluta inermita'.

Scontri di civilta': non e' mai la fede il problema

di Kofi Annan (Segretario generale dette Nazioni Unite dal 1996 al 2006)
Pace, dialogo, giustizia. Nella mia agenda questi restano i temi principali. Penso che sia di vitale importanza per noi superare i risentimenti, e stabilire relazioni di fiducia tra le comunità. Per farlo occorre compiere passi concreti e coraggiosi. Dobbiamo sottolineare ciò che ci unisce molto di più di ciò che ci divide. E dobbiamo cominciare ribadendo - e dimostrando - che il problema non è il Corano, né la Torah o la Bibbia. La fede, lo ripeto spesso, non è mai il problema, lo è semmai il modo con cui i fedeli si comportano nelle relazioni degli uni verso gli altri. È per questa ragione che dobbiamo sottolineare ed enfatizzare i valori fondamentali comuni a tutte le religioni: compassione, solidarietà, rispetto per la persona umana. Soprattutto la regola d`oro del nostro agire deve essere di «fare agli altri quel che vorresti fosse fatto a te». In un tempo di incertezza, di divisioni, di scontri e di paure abbiamo invece bisogno di uscire da stereotipi, generalizzazioni e preconcetti. Occorre fare attenzione a non lasciare che i crimini commessi da singole persone o da piccoli gruppi ci facciano cadere nella trappola delle generalizzazioni, in modo che questi atti condizionino il nostro modo di guardare a intere popolazioni, intere regioni e religioni. Dobbiamo rifiutarci di strumentalizzare la religione per giustificare qualsiasi genere di violenza; opporci all`uso della fede per favorire la discriminazione e l`esclusione; respingere ogni tentativo di sfruttare e dominare gli altri adoperando la forza, la capacità intellettuale o spirituale, la ricchezza o lo status sociale. Per il futuro mi auguro che le iniziative di dialogo interreligioso - penso ad esempio all`Appello spirituale di Ginevra - possano insegnarci che accanto a una infinita diversità delle culture esiste una civiltà globale basata su valori condivisi di tolleranza e di libertà. Una civiltà fondata sulla tolleranza del dissenso, che sa riconoscere e accogliere la diversità culturale, che sa insistere su valori fondamentali come l`universalità dei diritti umani confermandosi nel convincimento che in tutto il mondo le persone hanno diritto ad esprimersi sul modo con cui si è governati. Si tratta di una civiltà basata sulla convinzione che la diversità tra culture è qualcosa da valorizzare, non da temere. Molte guerre, purtroppo, derivano dal timore di coloro che sono diversi da noi stessi. Solo attraverso il dialogo si possono superare queste paure. E questo l`impegno che dobbiamo perseguire.
(Da "Avvenire", 11/1/2009)

Gli "scudi umani" e la filosofia

La retorica della guerra include spesso il riferimento ad una delle atrocita' attribuite al "nemico assoluto", e cioe' l'accusa di usare i civili come "scudi umani". L'argomento e'spesso correlato a quello dei "danni collaterali", cioe' dell'uccisione "involontaria" di civili nel corso di un confronto armato. L'evocazione del termine evoca l'idea di un'intrinseca debolezza, anzitutto militare, prima ancora che etica, di quanti asseritamente farebbero ricorso a tale pratica barbara, che ricorda, nella sostanza, i sacrifici umani dei popoli primitivi, in ragione di una causa collettiva ritenuta superiore alla singola vita umana. Nell'impossibilita' di prevalere militarmente o di resistere ad un attacco, il ricorso agli "scudi umani" avrebbe come obiettivo secondario quello di esercitare una forma di deterrenza nei confronti del nemico preponderante, e come obiettivo primario quello di attirare su di esso la riprovazione generale per aver colpito inermi esseri umani (spesso bambini).
Secondo Alan Dershowitz, il problema puo' essere sintetizzato come segue. Il punto di fondo sarebbe verificare le modalita' attraverso le quali i gruppi terroristici o resistenti sfruttano i "propri" civili, se cioe' questi ultimi vengono costretti a divenire "scudi umani" oppure essi danno il loro consenso a svolgere tale "funzione". Per Dershowitz, quest'ultima categoria di civili non dovrebbe piu' essere considerata tale dal diritto internazionale, poiche' essi sarebbero equiparabili a tutti gli effetti ai "combattenti", ed avrebbero "scelto" di morire. Nel caso di scudi umani "involontari", il danno loro inflitto dovrebbe essere "proporzionale". In ogni caso, la responsabilita' della loro uccisione o ferimento sarebbe interamente da addebitare ai "terroristi". In sintesi, per Dershowitz certi innocenti sono meno innocenti degli altri. Come si legge in un articolo di Dershowitz sul Los Angeles Times del 22 luglio 2006, in occasione della guerra del sud del Libano,
c'è un'ampia differenza - sia morale che legale - tra un bambino di due anni ucciso da un razzo nemico e un civile di 30 anni che si è prestato a custodire a casa sua dei Katyusha. Entrambi sono tecnicamente civili, ma il primo è di gran lunga più innocente del secondo. C'è anche differenza tra un civile che si limita a simpatizzare o addirittura a votare per un gruppo terroristico e un civile che fornisce appoggio finanziario o comunque materiale al terrorismo. Infine, c'è differenza tra civili che sono tenuti ostaggi contro la loro volontà da terroristi che li usano come involontari scudi umani, e civili che volontariamente si mettono in pericolo per proteggere i terroristi dal fuoco nemico (...) I militanti di Hezbollah e Hamas (...) sono difficilmente distinguibili dai 'civili' che reclutano, finanziano, offrono riparo e agevolano i terroristi. E neanche le donne e i bambini possono essere sempre contati come civili, come fanno alcune organizzazioni. I terroristi usano sempre più frequentemente donne e ragazzini, che hanno un ruolo importante nei loro attacchi. (...)Se i mezzi di informazione adottassero questo 'continuum', sarebbe istruttivo sapere quante delle 'vittime civili' si avvicinano all'estremo della complicità e quante a quello dell'innocenza.Ogni morte civile è una tragedia, ma alcune sono più tragiche di altre.
L'argomentazione e' di per se' agghiacciante, ma e' ancora piu' inquietante se analizzata dal punto di vista della "ragion pratica". Sia nel caso degli scudi umani che diventano tali contro la loro volonta' sia di quelli consenzienti, la potenza avversa che si determina a colpire ha, dunque, piena coscienza che si tratta o di civili innocenti oppure, in ogni caso, di civili che non possono evidentemente essere considerati come belligeranti a pieno titolo. La vita di persone che non sono armate e che non sono militari viene pertanto deliberatamente messa in gioco con lo spregio piu' totale del valore assoluto della vita umana, tanto piu' se si tratta di non-belligeranti. La logica applicata in questo caso e' di tipo strumentale, e per prima cosa viola il principio kantiano, al pari di coloro che utilizzano gli scudi umani "forzati", in base al quale occorre trattare ogni uomo come un fine e mai come un mezzo. E' indecente, inoltre, che molti auto-proclamati difensori della civilta' cristiana (o meglio, del cristianesimo ridotto a principio d'ordine ed a formula di "tradizione", astrattamente e falsamente "identitaria") giungano a giustificare la logica della soppressione degli scudi umani.
In definitiva, questi ultimi perderebbero la vita per un insieme di ragioni e circostanze a loro estranee: pagherebbero la "colpa" dei loro "sequestratori"; sarebbero considerati come vittime "tollerabili" nel contesto degli obiettivi ulteriori che la potenza attaccante si propone di conseguire; e, a rendere grottesca una situazione gia' tragica, sarebbero degradati da qualche benpensante professore di legge ad Harvard a casi di violazione dei diritti umani fortemente dubbi e non del tutto convincenti!
Tutto cio' non fa venir meno la realta' dell'assassinio, spesso consapevole e deliberato, di civili innocenti e comunque di persone alle quali non e' applicabile alcuna caratterizzazione di "belligeranti". Sarebbe come ritenere giusto che la polizia, intervenuta nel bel mezzo di una rapina in banca, spari senza pensarci due volte contro i rapinatori che si fanno "scudo" di un'anziana signora venuta a ritirare la sua pensione, uccidendola assieme ai malviventi. Anche questa, direbbe forse Dershowitz, a ben guardare sarebbe al limite una forma di "complicita'" con il crimine, per quanto involontaria, oggettivamente configurabile come un fastidioso (ed eliminabile) ostacolo alla giustizia!

Huntington e' morto a Natale, lo scontro di civilta' molto prima


Ho trovato ben fatta, sostanzialmente completa (pur nella sua estrema sinteticita') e nel complesso condivisibile quest'analisi di Fulvio Scaglione (del 28 dicembre 2008) del pensiero di Samuel Huntington, morto a Natale 2008, e teorico dello "scontro di civilta'".
"Uno dei più influenti scienziati della politica degli ultimi cinquant’anni”. Così l’economista Henry Rosovsky commenta, dal sito internet dell’Università di Harvard, la scomparsa, avvenuta proprio la vigilia di Natale, di Samuel P. Huntington, lo studioso noto per aver scritto un saggio che ha segnato un’epoca e il cui titolo è diventato presto proverbiale: Lo scontro delle civiltà. Huntington, che ha insegnato a Harvard dal 1949 al 2007, ebbe una carriera accademica lunghissima ed estremamente produttiva: recano la sua firma 17 volumi e più di 90 pubblicazioni scientifiche. A dargli la fama mondiale, però, fu un breve saggio pubblicato nel 1993 sulla rivista Foreign Affairs e nel 1996 trasformato in un più corposo volume: Lo scontro delle civiltà, appunto.
L’intuizione di Huntington era in effetti preziosa: il recupero delle identità religiose e culturali come criterio per l’analisi dei conflitti su scala globale. Un punto di vista inedito e sorprendente, dopo i decenni dell’infatuazione per l’economicismo marxista, ma reso di stringente attualità dalla quasi contemporanea scomparsa del comunismo, con tutti i conflitti etnici e nazionali che l’evento andava generando in Europa Centrale, Russia, Asia Centrale e Asia.
Proprio come Marx, però, anche Huntington ha finito per essere letto non per ciò che poteva suggerire (ed era molto) e portare alla discussione (moltissimo) ma per ciò che sembrava affermare in modo apodittico. Se prima vigeva il dogma “tutto è economia”, dopo l’uscita del suo libro entrò per molti invigore il dogma opposto: l’economia non conta nulla (e con essa la geografia), contano solo le bandiere della cultura e della fede. Ad Huntington non mancava certo la fiducia nelle proprie tesi. Ma un lettore non accecato dalla malafede stenterebbe assai a riconoscersi oggi, con l’umanità afflitta da un miliardo di affamati, in affermazioni come “l’identità culturale è per la gran parte degli uomini il valore primario”. L’evidente patriottismo wasp, inoltre, lo tramutò nell’alfiere del pensiero neocon e nel campione intellettuale della difesa della civiltà occidentale che indubbiamente, nei suoi libri, emergeva come la migliore e più degna tra tutte quelle in conflitto. Un elemento che divenne ancora più evidente in La nuova America, il suo ultimo grande libro (è del 2004), un’analisi che diremmo di stampo quasi “leghista” sui pericoli della società multiculturale e sull’appannamento, a causa dell’immigrazione, dell’identità americana, ovviamente anglosassone e protestante..
Nel ricordare Huntington e nel ripercorrere i saggi più noti e dibattuti, ci si accorge che la sua straordinaria intelligenza e il suo luciferino senso del tempo e della storia hanno sofferto di due problemi. Il primo, e il più grave, sono state le letture interessate. Così numerose e insistenti da far trascurare qualche “liscio” non proprio secondario. Per esempio diremmo ancora, oggi, che “la Russia sta creando un blocco costituito da un nucleo centrale ortodosso sotto la propria leadership e da un circostante cuscinetto di Stati islamici che essa controllerà in varia misura”? O che le relazioni tra Usa e Giappone sono destinate a essere conflittuali come quelle tra Usa e Cina?
Il secondo problema è il senso della sintesi che Huntington ha mostrato in ogni suo studio. Così spiccato ed efficace, così sapientemente manovrato e gestito, da indurre il lettore a considerarlo un affresco quando spesso era, invece, solo una stupenda fotografia. Per questo, alla fin fine, le analisi dello studioso americano si rivelano affascinanti nell’immediato ma fragili nel medio e lungo periodo. Diremmo ancora che il petrolio è una bazzecola, in Irak, rispetto all’autocoscienza culturale di sciiti, curdi e sunniti? E nell’anno di Obama quanto siamo disposti a credere che la mescolanza dei colori e delle razze renda meno spiccata e definita l’identità dell’America? Huntington, però, resterà un nome importante. Se non altro perché con il suo pensiero ha rappresentato in modo perfetto tutto il meglio e il peggio degli anni Novanta, uno dei decenni intellettualmente più turbolenti della storia contemporanea.

Abraham Yehoshua, la tregua ed oltre


Nel corso di una decina di giorni, la posizione dell'intellettuale Abraham Yehoshua sulla questione di Gaza ha fatto registrare punti di svolta molto significativi, connessi sia alla problematica umanitaria e sociale che alle tematiche politiche di prospettiva. Ho allineato qui di seguito i diversi interventi, partendo dal più recente, per alimentare una riflessione profonda sulla crisi in atto.

Tregua, subito
Abraham B.Yehoshua ("La Stampa", 6/1/2009)
Se abbiamo a cuore la nostra sopravvivenza futura non dobbiamo dimenticare una cosa fondamentale mentre è in corso l’operazione «Piombo fuso», così chiamata a citazione di una canzoncina di Hannukah che racconta di una piccola trottola.
Quella trottola, uno dei simboli della festività, è ricavata dal piombo fuso. Gaza non è il Vietnam, né l’Iraq, né l’Afghanistan, e non è nemmeno il Libano. È una regione che fa parte della patria comune a noi e ai palestinesi. Una patria che noi chiamiamo Israele e loro Palestina. A Gaza vivono un milione e mezzo di persone, membri di un popolo che conta un altro milione e trecentomila componenti in Israele e più di due milioni in Cisgiordania. Gli uomini e le donne di Gaza sono innanzi tutto nostri vicini e vivranno spalla a spalla con noi per sempre, anche se separati da una frontiera. Le nostre case e le nostre città sono a pochi chilometri di distanza dalle loro, i nostri campi lambiscono i loro. Gli uomini di Gaza, attivisti o poliziotti di Hamas che osserviamo attraverso binocoli militari, erano in passato attivisti o poliziotti di Al Fatah, nati a Gaza o giunti lì come profughi durante la guerra del 1948, o in altre guerre. Nel corso degli anni sono stati muratori nei nostri cantieri edili, lavapiatti in ristoranti dove abbiamo cenato, negozianti presso i quali abbiamo acquistato merci, operai nelle serre di Gush Katif, o altrove. Sono nostri vicini e lo saranno in futuro e questo ci impone di considerare con molta attenzione quale tipo di guerra combattiamo contro di loro, il suo carattere, la sua durata, la portata della sua violenza. Noi israeliani non abbiamo nessuna possibilità di estirpare il governo di Hamas a Gaza, come non avevamo nessuna possibilità di estirpare l’Olp dal popolo palestinese. Sharon e Begin arrivarono fino a Beirut, pagando un prezzo terribile e sanguinoso, per ottenere questo risultato. E che accadde? Sia Sharon sia Netanyahu sedettero a un tavolo con Arafat e i suoi rappresentanti per tentare di negoziare un accordo. E ora il vice del defunto leader palestinese, Abu Mazen, è ospite fisso e gradito presso di noi. Dobbiamo rendercene conto: gli arabi non sono creature metafisiche ma esseri umani, e gli esseri umani sono soggetti a cambiamenti. Anche noi cambiamo le nostre posizioni, mitighiamo le nostre opinioni, ci apriamo a nuove idee. Faremmo bene a levarci di testa al più presto l’illusione di poter annientare Hamas, di poterlo sradicare dalla Striscia di Gaza. Dobbiamo invece lavorare con cautela e buon senso per raggiungere un accordo ragionevole e dettagliato, una tregua rapida in vista di un cambiamento di Hamas. È possibile, è attuabile. È accaduto più volte nel corso della storia. Ma anche se cominceremo fin da oggi a lavorare a una tregua ci aspettano ancora giorni di guerra, di lanci di razzi. Almeno, però, avremo la consapevolezza di non combattere per un obiettivo irrealizzabile che porterà altro sangue e devastazione. Sangue e devastazione che peseranno sulla memoria collettiva dei figli dei nostri vicini i quali resteranno all’infinito tali, anche se la trottola continuerà a girare.
(Traduzione di A. Shomroni)

Yehoshua: "Non avevamo scelta, ma ora Israele deve fermarsi".
Intervista con l'inviata di "Repubblica", Francesca Caferri(2/1/2009)
Gerusalmemme - Da giorni Abraham Yehoshua guarda a quello che accade nella Striscia di Gaza con angoscia. "Non avevamo altra scelta", ripete dall'inizio lo scrittore israeliano a chi lo interroga. Non ha cambiato idea neanche ora che il numero delle vittime palestinesi ha raggiunto quota 400. "Ma - dice - se Hamas accetterà le condizioni per la tregua è il momento che Israele si fermi: i palestinesi saranno sempre i nostri vicini. E tempo di tornare a parlare: non in nome di Hamas ma della gente di Gaza".
Signor Yehoshua, come si esce da questo muro contro muro?
"Applicando a Gaza lo stesso modello del Libano. Se Hamas accetta di sospendere i lanci di razzi, si impegna a rispettare il cessate il fuoco e la comunità internazionale è pronta a mandare una forza che vigili sulla tregua e a farsi garante per una serie di condizioni che allevino la sofferenza di chi vive a Gaza, allora Israele deve accettare la tregua".
Crede che basterà una tregua a riportare la calma? I morti e le bombe non hanno già incrinato il già difficile rapporto fra gli israeliani e i palestinesi e fra gli arabi israeliani e il resto del paese?
"Gli arabi israeliani sono rimasti relativamente calmi. E i palestinesi di Cisgiordania secondo me in cuor loro sono felici per quello che sta accadendo ad Hamas. Soffrono per i loro fratelli di Gaza, ma non per Hamas. I palestinesi di Cisgiordania ricordano cosa è successo quando Hamas ha attaccato Fatah. Hamas vede i civili soffrire ma non chiede il cessate il fuoco, è un'organizzazione dotata di un fanatismo religioso tale che non gli permette di fermarsi. Hamas non è sola, ascolta qualcun altro: l'Iran. Non agisce nell'interesse della sua gente, non parla più di come risolvere il problema palestinese. Parla la lingua del fanatismo".
Lei dice che Hamas ha superato la linea. Ma sia le Nazioni Unite che la Croce rossa internazionale accusano Israele di aver dimenticato la Convezione di Ginevra. Non crede che anche Israele abbia passato il limite?
"Oggi come durante la guerra del 2006 in Libano non c'è una distinzione facile fra civili e combattenti. I missili sono nascosti nelle case dei civili. La maggior parte dei morti sono combattenti di Hamas: Israele sta provando a non fare vittime civili. Io sono contro l'azione di terra perché credo che porterebbe a un alto numero di vittime civili fra i palestinesi. Gli israeliani si preoccupano delle possibili vittime civili. Ma voglio ricordare che Hamas uccide solo civili israeliani".
Però da una parte ci sono 400 vittime e dall'altra quattro.
"Io so che le sofferenze della gente di Gaza sono maggiori di quelle che stanno vivendo oggi gli israeliani del sud. Ma non possiamo fare il paragone solo in questi termini. Non è il forte esercito di Israele contro le primitive armi di Hamas. Hamas è pronta a far soffrire la sua gente molto più di quanto Israele sia pronto a far soffrire i suoi cittadini. Pensiamo solo all'elemento suicida: lottare contro i terroristi suicidi è molto più difficile che combattere contro una società che ha scrupoli e si preoccupa dei civili. Ma ora, se Hamas garantisce che rispetterà la tregua, è tempo di fermarci: nessuno nel governo israeliano pensa davvero di poter rovesciare Hamas. E ci sono più di un milione di persone che soffrono. Se si fermeranno avremmo raggiunto l'obiettivo".
Non crede che la tregua potrebbe essere violata in tempi brevi?
"Io non credo. Se garantiremo l'accesso a Gaza e la comunità internazionale vigilerà sulla tregua alla fine di questa offensiva ci saranno condizioni migliori da entrambi i lati del confine. Basta razzi. E basta isolamento: i lavoratori palestinesi potrebbero tornare in Israele, potremmo tornare a cooperare, come in passato. Non in nome di Hamas, ma in non nome della gente di Gaza. E se violassero ancora la tregua, sanno cosa farebbe Israele".


Gaza: Intervento di Abraham B. Yehoshua (1/1/2009)
Ciò che sta avvenendo in queste ore nella Striscia di Gaza era quasi inevitabile. La brutalità con cui Hamas ha posto fine alla tregua non ha lasciato altra scelta a Israele.
Se non quella di ricorrere alla forza per porre fine ai massicci lanci di razzi (una settantina al giorno) sulle comunità civili nel Sud del Paese. Ma, per quanto la distruzione di centri di comando militari e l’eliminazione di alcuni capi di Hamas possa risultare efficace, la tranquillità non sarà ristabilita se Israele non proporrà subito generose condizioni per una nuova e prolungata tregua. Oltre a trattative indirette per una rinnovata interruzione delle ostilità le autorità israeliane dovrebbero rivolgersi ai cittadini della Striscia di Gaza, lanciar loro un appello che provenga direttamente dal cuore. Dichiarazioni ufficiali non mancano, ma mai i leader israeliani si sono rivolti alla popolazione palestinese. Ciò che io propongo qui è un appello che il primo ministro Olmert dovrebbe rivolgere con urgenza proprio ora, mentre il fuoco divampa su entrambi i lati del confine, agli abitanti della Striscia di Gaza. Mi rivolgo a voi, residenti di Gaza, in nome di tutta la popolazione israeliana.
A voi, uomini e donne, commercianti, operai, insegnanti, casalinghe, pescatori. Gente di città e di paese, residenti in villaggi e in campi profughi. Prima che vi siano nuovi spargimenti di sangue, prima che altri, voi o noi, conoscano devastazione e dolore, vi prego di darmi ascolto. Vi chiedo di far cessare la violenza, di aiutarmi a convincere i vostri leader che ci sono altri modi per stabilire rapporti di buon vicinato. Le nostre città sono contigue alle vostre. Dietro il reticolato che le separa vediamo operai e contadini che lavorano la terra, camion che trasportano merci, bambini che vanno a scuola. E lo stesso è per voi. Potete scorgere facilmente i nostri agricoltori nei campi, i bambini che vanno a scuola, le casalinghe che escono a fare la spesa. Saremo vicini in eterno, le cose non cambieranno. Voi non riuscirete a cacciarci da qui, a cancellare la nostra esistenza, e nemmeno noi la vostra (e neppure lo vogliamo). Per parecchi anni abbiamo mantenuto rapporti attivi. I vostri operai arrivavano a lavorare nelle nostre fabbriche, nei nostri campi. Non solo in centri a voi vicini ma anche nelle grandi città - a Tel Aviv, a Gerusalemme, a Natanya. I nostri commercianti e industriali si recavano da voi per acquistare prodotti agricoli, erigere nuove fabbriche alla periferia di Gaza. Per parecchi anni abbiamo mantenuto un articolato sistema di scambi che ha portato beneficio a entrambe le parti. Tre anni fa abbiamo evacuato i nostri concittadini, smantellato le nostre basi militari e raso al suolo, su vostra richiesta, i pochi insediamenti che avevamo nella Striscia di Gaza. L’occupazione di quella regione è completamente cessata. Ci siamo ritirati oltre il confine internazionale riconosciuto da tutto il mondo: quello antecedente la guerra del 1967. Credevamo che dopo questo sarebbe iniziato un periodo di sviluppo e di ricostruzione. Che avreste ricostituito un sistema amministrativo e che, un giorno, a tempo debito, vi sareste ricollegati, tramite un corridoio sicuro, ai vostri confratelli in Cisgiordania per creare uno Stato palestinese indipendente che noi tutti crediamo e vogliamo che sorga e che ci siamo impegnati a riconoscere in ambito internazionale. Ma anziché l’agognata tranquillità sono arrivati razzi che hanno seminato distruzione e morte nelle nostre città e nei nostri villaggi. Anziché opere di edilizia e di ricostruzione abbiamo assistito a un riarmo senza precedenti. E quelle armi sono state puntate contro di noi.
C’è tra voi chi ci spara addosso razzi e granate in cambio di somme di denaro elargite da Stati e organizzazioni che vogliono la nostra distruzione. E voi, gente di Gaza, pagate le conseguenze delle nostre reazioni con la sofferenza e la distruzione delle vostre case. Non vogliamo combattervi, non vogliamo tornare a governarvi. Ce ne siamo andati per non tornare più. Sappiamo che sarete voi, civili innocenti, donne e bambini, residenti dei campi profughi, operai e commercianti, a pagare il prezzo di un’eventuale, malaugurata guerra. Ma dovete capite che non abbiamo scelta. Non possiamo continuare a sopportare i lanci di razzi Qassam sui nostri cittadini indifesi. Sta a voi, cittadini di Gaza, appellarvi ai vostri governanti perché mettano fine al lancio di razzi e accettino una vera tregua, prolungata, durante la quale verranno aperti i valichi di confine, sarà permesso il passaggio di merci e, col tempo, gli operai di Gaza potranno tornare a lavorare in Israele. Invece di manifestare a favore di irrealizzabili sogni di distruzione e di vendetta, uscite nelle strade e chiedete la fine della violenza, chiedete che i vostri figli, e i nostri, possano vivere sicuri su entrambi i lati del confine. Chiedete la vita e non la morte.

L'umanita' multiculturale


Leggo nel bel libro di Carlo Galli, L'umanita' multiculturale, questa esauriente enunciazione del dilemma particolare/universale, locale/globale, identita'/differenza:
(...) L'eta' globale e' l'eta' della mobilitazione globale, in cui l'umanita' puo' essere prodotta e immaginata solo come universale critica degli universalismi non critici e, allo stesso titolo, dei particolarismi tribali. Quali configurazioni storico-politiche questa critica assumera', non lo sappiamo; cio' che sappiamo e' che l'alternativa all'umanita' multiculturale, a un nuovo rapporto concreto fra particolare e universale, e' il conflitto fra le culture, lo scontro di civilta', ossia il trionfo armato del biopotere come potere di morte. E' contro questa prospettiva di guerra globale, di guerra perpetua, di guerra senza frontiere, di guerra di tutti contro tutti, che oggi l'umanita' piu' che un dovere e' una sfida. La sfida di dare un volto umano all'umanesimo; di stare nella contingenza secondo la modalita' di un conflitto che, per quanto reale, non sia distruttivo ma sia anche un "prendersi cura" di Se' e dell'Altro; di esprimere una passione per l'uomo non inutile ma tanto sapiente da consentire che attraverso di essa si salvi l'umanita' nella concretezza e nella differenza delle creature e degli individui, e che la natura umana non sia piu' stravolta dall'ostilita' verso se' stessa e verso la natura del mondo.

Una lettera su Gaza

di Mustafa Barghouthi con Francesca Borri

Uno scritto provocatorio, forte, denso di dolore e di polemica, condivisibile o contestabile, ma che, come dicono gli americani, rappresenta "food for thought".

Ramallah, 27 dicembre 2008
E leggerò domani, sui vostri giornali, che a Gaza è finita la tregua. Non era un assedio dunque, ma una forma di pace, quel campo di concentramento falciato dalla fame e dalla sete. E da cosa dipende la differenza tra la pace e la guerra? Dalla ragioneria dei morti? E i bambini consumati dalla malnutrizione, a quale conto si addebitano? Muore di guerra o di pace, chi muore perché manca l’elettricità in sala operatoria? Si chiama pace quando mancano i missili - ma come si chiama, quando manca tutto il resto?

E leggerò sui vostri giornali, domani, che tutto questo è solo un attacco preventivo, solo legittimo, inviolabile diritto di autodifesa. La quarta potenza militare al mondo, i suoi muscoli nucleari contro razzi di latta, e cartapesta e disperazione. E mi sarà precisato naturalmente, che no, questo non è un attacco contro i civili - e d’altra parte, ma come potrebbe mai esserlo, se tre uomini che chiacchierano di Palestina, qui all’angolo della strada, sono per le leggi israeliane un nucleo di resistenza, e dunque un gruppo illegale, una forza combattente? - se nei documenti ufficiali siamo marchiati come entità nemica, e senza più il minimo argine etico, il cancro di Israele? Se l’obiettivo è sradicare Hamas - tutto questo rafforza Hamas. Arrivate a bordo dei caccia a esportare la retorica della democrazia, a bordo dei caccia tornate poi a strangolare l’esercizio della democrazia - ma quale altra opzione rimane? Non lasciate che vi esploda addosso improvvisa. Non è il fondamentalismo, a essere bombardato in questo momento, ma tutto quello che qui si oppone al fondamentalismo. Tutto quello che a questa ferocia indistinta non restituisce gratuito un odio uguale e contrario, ma una parola scalza di dialogo, la lucidità di ragionare il coraggio di disertare - non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altra Palestina, terza e diversa, mentre schiva missili stretta tra la complicità di Fatah e la miopia di Hamas. Stava per assassinarmi per autodifesa, ho dovuto assassinarlo per autodifesa - la racconteranno così, un giorno i sopravvissuti.

E leggerò sui vostri giornali, domani, che è impossibile qualsiasi processo di pace, gli israeliani, purtroppo, non hanno qualcuno con cui parlare. E effettivamente - e ma come potrebbero mai averlo, trincerati dietro otto metri di cemento di Muro? E soprattutto - perché mai dovrebbero averlo, se la Road Map è solo l’ennesima arma di distrazione di massa per l’opinione pubblica internazionale? Quattro pagine in cui a noi per esempio, si chiede di fermare gli attacchi terroristici, e in cambio, si dice, Israele non intraprenderà alcuna azione che possa minare la fiducia tra le parti, come - testuale - gli attacchi contro i civili. Assassinare civili non mina la fiducia, mina il diritto, è un crimine di guerra non una questione di cortesia. E se Annapolis è un processo di pace, mentre l’unica mappa che procede sono qui intanto le terre confiscate, gli ulivi spianati le case demolite, gli insediamenti allargati - perché allora non è processo di pace la proposta saudita? La fine dell’occupazione, in cambio del riconoscimento da parte di tutti gli stati arabi. Possiamo avere se non altro un segno di reazione? Qualcuno, lì, per caso ascolta, dall’altro lato del Muro?

Ma sto qui a raccontarvi vento. Perché leggerò solo un rigo domani, sui vostri giornali e solo domani, poi leggerò solo, ancora, l’indifferenza. Ed è solo questo che sento, mentre gli F16 sorvolano la mia solitudine, verso centinaia di danni collaterali che io conosco nome a nome, vita a vita - solo una vertigine di infinito abbandono e smarrimento. Europei, americani e anche gli arabi - perché dove è finita la sovranità egiziana, al varco di Rafah, la morale egiziana, al sigillo di Rafah? - siamo semplicemente soli. Sfilate qui, delegazione dopo delegazione - e parlando, avrebbe detto Garcia Lorca, le parole restano nell’aria, come sugheri sull’acqua. Offrite aiuti umanitari, ma non siamo mendicanti, vogliamo dignità libertà, frontiere aperte, non chiediamo favori, rivendichiamo diritti. E invece arrivate, indignati e partecipi, domandate cosa potete fare per noi. Una scuola?, una clinica forse? delle borse di studio? E tentiamo ogni volta di convincervi - no, non la generosa solidarietà, insegnava Bobbio, solo la severa giustizia - sanzioni, sanzioni contro Israele. Ma rispondete - e neutrali ogni volta, e dunque partecipi dello squilibrio, partigiani dei vincitori - no, sarebbe antisemita. Ma chi è più antisemita, chi ha viziato Israele passo a passo per sessant’anni, fino a sfigurarlo nel paese più pericoloso al mondo per gli ebrei, o chi lo avverte che un Muro marca un ghetto da entrambi i lati? Rileggere Hannah Arendt è forse antisemita, oggi che siamo noi palestinesi la sua schiuma della terra, è antisemita tornare a illuminare le sue pagine sul potere e la violenza, sull’ultima razza soggetta al colonialismo britannico, che sarebbero stati infine gli inglesi stessi? No, non è antisemitismo, ma l’esatto opposto, sostenere i tanti israeliani che tentano di scampare a una nakbah chiamata sionismo. Perché non è un attacco contro il terrorismo, questo, ma contro l’altro Israele, terzo e diverso, mentre schiva il pensiero unico stretto tra la complicità della sinistra e la miopia della destra.

So quello che leggerò, domani, sui vostri giornali. Ma nessuna autodifesa, nessuna esigenza di sicurezza. Tutto questo si chiama solo apartheid - e genocidio. Perché non importa che le politiche israeliane, tecnicamente, calzino oppure no al millimetro le definizioni delicatamente cesellate dal diritto internazionale, il suo aristocratico formalismo, la sua pretesa oggettività non sono che l’ennesimo collateralismo, qui, che asseconda e moltiplica la forza dei vincitori. La benzina di questi aerei è la vostra neutralità, è il vostro silenzio, il suono di queste esplosioni. Qualcuno si sentì berlinese, davanti a un altro Muro. Quanti altri morti, per sentirvi cittadini di Gaza?

Time for diplomacy

By Haaretz Editorial

After eight days of fighting in Gaza, it is still difficult to ascertain whether general goals have been achieved, and whether we have reached a strategic turning point. The assassination of senior Hamas officials, the partial destruction of tunnels and the bombing of buildings used by the Hamas leadership have not stopped the rocket fire on Israel, nor have they prompted Hamas to announce a policy change. The need to present an achievement has compelled the civilian leadership to add a ground campaign to the aerial onslaught. After being repeatedly postponed last week, a ground campaign was launched last night. Those who back the operation are already imagining Hamas collapsing, its leadership fleeing or killed, and house-to-house searches for weapons to be destroyed. After the operation, Gaza would be returned to Palestinian Authority control, purged of terrorism - the Lebanon dream realized in Gaza. This is what these people believe. It would be best to cut this dream short before it turns into a dragged-out nightmare, and to limit the ground operation to more modest goals. The ground operation's enthusiasts were boosted by U.S. President George W. Bush in his remarks two days ago. Bush expressed understanding for Israel's need to defend itself, and even characterized the war in Gaza as a war on terror. They can also seemingly grab onto Egypt's criticism of Hamas. Yet Israel's problem is not the legitimacy of the war, but the increasingly growing legitimacy of Hamas. This legitimacy is not intrinsic to Israel's battle for public opinion, but to Israel's solidifying image as a regional bully. Some here are still convinced that the bully image is good for deterrence, but this image has yet to help prevent war. On the other hand, we may now be seeing an opportunity to conclude the war diplomatically. A number of proposals are on the table, including those by Egypt, Turkey and the UN secretary general. In addition, the French offer of a humanitarian cease-fire, which would allow Gaza to receive hospital supplies, food and fuel shipments, still stands. It will not hamper Israel's military or diplomatic capabilities to consider these proposals seriously. They are even likely to bring Israel the important achievement it has been seeking: a change in the security situation on the Gaza border.
This is the time to move from war to diplomacy. After a week of aerial activity, we cannot let a ground operation deepen, prolong and complicate the chances for a quick end to the operation.