Ho trovato ben fatta, sostanzialmente completa (pur nella sua estrema sinteticita') e nel complesso condivisibile quest'analisi di Fulvio Scaglione (del 28 dicembre 2008) del pensiero di Samuel Huntington, morto a Natale 2008, e teorico dello "scontro di civilta'".
"Uno dei più influenti scienziati della politica degli ultimi cinquant’anni”. Così l’economista Henry Rosovsky commenta, dal sito internet dell’Università di Harvard, la scomparsa, avvenuta proprio la vigilia di Natale, di Samuel P. Huntington, lo studioso noto per aver scritto un saggio che ha segnato un’epoca e il cui titolo è diventato presto proverbiale: Lo scontro delle civiltà. Huntington, che ha insegnato a Harvard dal 1949 al 2007, ebbe una carriera accademica lunghissima ed estremamente produttiva: recano la sua firma 17 volumi e più di 90 pubblicazioni scientifiche. A dargli la fama mondiale, però, fu un breve saggio pubblicato nel 1993 sulla rivista Foreign Affairs e nel 1996 trasformato in un più corposo volume: Lo scontro delle civiltà, appunto.
L’intuizione di Huntington era in effetti preziosa: il recupero delle identità religiose e culturali come criterio per l’analisi dei conflitti su scala globale. Un punto di vista inedito e sorprendente, dopo i decenni dell’infatuazione per l’economicismo marxista, ma reso di stringente attualità dalla quasi contemporanea scomparsa del comunismo, con tutti i conflitti etnici e nazionali che l’evento andava generando in Europa Centrale, Russia, Asia Centrale e Asia.
Proprio come Marx, però, anche Huntington ha finito per essere letto non per ciò che poteva suggerire (ed era molto) e portare alla discussione (moltissimo) ma per ciò che sembrava affermare in modo apodittico. Se prima vigeva il dogma “tutto è economia”, dopo l’uscita del suo libro entrò per molti invigore il dogma opposto: l’economia non conta nulla (e con essa la geografia), contano solo le bandiere della cultura e della fede. Ad Huntington non mancava certo la fiducia nelle proprie tesi. Ma un lettore non accecato dalla malafede stenterebbe assai a riconoscersi oggi, con l’umanità afflitta da un miliardo di affamati, in affermazioni come “l’identità culturale è per la gran parte degli uomini il valore primario”. L’evidente patriottismo wasp, inoltre, lo tramutò nell’alfiere del pensiero neocon e nel campione intellettuale della difesa della civiltà occidentale che indubbiamente, nei suoi libri, emergeva come la migliore e più degna tra tutte quelle in conflitto. Un elemento che divenne ancora più evidente in La nuova America, il suo ultimo grande libro (è del 2004), un’analisi che diremmo di stampo quasi “leghista” sui pericoli della società multiculturale e sull’appannamento, a causa dell’immigrazione, dell’identità americana, ovviamente anglosassone e protestante..
Nel ricordare Huntington e nel ripercorrere i saggi più noti e dibattuti, ci si accorge che la sua straordinaria intelligenza e il suo luciferino senso del tempo e della storia hanno sofferto di due problemi. Il primo, e il più grave, sono state le letture interessate. Così numerose e insistenti da far trascurare qualche “liscio” non proprio secondario. Per esempio diremmo ancora, oggi, che “la Russia sta creando un blocco costituito da un nucleo centrale ortodosso sotto la propria leadership e da un circostante cuscinetto di Stati islamici che essa controllerà in varia misura”? O che le relazioni tra Usa e Giappone sono destinate a essere conflittuali come quelle tra Usa e Cina?
Il secondo problema è il senso della sintesi che Huntington ha mostrato in ogni suo studio. Così spiccato ed efficace, così sapientemente manovrato e gestito, da indurre il lettore a considerarlo un affresco quando spesso era, invece, solo una stupenda fotografia. Per questo, alla fin fine, le analisi dello studioso americano si rivelano affascinanti nell’immediato ma fragili nel medio e lungo periodo. Diremmo ancora che il petrolio è una bazzecola, in Irak, rispetto all’autocoscienza culturale di sciiti, curdi e sunniti? E nell’anno di Obama quanto siamo disposti a credere che la mescolanza dei colori e delle razze renda meno spiccata e definita l’identità dell’America? Huntington, però, resterà un nome importante. Se non altro perché con il suo pensiero ha rappresentato in modo perfetto tutto il meglio e il peggio degli anni Novanta, uno dei decenni intellettualmente più turbolenti della storia contemporanea.