«La sicurezza e il benessere di ogni americano dipendono dalla sicurezza e dal benessere di coloro che vivono fuori dalle nostre frontiere».Con questa semplice constatazione, quasi banale se non fosse che giunge dopo anni di esagerazioni «unilaterali», il neopresidente eletto degli Stati Uniti propone un riequilibrio sostanziale della politica estera americana. L’idea che Obama pone alla base del suo programma per le relazioni internazionali è che «l’America non può affrontare da sola le minacce di questo secolo e il mondo non le può affrontare senza l’America». Si direbbe una sorta di “Dichiarazione di interdipendenza”, per usare la felice espressione del politologo americano Benjamin Barber. Su tutti i principali problemi dello scenario internazionale, l’obiettivo di Obama è ricostruire un ruolo guida degli Stati Uniti, ma a partire dalla condivisione degli obiettivi e dei metodi, a partire dall’esempio, e non sulla base di priorità stabilite a Washington e poi presentate al resto del mondo con la logica del “prendere o lasciare”. Per il nuovo presidente, è la diplomazia, è la politica che deve essere al centro dell’iniziativa internazionale degli Stati Uniti, utilizzando – e non scalzando – le istituzioni multilaterali come l’Onu. Le Nazioni Unite non saranno perfette, ma non possono certo essere “accantonate” come ha fatto in momenti cruciali l’amministrazione Bush (per l’Iraq, ad esempio) o come il candidato McCain (peraltro assai ponderato in materia di politica estera) si proponeva di fare creando un’organizzazione parallela, con regole incerte, come la “Lega delle democrazie”. Intendiamoci, Obama non esclude l’uso della forza per la soluzione delle crisi internazionali, ma certamente non come alternativa alla diplomazia e non al di fuori delle regole multilaterali. Il nuovo presidente raccoglie la drammatica eredità di due guerre in cui l’America è impegnata, in Iraq e in Afghanistan. La sua opposizione all’intervento militare in Iraq risale al 2002, ma Obama guiderà il disimpegno delle truppe americane in modo ordinato e senza fughe in avanti che possano pregiudicare la fragile situazione del Paese tra i due fiumi. Per l’Afghanistan, è abbastanza semplicistico far credere che Obama chiederà semplicemente “più soldati” per sconfiggere i talebani. Per trovare una via d’uscita, occorre riformulare l’intera strategia della comunità internazionale in Afghanistan, precisando anzitutto gli obiettivi politici, affinando i termini di un intervento che, per avere successo, deve contare sul sostegno convinto della popolazione afghana e non, riduttivamente, sulle incursioni militari. In sintesi, più idee, non solo muscoli. Nell’area mediorientale, Obama dovrà affrontare il delicatissimo tema del programma nucleare iraniano.
Anche in questo caso, la strada che Obama indica è quella della diplomazia, che non significa certo accondiscendenza. Un Iran dotato di armi nucleari è una prospettiva inaccettabile, ed è un incubo per l’intera regione. Il neoeletto presidente è a favore di un negoziato con Teheran senza precondizioni, ma prospetta anche misure di isolamento politico ed economico dell’Iran se non riscontrerà la volontà di giungere ad una soluzione di compromesso. Ma l’obiettivo caratterizzante della politica estera di Obama consisterà nell’impresa, non certo facile, di ricostruire intorno all’America quel clima di fiducia che soprattutto la guerra in Iraq e la politica della “esportazione della democrazia” ha vanificato in molte parti del mondo, a cominciare dai Paesi arabi. Un modo per ricomporre questo rapporto incrinato consiste nel dare subito priorità alla soluzione del conflitto israelopalestinese. Ci aveva provato anche Bush, ma tardivamente e senza incisività. Ora Obama si ripromette di spendere il suo “impegno personale”, fin dall’inizio, per raggiungere l’obiettivo, troppo lungamente atteso, di due Stati (Israele e Palestina) che vivano fianco a fianco in pace e in sicurezza.