Gia' visto


Il seguente testo - segnalatomi da amici - è tratto da una relazione per il Congresso degli Stati Uniti sugli immigrati italiani negli USA, e risale all'ottobre del 1912. Sono argomenti che suonano tristemente familiari. Specie per quanto riguarda le condizioni di vita degli immigrati e la marcata "ossessione securitaria". Ricordare che questi parametri di giudizio venivano applicati agli Italiani costretti ad emigrare per necessita' in America puo' aiutarci a "capire" meglio il fenomeno dell'immigrazione in Italia, al di la' della retorica e delle strumentalizzazioni politiche di parte.
Generalmente sono di piccola statura e di pelle scura. Non amano l’acqua, molti di loro puzzano perchè tengono lo stesso vestito per molte settimane. Si costruiscono baracche di legno ed alluminio nelle periferie delle città dove vivono, vicini gli uni agli altri. Quando riescono ad avvicinarsi al centro affittano a caro prezzo appartamenti fatiscenti. Si presentano di solito in due e cercano una stanza con uso di cucina. Dopo pochi giorni diventano quattro, sei, dieci. Tra loro parlano lingue a noi incomprensibili, probabilmente antichi dialetti (...) Molti bambini vengono utilizzati per chiedere l’elemosina ma sovente davanti alle chiese donne vestite di scuro e uomini quasi sempre anziani invocano pietà, con toni lamentosi e petulanti. Fanno molti figli che faticano a mantenere e sono assai uniti tra di loro. Dicono che siano dediti al furto e, se ostacolati, violenti. Le nostre donne li evitano non solo perché poco attraenti e selvatici ma perché si è diffusa la voce di alcuni stupri consumati dopo agguati in strade periferiche quando le donne tornano dal lavoro.(...)I nostri governanti hanno aperto troppo gli ingressi alle frontiere ma, soprattutto, non hanno saputo selezionare tra coloro che entrano nel nostro paese per lavorare e quelli che pensano di vivere di espedienti o, addirittura, attività criminali.(...) Propongo che si privilegino i veneti e i lombardi, tardi di comprendonio e ignoranti ma disposti più di altri a lavorare. Si adattano ad abitazioni che gli americani rifiutano pur che le famiglie rimangano unite e non contestano il salario. Gli altri, quelli ai quali è riferita gran parte di questa prima relazione, provengono dal sud dell’Italia.(....) Vi invito a controllare i documenti di provenienza e a rimpatriare i più. La nostra sicurezza deve essere la prima preoccupazione.

Il dramma iraniano tra democrazia e diplomazia

Due le verità che emergono dal drammatico esito delle elezioni iraniane. In primo luogo, l'Iran non sarà più come prima. Per quanto si trattasse di una una oligarchia o, meglio, di una democrazia sotto tutela, la forma di governo in Iran non era qualificabile né come regime né come dittatura. Ora non é più così e la clerico-crazia di Teheran si è trasformata in una forma di autoritarismo politico-militare. Sinora il sistema politico a Teheran si fondava su una "doppia legittimità": da una parte, l'Autorità religiosa della "guida suprema", che si presentava come garanzia di unità nazionale della Repubblica islamica, ultima istanza del potere e punto di riferimento più o meno imparziale; dall'altra, il Presidente poteva vantare, in quanto Autorità politica, l'investitura popolare, sia pure ottenuta attraverso elezioni non soggette a controlli esterni e quindi non completamente libere (basti pensare che, nel caso delle elezioni parlamentari, si possono presentare solo candidati previamente "autorizzati"). Entrambi questi riferimenti sono ora venuti meno. La Guida Suprema, Khamenei, nell'avallare con una certa fretta un risultato elettorale che tutti gli analisti giudicano quanto meno alterato, ha fatto una precisa scelta di campo, e appare piu' difficile per lui presentarsi come il custode della "comune" Repubblica islamica al di sopra delle parti. Anche il presunto "vincitore"' Ahmadinejad (a lui si applica forse per davvero quello che per scherzo si sussurrava dopo la controversa elezione di George Bush nel primo mandato, e cioè che fosse "il più ineletto dei Presidenti") esce - per dire il meno - azzoppato da questa triste e per molti versi tragica vicenda: al più può essere consideato, ora, il Capo di una fazione (peraltro pesantemente armata), non certo un Presidente dotato del sostegno della grande maggioranza del Paese. Inoltre le palesi e gravissime violazioni dei diritti umani fondamentali, perpetrate dalla milizia dei Basiji contro manifestanti inermi, trasformano la classe dirigente iraniana in un potenziale problema per lo stesso popolo iraniano. Se anche per ipotesi remota le elezioni presidenziali iraniane fossero state regolari, rimarrebbe il fatto i miliziani hanno attaccato la folla e basterebbe questo a dimostrare che a trent'anni dalla rivoluzione islamica è avvenuta una mutazione strutturale nel rapporto tra società e istituzioni, che cambia in peggio e forse per sempre il delicato e precario equilibrio che aveva sinora sostanzialmente tenuto. A tutto questo va aggiunto che mutano di conseguenza anche i termini del rapporto di Teheran con la comunità internazionale. Sarà più difficile per tutti, ed in primo luogo per l'Amministrazione Obama, far finta di nulla e proseguire sulla strada del dialogo. I segnali che provengono da Teheran, che utilizza la trita retorica del presunto complotto internazionale per giustificare una repressione sanguinosa e senza precedenti nella storia della Repubblica islamica, sono tutt'altro che incoraggianti. Politica interna e politica estera sono sempre di più facce di una stessa medaglia. Questo vale per l'Iran, ma vale anche - in termini ovviamente diversi - per Obama, sotto pressione da parte di un Congresso e di un'opinione pubblica giustamente indignati. Tuttavia non bisogna dimenticare che l'Iran persegue un programma nucleare dai contorni niente affatto chiari, e capire quali siano le reali intenzioni dei mullah su questo punto rimane un tema prioritario per la sicurezza di tutta l'area e per gli equilibri mondiali. Ancora una volta, il problema è riuscire a bilanciare le ragioni della diplomazia con quelle della democrazia. Non è più tempo di riproporre la metafora mitologica proposta dal politologo americano Kagan, e cioè Marte (la forza militare) contro Venere (il dialogo). Se volessimo insistere sulle immagini mitologiche, dovremmo forse dire - come ha affermato il diplomatico Roberto Toscano - che ora il riferimento è Minerva, la saggezza. O meglio, la capacità di cogliere tutte le residue opportunità ancora aperte per puntare alla pace, ma con voce ferma e senza compromessi al ribasso dettati dalla "realpolitik".

Trattatello di moralita’ (politica e non)

Alcuni estratti (di ordine generale, di validita’ universale) da “Famiglia Cristiana”. Principi elementari, validi per ogni esponente politico, ad ogni latitudine, in Oriente e Occidente, in una societa’ laica o in sistemi socio-politici di matrice religiosa, nei Paesi nordici come in quelli mediterranei, per l' “identita’ cristiana” come per la cultura islamica (non "islamista").
[...] Che esempio si dà alle giovani generazioni con comportamenti "gaudenti e libertini", o se inculchiamo loro i valori del successo, dei soldi, del potere: traguardi da raggiungere a ogni costo, anche tramite scorciatoie e strade poco limpide? [...] Oggi il Paese più che di polveroni e distrazioni, necessita di maggiore sobrietà, coerenza e rispetto delle regole. E, soprattutto, chiarezza. Non solo a parole, ma concretamente, con i fatti. [...] Non basta la legittimazione del voto popolare o la pretesa del "buon governo" per giustificare qualsiasi comportamento, perché con Dio non è possibile stabilire un "lodo", tanto meno chiedergli l’"immunità morale". La morale è uguale per tutti: più alta è la responsabilità, più si ha il dovere del buon esempio. E della coerenza, che è ancora una virtù, e dà credibilità alle persone e alle loro azioni. Il problema dell’esempio personale è inscindibile per chiunque accetta una carica pubblica.[....] L’autorità senza esemplarità di comportamenti non ha alcuna autorevolezza e forza morale. È pura ipocrisia o convenienza di interessi privati. Chi esercita il potere, anche con un ampio consenso di popolo, non può pretendere una "zona franca" dall’etica. Né pensare di barattare la morale con promesse di leggi favorevoli alla Chiesa: è il classico "piatto di lenticchie", da respingere al mittente. Parlando di De Gasperi, grande statista trentino, Benedetto XVI l’ha indicato come modello di moralità per i governanti: «Il ricordo della sua esperienza di governo e della sua testimonianza cristiana siano di incoraggiamento e stimolo per coloro che reggono le sorti dell’Italia, specialmente per quanti si ispirano al Vangelo». «De Gasperi», ha aggiunto il Papa, «è stato autonomo e responsabile nelle sue scelte politiche, senza servirsi della Chiesa per fini politici e senza mai scendere a compromessi con la sua retta coscienza».[Antonio Sciortino]

Il senso dell' "engagement"


Alcuni studiosi americani di relazioni internazionali, a commento della questione complessa e spinosa del "dialogo" con l'Iran (direi meglio, del "negoziato": si negozia con tutti, anche con i sequestratori e rapinatori asserragliati in una banca; meno evidente "dialogare" con tutti, cioe' argomentare in modo costruttivo, anche perche' dipende dall'interlocutore) in una situazione che e' divenuta tragica per i diritti umani nel Paese, mi hanno ricordato due casi tratti dalla storia americana. Il primo riguarda Franklin Delano Roosevelt, che negli anni '30 decise in modo unilaterale e contro l'opinione dei suoi piu' stretti consiglieri di aprire una linea di comunicazione con l'Unione Sovietica di Stalin, nell'ora peggiore dei gulag, dei processi-farsa e delle esecuzioni indiscriminate. Il secondo riguarda Nixon, il discusso Presidente che negli anni '70 apri' al dialogo con Pechino nel momento peggiore della rivoluzione culturale e dell'apice della repressione. Il punto e' che gli autocrati ed i regimi autoritari di tutte le forme ed in tutte le latitudini non sognano altro che "essere isolati", vale a dire essere lasciati in pace e liberi di fare i loro comodi. Non amano affatto essere "engaged", cioe' impegnati un negoziati, colloqui, contatti (casomai preferiscono essere criticati ed attaccati per poter gridare al "complotto internazionale" ed appellarsi a ragioni scioviniste). Ed e' questo gia' un merito del tanto criticato "dialogo". Un altro suo merito e' che l'alternativa ad esso o rischia di non funzionare (come nel caso delle sanzioni, che raramente sono davvero globali - cioe' riguardano tutti i settori - ed universali - cioe' applicate veramente da tutti senza eccezioni, espedienti, scappatoie; senza considerare che spesso sono anche fuori tiro, perche' colpiscono chi non c'entra, cioe' la popolazione civile e le sue condizioni di vita); oppure rischia di essere l'ecatombe (una guerra "regionale" che in quella regione - il Medio Oriente allargato - non potrebbe che essere anche "generale").

Il dialogo, "arma strategica"

Ad un convegno sull’Iran l’Ambasciatore Roberto Toscano (www.robertotoscano.org), che e’ stato titolare dell’Ambasciata a Teheran ed e’ ora in India, ha detto alcune profonde verita’ sul dialogo. Semplici constatazioni, ma che hanno difficolta’ ad emergere perche’ troppo spesso annegate nel turbinio delle polemiche e nei giudizi trancianti dei cosiddetti “realisti” delle relazioni internazionali. Toscano ha affermato che il dialogo non e’ una gentile concessione che si fa all’avversario, ma una scelta politica deliberata, compiuta perche’ coincide con un preciso interesse (nazionale o internazionale). Si dialoga per uscire da un vicolo cieco, per evitare un conflitto, per risolvere un contenzioso. Non e’questa l’essenza della diplomazia? Ma il dialogo e’ anche un’arma strategica. Solo in apparenza, infatti, il dialogo rafforza gli interlocutori “malvagi”, come i sistemi autoritari, dittatoriali, illiberali. In realta’ il dialogo rovescia i regimi, assai piu’ delle “guerre preventive”. Quanto accade a Teheran rappresenta la percezione esatta che i fautori dello status quo hanno del dialogo, considerato come una possibile, pericolosa crepa per la struttura del potere. Toscano ha menzionato la Conferenza di Helsinki del 1975, che sfocio’ piu’ tardi nella creazione dell’Organizzazione per la Sicurezza e la Cooperazione in Europa (OSCE). Anche allora gli “iper-realisti” sostenevano che la Conferenza avrebbe rappresentato il piu’ grande favore che si potesse fare all’Unione Sovietica (Toscano ha lavorato anche all’Ambasciata a Mosca in quegli anni), che ne avrebbe tratto un vantaggio politico-diplomatico. La Conferenza, secondo questa prospettiva, avrebbe consentito la permanenza dell’URSS per molto altro tempo ancora. Cosi’ non e’ stato; ed oggi molti analisti e storici sono concordi nel ritenere che ad Helsinki non si sia affatto verificato il rafforzamento dell’Unione Sovietica; al contrario, da quel momento e’ iniziata la sua dissoluzione.

Obama: la doppia chiave del discorso del Cairo

C’è una doppia chiave di lettura dell’intervento di Obama al Cairo. La prima, di carattere più ampio, riguarda il tema dello "scontro di civiltà". Su questo punto, qui basti osservare che il Presidente americano ha modificato radicalmente in pochi mesi – certo non solo con un discorso - la difficile eredità di sospetto e di risentimento lasciata in questo ambito dalla precedente Amministrazione, che aveva adottato una politica centrata sul tema controverso della “esportazione” della democrazia e su una visione monolitica dell’Islam in termini di contrapposizione all’"occidente" (si tratta in se' di un'espressione generalizzante, impropria e semanticamente errata: da una parte una religione, dall'altra un'area geopolitica; esiste anche un Islam nell'Occidente, e comunque quest'ultima "regione" non e' culturalmente e religiosamente monolitica, come non lo e' "l'Islam"). Il nuovo atteggiamento di Obama e’ dunque un toccasana per la percezione degli Stati Uniti nel mondo islamico, precipitata negli ultimi anni al minimo storico. Tuttavia Obama –ed è questa la seconda chiave di lettura – non intende essere confinato nella retorica, e pertanto nello stesso discorso ha compiuto alcune aperture molto concrete, che configurano importanti cambiamenti nella politica mediorientale in senso lato della nuova Amministrazione americana. E il nuovo Presidente ha voluto affrontare proprio i temi piu’ spinosi, in particolare le iniziative militari ed i comportamenti dell’America a seguito dell’11 settembre. In primo luogo, la difficile situazione dell’Afghanistan e piu’ in generale dell’intera regione centro-asiatica. Ha detto con grande nettezza che gli Stati Uniti non intendono rimanere in Afghanistan, dove comunque sono andati in virtu’ di un'autorizzazione delle Nazioni Unite, e sopratuttto non hanno in programma l’apertura di basi militari dalle quali potrebbero controllare l’area. In effetti, proprio la presenza di basi americane in diversi Paesi della regione, come ad esempio nella penisola arabica, e’ stato uno dei pretesti del terrorismo di stampo islamista. Sempre su questo tema, Obama ha detto con chiarezza che per l’Afghanistan (ed ora anche per le regioni frontaliere del Pakistan) non c’e’ una soluzione militare. In secondo luogo, Obama ha messo in luce che ben diversa e’ stata la natura dell’intervento militare americano in Iraq, compiuto in virtu’ di una deliberata scelta unilaterale ("war of choice" invece che "war of necessity", come ha scritto l'esperto di relazioni internazionali Richard N. Haass) che ha messo gli Stati Uniti in contrasto con buona parte della comunita’ internazionale e aperto una vera e propria voragine con il mondo islamico. Tuttavia, in questo momento gli Stati Uniti hanno due connesse ed ineludibili responsabilita’: da un lato, aiutare l’Iraq a costruirsi un nuovo futuro; dall’altro, lasciare l’Iraq agli Iracheni. Obama ha ribadito la rischiosa “scommessa” fatta sin dalla campagna elettorale: far arretrare le truppe americane dalle principali citta’ irachene entro la fine di luglio del 2009; far rientrare tutte le truppe americane dall’Iraq entro il 2012. Questo per il passato. Ma Obama ha anche precisato quale sara’ la sua agenda costruttiva. Il tema piu’ complesso e’ quello del conflitto israelo-palestinese, usato spesso come prestesto dalle organizzazioni islamiste per le loro campagne di terrore. Obama ha ovviamente difeso senza mezzi termini il diritto incondizionato all’esistenza di Israele, ma con la stessa forza ha riaffermato il diritto all’esistenza dello Stato palestinese. Ed ha inoltre compiuto un'inequivocabile stigmatizzazione degli insediamenti illegali israeliani. Sono posizioni che hanno messo sotto pressione il nuovo governo israeliano di Netanyahu e di Lieberman, che pareva aver messo in dubbio la stessa possibilita’ della nascita di uno stato palestinese. Tanto da indurlo a una prima timida e del tutto insufficiente apertura: che "stato" sarebbe infatti una Palestina - lasciando da parte la questione della "smilitarizzazione", che forse avrebbe senso nel contesto di un "patto di stabilita'" o di un accordo per la pace e la cooperazione internazionalmente garantito, sul modello "europeo" della CSCE, e che coinvolgesse tutti i principali attori, compreso Israele - senza la possibilita' di poter "condividere" Gerusalemme, senza alcun diritto al ritorno per i profughi sparsi nella regione e senza smantellamento degli insediamenti illegali? Obama comunque ha aggiunto di voler avanzare con cautela per la soluzione di questo nodo strategico, “con tutta la pazienza” che tale obiettivo richiede. Infine, la questione del programma nucleare iraniano. Obama e’ stato al contempo fermissimo contro la prospettiva di un Iran dotato di armi nucleari, e tuttavia ha ammesso che l’Iran, sotto precise garanzie e nel rispetto del Trattato per la non proliferazione nucleare, ha il diritto di sviluppare un programma nucleare civile per produrre energia. Ma ha anche aggiunto che l’obiettivo deve essere quello di un mondo privo di armi nucleari; e tale principio si deve applicare anche al Medio Oriente, ed a tutti i Paesi che vi si trovano, senza distinzioni o eccezioni. Come dire che enunciare principi non basta; occorre anche essere credibili nei fatti.

L'Iran dopo il voto

Oscillano tra il realismo ed il pessimismo i commenti degli esperti sui risultati delle elezioni presidenziali iraniane. Riporto alcune interviste che mi sembrano esemplificative degli orientamenti prevalenti degli analisti. C’e’ un punto che non condivido assolutamente tra quelli sollevati nel campo dei “pessimisti”, e cioe’ l’affrettata conclusione che il “vero” sconfitto sarebbe Obama, che si e’ fatto promotore di un’offerta di dialogo ad ampio raggio con Teheran. L’argomento “a contrario” e’ facilmente dato dalla costatazione che la politica dell’isolamento finora perseguita (specie nel corso dei due mandati di Bush) non ha prodotto alcun risultato significativo, sai dal punto di vista di quanti auspicano un “regime change” (o almeno un “change of regime”, vale a dire il cambiamento dei comportamenti di Teheran su vari scacchieri e scenari, ovviamente in senso piu’ costrutivo e meno come “troublemaker” interessato a perpetuare l’instabilita’), che da quello di progressi nel negoziato sul programma nucleare iraniano e sulle sue possibili implicazioni militari, che sarebbero nefaste per l’intera regione e addirittura per gli assetti mondiali, perche’ aprirebbero una serissima crepa nel contesto della non proliferazione nucleare, gia’ oggi abbastanza screditata per ragioni di efficacia e di credibilita’ dei principali propugnatori, che dovrebbero cominciare col dare l’esempio secondo l’idea di Obama di un mondo senza armi nucleari, principio che non ammette eccezioni di sorta. Quale sarebbe l’alternativa alla linea diplomatica, sia pure corredata da “sanzioni”? La parola guerra o intevento militare e’ ricircolata pericolosamente ed irresponsabilmente in queste ore. Think it twice, please. Talvolta la politica dell’isolamento, se non accompagnata da una solida e praticabile linea negoziale, puo' produrre “effetti inintenzionali”, finisce cioe’ per rafforzare all’interno i regimi che invece si intende indebolire sul piano internazionale. Non credo tuttavia che questo schema possa applicarsi direttamente alla "vittoria" di Ahmadinejad; permane tuttavia la necessita' di adottare, verso l'Iran, una politica ben articolata, declinata in modo coerente su molti versati e con grande flessibilita' ed intelligenza.

Intervista a Bijan Zarmandili su “Avvenire” (di Alberto Simoni).
«Non credo che il secondo mandato diAhmadinejad sarà una fotocopia dei primi quattro anni. Finora è stato speculare a Bush, fermezza e intransigenza. Oggi invece si relaziona a un`America diversa e all`apertura dell`Amministrazione di Barack Obama. E inevitabilmente questo innescherà un dibattito all`interno della leadership iraniana». Bijan Zarmandili, scrittore e analista di questioni iraniane, non si iscrive alla lista dei pessimisti, di quanti considerano una iattura per gli squilibri regionali e internazionali la riconferma di Mahmud Ahmadinejad. «Sono scettico nel considerare Ahmadinejad un motore del cambiamento - dice ad Avvenire - ma la politica deve essere giudicata non in base a quanto accaduto negli ultimi anni, ma anche pensando alla sua evoluzione, all`intervento di fattori imprevedibili».
Zarmandili, quali «imprevisti» potranno guidare le sue mosse sulla scena internazionale?
La sua politica estera sarà meno rigida poiché le condizioni sono mutate. Ahmadinejad deve tener conto che gli Stati Uniti hanno accettato l`idea che l`Iran possa diventare una potenza nucleare. Il problema per Washington è che il nucleare non sfoci in armamenti. C`è poi un secondo fattore: il 21 marzo, capodanno persiano, Obama si è rivolto per la prima volta alla leadership iraniana riconoscendone l`autorità. Significa che gli Usa hanno messo da parte i sogni di cambio di regime. Ora il vero interrogativo è: quale assetto geopolitico avrà il Medio Oriente quando Usa e Iran arriveranno al dialogo?
Per ora però non siamo vicini a questo scenario. Ed Egitto e Arabia Saudita, i due alleati degli americani nella regione, sono in fibrillazione...
Per Riad e Il Cairo la situazione è complessa. I nodi non sono però solo l`apertura agli Usa e il «sì» al nucleare. Un Iran potenza regionale e centrale nello scacchiere mediorientale, significa anche una conflittualità fra sciiti e sunniti.
Poi c`è l`inghippo Israele. Chi lo spiega a Gerusalemme che si può dialogare con chi predica la sua distruzione?
La grande impresa è convincere Israele che un`alleanza anche con Teheran non è uno svantaggio per nessuno.
Impresa fattibile?
America e Stato ebraico oggi hanno diversi dossier spinosi. Non solo il nucleare. Ma sarebbe sbagliato focalizzarsi solo su alcuni temi. La strada d`uscita passa per Damasco.
Ma i siriani si sono detti contenti dell`affermazione di Ahmadinejad. Che spazi di manovra vede?
Se Israele e Siria rilanciano i negoziati e discutono sulle Alture del Golan e su altri temi cruciali come Hezbollah, l`Iran potrebbe perdere un alleato prezioso. Siamo in una situazione difficile, ma anche estremamente mobile.
Cosa inciderà ancora sulla politica estera di Ahmadinejad?
La situazione interna. Il presidente iraniano si avvia verso un modello cinese, con tutte le dovute proporzioni. Ovvero forte repressione interna e disponibilità al dialogo fuori dai confini.
Perché?
Affronta una vivacissima società civile che anima il blocco riformista, ma che è priva di leadership. Ahmadinejad dovrà mediare invece con il fronte conservatore dove è forte lo scontro con i rappresentanti della «teocrazia classica», come Larijani e Rafsanjani, un pragmatico. E questo giocoforza influenzerà e mitigherà la sua politica estera.

Intervista a Nicola Pedde, direttore del Global Research Institute, sull’”Unita’” (di Gabriel Bertinetto).
L`opposizione non accetta il risultato e denuncia brogli. Un`ipotesi plausibile secondo lei, professore?
«Sembra difficile spiegare in quel modo tutti i 10 milioni di voti che separano Mousavi da Ahmadinejad. Certo lo shock per un risultato così sbilanciato a favore del capo di Stato uscente è forte anche in Occidente, dove si tifava per Mousavi e dove spesso si ragiona secondo metri di valutazione che non si adattano alla realtà dell`Iran. Ammesso che l`esito delle elezioni sia quello che conosciamo dalle prime notizie ufficiali, la prima riflessione che bisogna fare riguarda la forte diversità del voto urbano rispetto a quello rurale, e dei ceti medi istruiti rispetto al resto della popolazione. Si ha anche l`impressione di una compatta adesione al campo presidenziale da parte degli apparati di sicurezza e dei Pasdaran in particolare. Questi ultimi non sono solo una struttura militare, ma una forza politica ed economica. Dai loro ranghi in passato nacque il movimento riformatore. Ora sono spostati sul campo degli ultraconservatori perché evidentemente ritengono sia quella la via migliore per una transizione politica che li porti a poco a poco ad essere sempre più capillarmente presenti nelle strutture di potere».
I rivoluzionari laici prendono il posto dei clero sciita ai vertici dello Stato?
«Distinguiamo in primo luogo all`interno del clero, fra coloro che si limitano al loro ruolo strettamente religioso e coloro che hanno fatto la rivoluzione, il cosiddetto clero combattente. Questi ultimi hanno avuto ed hanno molto potere, ma nelle strutture di comando diventano sempre più minoritari, mentre si estende la presenza dei Pasdaran ovunque nei centri di potere. Un ex-generale dei Pasdaran, Mohsen Rezaie, si è candidato contro Ahmadinejad. Ma il grosso dei Pasdaran sembra essersi pragmaticamente schierato con colui che è poi risultato il vincitore, ritenendo che la stagione del riformismo in Iran sia stata solo una perdita di tempo».
Come spiega il fatto che la cattiva gestione dell`economia imputata ad Ahmadinejad dai suoi avversari non gli abbia alienato le simpatie di molti che potevano ritenersi delusi per la promesse non mantenute?
«Ahmadinejad ha investito molto denaro in vista delle elezioni, distribuendo sussidi statali sotto forma di sostegno alle famiglie ed ai lavoratori. In un`economia disastrata come quella iraniana, ciò potrà provocare contraccolpi negativi in seguito. Ma al momento può avergli recuperato consensi. L`iraniano medio purtroppo non sa che farsene della democrazia e della libertà. Del resto nessun candidato ha insistito molto sui diritti umani e civili».
A questo punto che ne sarà del dialogo proposto da Obama?
«Gli Usa devono andare avanti con le aperture, tenendo conto del risultato. L`interlocutore è chi governa. Sarebbe un errore fare marcia indietro».

Intervista a Karim Sadjadpour, del Carnegie Endowment for International Peace di Washington, sul “Corriere della sera”(di Alix Van Buren)
«Un attacco militare da parte d`Israele contro l`Iran ora è più possibile che mai. A Teheran il re è nudo: il monumentale imbroglio elettorale fa uscire dall`ombra la Guida suprema Ali Khamenei. E lui a manovrare il potere. Ma il regime scricchiola, scosso da fratture interne senza precedenti. Il marciume è venuto a galla».
E adesso, come risponderà il presidente americano Obama? Riconoscere la vittoria di Ahmadinejad, malgrado le denunce di brogli?
«Adesso bisogna aspettare che la polvere si posi, capire che cosa farà Moussavi, se cioè chiederà l`annullamento del voto. In queste ore lui sta trattando con Khamenei. Ma è importante ricordare che Moussavi, benchè vesta i panni del riformista, è parte integrante della Rivoluzione islamica. La storia insegna che nessuno nei suoi ranghi ha acceso micce capaci di fare esplodere il sistema. In più, le Guardie Rivoluzionarie sono maestre nell`intralciare le proteste popolari: con il bando degli sms, degli strumenti di mobilitazione di Moussavi, il movimento riformista è zoppo, muto e cieco».
Dunque Washington si rassegna a un nuovo mandato di Ahmadinejad?
«Piuttosto, ora si deve trattare direttamente con Khamenei. Per troppo tempo la Guida suprema è rimasta nell`ombra. Manovrando il risultato del voto, si è esposta. Khamenei è nudo: è lui l`ostacolo neldialogo con l`Occidente, il responsabile della crisi economica edell`isolamento politico dell`Iran. Deve assumerse il peso. Ahmadinejad è solo un facile bersaglio».
E la fine del dialogo proposto da Obama?
«Cambierà il tono, ma non la sostanza. Sarà un dialogo freddo, come con l`Urss. Però non c`è scelta: con l`Iran bisogna trattare. Piaccia o no, i dossier più aspri - l`Afghanistan, l`Iraq, il conflitto israelo-arabo, il terrorismo, la proliferazione nucleare - non troveranno soluzione senza l`accordo con Teheran.
Si riaffaccia la prospettiva di una soluzione militare?
«Se verrà riconfermato Ahmadinejad, quel rischio aumenta in misura esponenziale. Si aprirebbe un pessimo scenario».

Sostiene Obama


Storico è stato giustamente definito il discorso di Obama al Cairo il 4 giugno 2009 (testo integrale qui di seguito).. Un «nuovo inizio», ha detto Obama, per mettere fine ad un ciclo di discordia e sospetto tra mondo islamico e l’America. Che si presenta – a proposito di «società multiculturale», tanto vituperata in Italia – esattamente come una nazione non solo multi-razziale, ma anche multi-religiosa. La libertà, in America – secondo Obama – è inseparabile dalla libertà religiosa. Ecco perché c’è una Moschea in ogni stato dell’Unione, e più di 1200 Moschee in totale sul territorio americano. Ed ecco perché, a differenza di altri Paesi (basti pensare alla logica assimilazionista e “forzosamente” laica del modello francese) il Governo americano si è fatto persino promotore di procedimenti giudiziari per garantire il diritto di donne e ragazze di indossare il velo e di perseguire quanti vorrebbero negarlo. E dunque, sostiene Obama, l’Islam è parte dell’America. Ho provato per un istante ad immaginare (..sognare..) la versione “italiana” di questa impostazione. Difficile pensare ad un politico nostrano che osi affermare che «l’Islam è parte dell’Italia»! Si scatenerebbe la diatriba sulle radici cristiane, l’identità, la cultura nazionale, e così via. Sono momenti in cui – confesso la debolezza - vorrei tanto la cittadinanza americana o meglio, la doppia cittadinanza. Tanto per essere «interculturale» anche rispetto a me stesso.
I am honored to be in the timeless city of Cairo, and to be hosted by two remarkable institutions. For over a thousand years, Al-Azhar has stood as a beacon of Islamic learning, and for over a century, Cairo University has been a source of Egypt's advancement. Together, you represent the harmony between tradition and progress. I am grateful for your hospitality, and the hospitality of the people of Egypt. I am also proud to carry with me the goodwill of the American people, and a greeting of peace from Muslim communities in my country: assalaamu alaykum. We meet at a time of tension between the United States and Muslims around the world - tension rooted in historical forces that go beyond any current policy debate. The relationship between Islam and the West includes centuries of co-existence and cooperation, but also conflict and religious wars. More recently, tension has been fed by colonialism that denied rights and opportunities to many Muslims, and a Cold War in which Muslim-majority countries were too often treated as proxies without regard to their own aspirations. Moreover, the sweeping change brought by modernity and globalization led many Muslims to view the West as hostile to the traditions of Islam. Violent extremists have exploited these tensions in a small but potent minority of Muslims. The attacks of September 11th, 2001 and the continued efforts of these extremists to engage in violence against civilians has led some in my country to view Islam as inevitably hostile not only to America and Western countries, but also to human rights. This has bred more fear and mistrust. So long as our relationship is defined by our differences, we will empower those who sow hatred rather than peace, and who promote conflict rather than the cooperation that can help all of our people achieve justice and prosperity. This cycle of suspicion and discord must end. I have come here to seek a new beginning between the United States and Muslims around the world; one based upon mutual interest and mutual respect; and one based upon the truth that America and Islam are not exclusive, and need not be in competition. Instead, they overlap, and share common principles - principles of justice and progress; tolerance and the dignity of all human beings. I do so recognizing that change cannot happen overnight. No single speech can eradicate years of mistrust, nor can I answer in the time that I have all the complex questions that brought us to this point. But I am convinced that in order to move forward, we must say openly the things we hold in our hearts, and that too often are said only behind closed doors. There must be a sustained effort to listen to each other; to learn from each other; to respect one another; and to seek common ground. As the Holy Koran tells us, "Be conscious of God and speak always the truth." That is what I will try to do - to speak the truth as best I can, humbled by the task before us, and firm in my belief that the interests we share as human beings are far more powerful than the forces that drive us apart. Part of this conviction is rooted in my own experience. I am a Christian, but my father came from a Kenyan family that includes generations of Muslims. As a boy, I spent several years in Indonesia and heard the call of the azaan at the break of dawn and the fall of dusk. As a young man, I worked in Chicago communities where many found dignity and peace in their Muslim faith. As a student of history, I also know civilization's debt to Islam. It was Islam - at places like Al-Azhar University - that carried the light of learning through so many centuries, paving the way for Europe's Renaissance and Enlightenment. It was innovation in Muslim communities that developed the order of algebra; our magnetic compass and tools of navigation; our mastery of pens and printing; our understanding of how disease spreads and how it can be healed. Islamic culture has given us majestic arches and soaring spires; timeless poetry and cherished music; elegant calligraphy and places of peaceful contemplation. And throughout history, Islam has demonstrated through words and deeds the possibilities of religious tolerance and racial equality. I know, too, that Islam has always been a part of America's story. The first nation to recognize my country was Morocco. In signing the Treaty of Tripoli in 1796, our second President John Adams wrote, "The United States has in itself no character of enmity against the laws, religion or tranquillity of Muslims." And since our founding, American Muslims have enriched the United States. They have fought in our wars, served in government, stood for civil rights, started businesses, taught at our Universities, excelled in our sports arenas, won Nobel Prizes, built our tallest building, and lit the Olympic Torch. And when the first Muslim-American was recently elected to Congress, he took the oath to defend our Constitution using the same Holy Koran that one of our Founding Fathers - Thomas Jefferson - kept in his personal library. So I have known Islam on three continents before coming to the region where it was first revealed. That experience guides my conviction that partnership between America and Islam must be based on what Islam is, not what it isn't. And I consider it part of my responsibility as President of the United States to fight against negative stereotypes of Islam wherever they appear. But that same principle must apply to Muslim perceptions of America. Just as Muslims do not fit a crude stereotype, America is not the crude stereotype of a self-interested empire. The United States has been one of the greatest sources of progress that the world has ever known. We were born out of revolution against an empire. We were founded upon the ideal that all are created equal, and we have shed blood and struggled for centuries to give meaning to those words - within our borders, and around the world. We are shaped by every culture, drawn from every end of the Earth, and dedicated to a simple concept: E pluribus unum: "Out of many, one." Much has been made of the fact that an African-American with the name Barack Hussein Obama could be elected President. But my personal story is not so unique. The dream of opportunity for all people has not come true for everyone in America, but its promise exists for all who come to our shores - that includes nearly seven million American Muslims in our country today who enjoy incomes and education that are higher than average. Moreover, freedom in America is indivisible from the freedom to practice one's religion. That is why there is a mosque in every state of our union, and over 1,200 mosques within our borders. That is why the U. S. government has gone to court to protect the right of women and girls to wear the hijab, and to punish those who would deny it. So let there be no doubt: Islam is a part of America. And I believe that America holds within her the truth that regardless of race, religion, or station in life, all of us share common aspirations - to live in peace and security; to get an education and to work with dignity; to love our families, our communities, and our God. These things we share. This is the hope of all humanity. Of course, recognizing our common humanity is only the beginning of our task. Words alone cannot meet the needs of our people. These needs will be met only if we act boldly in the years ahead; and if we understand that the challenges we face are shared, and our failure to meet them will hurt us all. For we have learned from recent experience that when a financial system weakens in one country, prosperity is hurt everywhere. When a new flu infects one human being, all are at risk. When one nation pursues a nuclear weapon, the risk of nuclear attack rises for all nations. When violent extremists operate in one stretch of mountains, people are endangered across an ocean. And when innocents in Bosnia and Darfur are slaughtered, that is a stain on our collective conscience. That is what it means to share this world in the 21st century. That is the responsibility we have to one another as human beings. This is a difficult responsibility to embrace. For human history has often been a record of nations and tribes subjugating one another to serve their own interests. Yet in this new age, such attitudes are self-defeating. Given our interdependence, any world order that elevates one nation or group of people over another will inevitably fail. So whatever we think of the past, we must not be prisoners of it. Our problems must be dealt with through partnership; progress must be shared. That does not mean we should ignore sources of tension. Indeed, it suggests the opposite: we must face these tensions squarely. And so in that spirit, let me speak as clearly and plainly as I can about some specific issues that I believe we must finally confront together. The first issue that we have to confront is violent extremism in all of its forms. In Ankara, I made clear that America is not - and never will be - at war with Islam. We will, however, relentlessly confront violent extremists who pose a grave threat to our security. Because we reject the same thing that people of all faiths reject: the killing of innocent men, women, and children. And it is my first duty as President to protect the American people. The situation in Afghanistan demonstrates America's goals, and our need to work together. Over seven years ago, the United States pursued al Qaeda and the Taliban with broad international support. We did not go by choice, we went because of necessity. I am aware that some question or justify the events of 9/11. But let us be clear: al Qaeda killed nearly 3,000 people on that day. The victims were innocent men, women and children from America and many other nations who had done nothing to harm anybody. And yet Al Qaeda chose to ruthlessly murder these people, claimed credit for the attack, and even now states their determination to kill on a massive scale. They have affiliates in many countries and are trying to expand their reach. These are not opinions to be debated; these are facts to be dealt with. Make no mistake: we do not want to keep our troops in Afghanistan. We seek no military bases there. It is agonizing for America to lose our young men and women. It is costly and politically difficult to continue this conflict. We would gladly bring every single one of our troops home if we could be confident that there were not violent extremists in Afghanistan and Pakistan determined to kill as many Americans as they possibly can. But that is not yet the case. That's why we're partnering with a coalition of forty-six countries. And despite the costs involved, America's commitment will not weaken. Indeed, none of us should tolerate these extremists. They have killed in many countries. They have killed people of different faiths - more than any other, they have killed Muslims. Their actions are irreconcilable with the rights of human beings, the progress of nations, and with Islam. The Holy Koran teaches that whoever kills an innocent, it is as if he has killed all mankind; and whoever saves a person, it is as if he has saved all mankind. The enduring faith of over a billion people is so much bigger than the narrow hatred of a few. Islam is not part of the problem in combating violent extremism - it is an important part of promoting peace. We also know that military power alone is not going to solve the problems in Afghanistan and Pakistan. That is why we plan to invest $1.5 billion each year over the next five years to partner with Pakistanis to build schools and hospitals, roads and businesses, and hundreds of millions to help those who have been displaced. And that is why we are providing more than $2.8 billion to help Afghans develop their economy and deliver services that people depend upon. Let me also address the issue of Iraq. Unlike Afghanistan, Iraq was a war of choice that provoked strong differences in my country and around the world. Although I believe that the Iraqi people are ultimately better off without the tyranny of Saddam Hussein, I also believe that events in Iraq have reminded America of the need to use diplomacy and build international consensus to resolve our problems whenever possible. Indeed, we can recall the words of Thomas Jefferson, who said: "I hope that our wisdom will grow with our power, and teach us that the less we use our power the greater it will be." Today, America has a dual responsibility: to help Iraq forge a better future - and to leave Iraq to Iraqis. I have made it clear to the Iraqi people that we pursue no bases, and no claim on their territory or resources. Iraq's sovereignty is its own. That is why I ordered the removal of our combat brigades by next August. That is why we will honor our agreement with Iraq's democratically-elected government to remove combat troops from Iraqi cities by July, and to remove all our troops from Iraq by 2012. We will help Iraq train its Security Forces and develop its economy. But we will support a secure and united Iraq as a partner, and never as a patron. And finally, just as America can never tolerate violence by extremists, we must never alter our principles. 9/11 was an enormous trauma to our country. The fear and anger that it provoked was understandable, but in some cases, it led us to act contrary to our ideals. We are taking concrete actions to change course. I have unequivocally prohibited the use of torture by the United States, and I have ordered the prison at Guantanamo Bay closed by early next year. So America will defend itself respectful of the sovereignty of nations and the rule of law. And we will do so in partnership with Muslim communities which are also threatened. The sooner the extremists are isolated and unwelcome in Muslim communities, the sooner we will all be safer. The second major source of tension that we need to discuss is the situation between Israelis, Palestinians and the Arab world. America's strong bonds with Israel are well known. This bond is unbreakable. It is based upon cultural and historical ties, and the recognition that the aspiration for a Jewish homeland is rooted in a tragic history that cannot be denied. Around the world, the Jewish people were persecuted for centuries, and anti-Semitism in Europe culminated in an unprecedented Holocaust. Tomorrow, I will visit Buchenwald, which was part of a network of camps where Jews were enslaved, tortured, shot and gassed to death by the Third Reich. Six million Jews were killed - more than the entire Jewish population of Israel today. Denying that fact is baseless, ignorant, and hateful. Threatening Israel with destruction - or repeating vile stereotypes about Jews - is deeply wrong, and only serves to evoke in the minds of Israelis this most painful of memories while preventing the peace that the people of this region deserve. On the other hand, it is also undeniable that the Palestinian people - Muslims and Christians - have suffered in pursuit of a homeland. For more than sixty years they have endured the pain of dislocation. Many wait in refugee camps in the West Bank, Gaza, and neighboring lands for a life of peace and security that they have never been able to lead. They endure the daily humiliations - large and small - that come with occupation. So let there be no doubt: the situation for the Palestinian people is intolerable. America will not turn our backs on the legitimate Palestinian aspiration for dignity, opportunity, and a state of their own. For decades, there has been a stalemate: two peoples with legitimate aspirations, each with a painful history that makes compromise elusive. It is easy to point fingers - for Palestinians to point to the displacement brought by Israel's founding, and for Israelis to point to the constant hostility and attacks throughout its history from within its borders as well as beyond. But if we see this conflict only from one side or the other, then we will be blind to the truth: the only resolution is for the aspirations of both sides to be met through two states, where Israelis and Palestinians each live in peace and security. That is in Israel's interest, Palestine's interest, America's interest, and the world's interest. That is why I intend to personally pursue this outcome with all the patience that the task requires. The obligations that the parties have agreed to under the Road Map are clear. For peace to come, it is time for them - and all of us - to live up to our responsibilities. Palestinians must abandon violence. Resistance through violence and killing is wrong and does not succeed. For centuries, black people in America suffered the lash of the whip as slaves and the humiliation of segregation. But it was not violence that won full and equal rights. It was a peaceful and determined insistence upon the ideals at the center of America's founding. This same story can be told by people from South Africa to South Asia; from Eastern Europe to Indonesia. It's a story with a simple truth: that violence is a dead end. It is a sign of neither courage nor power to shoot rockets at sleeping children, or to blow up old women on a bus. That is not how moral authority is claimed; that is how it is surrendered. Now is the time for Palestinians to focus on what they can build. The Palestinian Authority must develop its capacity to govern, with institutions that serve the needs of its people. Hamas does have support among some Palestinians, but they also have responsibilities. To play a role in fulfilling Palestinian aspirations, and to unify the Palestinian people, Hamas must put an end to violence, recognize past agreements, and recognize Israel's right to exist. At the same time, Israelis must acknowledge that just as Israel's right to exist cannot be denied, neither can Palestine's. The United States does not accept the legitimacy of continued Israeli settlements. This construction violates previous agreements and undermines efforts to achieve peace. It is time for these settlements to stop. Israel must also live up to its obligations to ensure that Palestinians can live, and work, and develop their society. And just as it devastates Palestinian families, the continuing humanitarian crisis in Gaza does not serve Israel's security; neither does the continuing lack of opportunity in the West Bank. Progress in the daily lives of the Palestinian people must be part of a road to peace, and Israel must take concrete steps to enable such progress. Finally, the Arab States must recognize that the Arab Peace Initiative was an important beginning, but not the end of their responsibilities. The Arab-Israeli conflict should no longer be used to distract the people of Arab nations from other problems. Instead, it must be a cause for action to help the Palestinian people develop the institutions that will sustain their state; to recognize Israel's legitimacy; and to choose progress over a self-defeating focus on the past. America will align our policies with those who pursue peace, and say in public what we say in private to Israelis and Palestinians and Arabs. We cannot impose peace. But privately, many Muslims recognize that Israel will not go away. Likewise, many Israelis recognize the need for a Palestinian state. It is time for us to act on what everyone knows to be true. Too many tears have flowed. Too much blood has been shed. All of us have a responsibility to work for the day when the mothers of Israelis and Palestinians can see their children grow up without fear; when the Holy Land of three great faiths is the place of peace that God intended it to be; when Jerusalem is a secure and lasting home for Jews and Christians and Muslims, and a place for all of the children of Abraham to mingle peacefully together as in the story of Isra, when Moses, Jesus, and Mohammed (peace be upon them) joined in prayer. The third source of tension is our shared interest in the rights and responsibilities of nations on nuclear weapons. This issue has been a source of tension between the United States and the Islamic Republic of Iran. For many years, Iran has defined itself in part by its opposition to my country, and there is indeed a tumultuous history between us. In the middle of the Cold War, the United States played a role in the overthrow of a democratically-elected Iranian government. Since the Islamic Revolution, Iran has played a role in acts of hostage-taking and violence against U. S. troops and civilians. This history is well known. Rather than remain trapped in the past, I have made it clear to Iran's leaders and people that my country is prepared to move forward. The question, now, is not what Iran is against, but rather what future it wants to build. It will be hard to overcome decades of mistrust, but we will proceed with courage, rectitude and resolve. There will be many issues to discuss between our two countries, and we are willing to move forward without preconditions on the basis of mutual respect. But it is clear to all concerned that when it comes to nuclear weapons, we have reached a decisive point. This is not simply about America's interests. It is about preventing a nuclear arms race in the Middle East that could lead this region and the world down a hugely dangerous path. I understand those who protest that some countries have weapons that others do not. No single nation should pick and choose which nations hold nuclear weapons. That is why I strongly reaffirmed America's commitment to seek a world in which no nations hold nuclear weapons. And any nation - including Iran - should have the right to access peaceful nuclear power if it complies with its responsibilities under the nuclear Non-Proliferation Treaty. That commitment is at the core of the Treaty, and it must be kept for all who fully abide by it. And I am hopeful that all countries in the region can share in this goal. The fourth issue that I will address is democracy. I know there has been controversy about the promotion of democracy in recent years, and much of this controversy is connected to the war in Iraq. So let me be clear: no system of government can or should be imposed upon one nation by any other. That does not lessen my commitment, however, to governments that reflect the will of the people. Each nation gives life to this principle in its own way, grounded in the traditions of its own people. America does not presume to know what is best for everyone, just as we would not presume to pick the outcome of a peaceful election. But I do have an unyielding belief that all people yearn for certain things: the ability to speak your mind and have a say in how you are governed; confidence in the rule of law and the equal administration of justice; government that is transparent and doesn't steal from the people; the freedom to live as you choose. Those are not just American ideas, they are human rights, and that is why we will support them everywhere. There is no straight line to realize this promise. But this much is clear: governments that protect these rights are ultimately more stable, successful and secure. Suppressing ideas never succeeds in making them go away. America respects the right of all peaceful and law-abiding voices to be heard around the world, even if we disagree with them. And we will welcome all elected, peaceful governments - provided they govern with respect for all their people. This last point is important because there are some who advocate for democracy only when they are out of power; once in power, they are ruthless in suppressing the rights of others. No matter where it takes hold, government of the people and by the people sets a single standard for all who hold power: you must maintain your power through consent, not coercion; you must respect the rights of minorities, and participate with a spirit of tolerance and compromise; you must place the interests of your people and the legitimate workings of the political process above your party. Without these ingredients, elections alone do not make true democracy. The fifth issue that we must address together is religious freedom.
Islam has a proud tradition of tolerance. We see it in the history of Andalusia and Cordoba during the Inquisition. I saw it firsthand as a child in Indonesia, where devout Christians worshiped freely in an overwhelmingly Muslim country. That is the spirit we need today. People in every country should be free to choose and live their faith based upon the persuasion of the mind, heart, and soul. This tolerance is essential for religion to thrive, but it is being challenged in many different ways.
Among some Muslims, there is a disturbing tendency to measure one's own faith by the rejection of another's. The richness of religious diversity must be upheld - whether it is for Maronites in Lebanon or the Copts in Egypt. And fault lines must be closed among Muslims as well, as the divisions between Sunni and Shia have led to tragic violence, particularly in Iraq. Freedom of religion is central to the ability of peoples to live together. We must always examine the ways in which we protect it. For instance, in the United States, rules on charitable giving have made it harder for Muslims to fulfill their religious obligation. That is why I am committed to working with American Muslims to ensure that they can fulfill zakat. Likewise, it is important for Western countries to avoid impeding Muslim citizens from practicing religion as they see fit - for instance, by dictating what clothes a Muslim woman should wear. We cannot disguise hostility towards any religion behind the pretence of liberalism. Indeed, faith should bring us together. That is why we are forging service projects in America that bring together Christians, Muslims, and Jews. That is why we welcome efforts like Saudi Arabian King Abdullah's Interfaith dialogue and Turkey's leadership in the Alliance of Civilizations. Around the world, we can turn dialogue into Interfaith service, so bridges between peoples lead to action - whether it is combating malaria in Africa, or providing relief after a natural disaster. The sixth issue that I want to address is women's rights. I know there is debate about this issue. I reject the view of some in the West that a woman who chooses to cover her hair is somehow less equal, but I do believe that a woman who is denied an education is denied equality. And it is no coincidence that countries where women are well-educated are far more likely to be prosperous. Now let me be clear: issues of women's equality are by no means simply an issue for Islam. In Turkey, Pakistan, Bangladesh and Indonesia, we have seen Muslim-majority countries elect a woman to lead. Meanwhile, the struggle for women's equality continues in many aspects of American life, and in countries around the world. Our daughters can contribute just as much to society as our sons, and our common prosperity will be advanced by allowing all humanity - men and women - to reach their full potential. I do not believe that women must make the same choices as men in order to be equal, and I respect those women who choose to live their lives in traditional roles. But it should be their choice. That is why the United States will partner with any Muslim-majority country to support expanded literacy for girls, and to help young women pursue employment through micro-financing that helps people live their dreams. Finally, I want to discuss economic development and opportunity. I know that for many, the face of globalization is contradictory. The Internet and television can bring knowledge and information, but also offensive sexuality and mindless violence. Trade can bring new wealth and opportunities, but also huge disruptions and changing communities. In all nations - including my own - this change can bring fear. Fear that because of modernity we will lose of control over our economic choices, our politics, and most importantly our identities - those things we most cherish about our communities, our families, our traditions, and our faith. But I also know that human progress cannot be denied. There need not be contradiction between development and tradition. Countries like Japan and South Korea grew their economies while maintaining distinct cultures. The same is true for the astonishing progress within Muslim-majority countries from Kuala Lumpur to Dubai. In ancient times and in our times, Muslim communities have been at the forefront of innovation and education. This is important because no development strategy can be based only upon what comes out of the ground, nor can it be sustained while young people are out of work. Many Gulf States have enjoyed great wealth as a consequence of oil, and some are beginning to focus it on broader development. But all of us must recognize that education and innovation will be the currency of the 21st century, and in too many Muslim communities there remains underinvestment in these areas. I am emphasizing such investments within my country. And while America in the past has focused on oil and gas in this part of the world, we now seek a broader engagement. On education, we will expand exchange programs, and increase scholarships, like the one that brought my father to America, while encouraging more Americans to study in Muslim communities. And we will match promising Muslim students with internships in America; invest in on-line learning for teachers and children around the world; and create a new online network, so a teenager in Kansas can communicate instantly with a teenager in Cairo. On economic development, we will create a new corps of business volunteers to partner with counterparts in Muslim-majority countries. And I will host a Summit on Entrepreneurship this year to identify how we can deepen ties between business leaders, foundations and social entrepreneurs in the United States and Muslim communities around the world. On science and technology, we will launch a new fund to support technological development in Muslim-majority countries, and to help transfer ideas to the marketplace so they can create jobs. We will open centers of scientific excellence in Africa, the Middle East and Southeast Asia, and appoint new Science Envoys to collaborate on programs that develop new sources of energy, create green jobs, digitize records, clean water, and grow new crops. And today I am announcing a new global effort with the Organization of the Islamic Conference to eradicate polio. And we will also expand partnerships with Muslim communities to promote child and maternal health. All these things must be done in partnership. Americans are ready to join with citizens and governments; community organizations, religious leaders, and businesses in Muslim communities around the world to help our people pursue a better life. The issues that I have described will not be easy to address. But we have a responsibility to join together on behalf of the world we seek - a world where extremists no longer threaten our people, and American troops have come home; a world where Israelis and Palestinians are each secure in a state of their own, and nuclear energy is used for peaceful purposes; a world where governments serve their citizens, and the rights of all God's children are respected. Those are mutual interests. That is the world we seek. But we can only achieve it together. I know there are many - Muslim and non-Muslim - who question whether we can forge this new beginning. Some are eager to stoke the flames of division, and to stand in the way of progress. Some suggest that it isn't worth the effort - that we are fated to disagree, and civilizations are doomed to clash. Many more are simply skeptical that real change can occur. There is so much fear, so much mistrust. But if we choose to be bound by the past, we will never move forward. And I want to particularly say this to young people of every faith, in every country - you, more than anyone, have the ability to remake this world. All of us share this world for but a brief moment in time. The question is whether we spend that time focused on what pushes us apart, or whether we commit ourselves to an effort - a sustained effort - to find common ground, to focus on the future we seek for our children, and to respect the dignity of all human beings. It is easier to start wars than to end them. It is easier to blame others than to look inward; to see what is different about someone than to find the things we share. But we should choose the right path, not just the easy path. There is also one rule that lies at the heart of every religion - that we do unto others as we would have them do unto us. This truth transcends nations and peoples - a belief that isn't new; that isn't black or white or brown; that isn't Christian, or Muslim or Jew. It's a belief that pulsed in the cradle of civilization, and that still beats in the heart of billions. It's a faith in other people, and it's what brought me here today. We have the power to make the world we seek, but only if we have the courage to make a new beginning, keeping in mind what has been written. The Holy Koran tells us, "O mankind! We have created you male and a female; and we have made you into nations and tribes so that you may know one another." The Talmud tells us: "The whole of the Torah is for the purpose of promoting peace." The Holy Bible tells us, "Blessed are the peacemakers, for they shall be called sons of God." The people of the world can live together in peace. We know that is God's vision. Now, that must be our work here on Earth. Thank you. And may God's peace be upon you.

Obama e il mondo islamico

Tra qualche giorno il Presidente degli Stati Uniti, Barack Obama, si rivolgera’ al mondo islamico in un importante discorso che terra’ al Cairo. Il tema e’ centrale nella nuova politica estera americana, dopo i dissapori, i contrasti e il duro confronto generati dalle politiche della precedente Amministrazione americana. Si e’sviluppato un dibattito “preventivo” su cosa Obama dovrebbe dire alle grandi masse musulmane. La discussione si e’ polarizzata su due approcci radicalmente diversi, di cui riporto qui di seguito due esempi. Il primo, piu’ articolato e probabilmente piu’ in linea con le sensibilita’ di Obama (sviluppato in particolare da Juan Cole), consiglia di valorizzare l’agenda “positiva”, mettendo in luce la netta discontinuita’ del nuovo Presidente su temi quali i diritti umani (Guantanamo) e le questioni globali (ad esempio, la promozione di politiche che tendano a ridurre le asimmetrie socio-economiche strutturali). Il secondo, ben rappresentato Juan C. Zarate e James K. Glassman, e’ invece piu’ “assertivo”, piu’ centrato su questioni strategiche e di sicurezza, e rischia di riprodurre l’atteggiamento “normativo” della precedente Amministrazione nei riguardi del mondo islamico, basato su una sorta di “dettato” delle regole del gioco secondo la prospettiva americana. Io preferisco il primo approccio, senza tuttavia negare che nel secondo vi siano importanti argomentazioni, anche se a mio avviso male declinate. Qui di seguito i due interventi.
President Barack Obama's determination to alter the terms of the relationship between the United States and the Muslim world has so far mainly been displayed in his rhetoric. White House aides say that he will focus in his speech in Cairo on Thursday on commonalities between American and Muslim values, and will stress the need to fight extremism. Most Muslims, however, tell pollsters that they do not hate the American way of life or our values, but rather Washington's policies. They will want to hear what concrete steps Obama will take to address the American wars, occupations and commitments that trouble them. In order to make a genuine and lasting impact, Obama needs to tell the Muslim world that the long years in the desert for the Palestinian people are over and that he will devote his energies to ensuring the establishment of a viable Palestinian state by the end of his first term. No one in the region believes in the so-called peace process any more, inasmuch as progress has been scant and the condition of the Palestinians has steadily worsened. Obama needs to underline his commitment to withdraw U.S. troops from Iraq on the timetable approved by the Iraqi parliament, that is, by the end of 2011. He needs to counter the statements of some of his generals casting doubt on that timetable. He should point out that he is acting in accordance with the wishes of an elected Arab parliament in Baghdad and their constituents. Likewise, he needs to reaffirm that, despite opposition from his own party, he will close the Guantanamo Bay prison, a symbol of torture. Obama faces an uphill task. Polling shows that approval ratings for the United States plummeted in most of the Muslim world during the past eight years. A Gallup poll based on face-to-face interviews in 10 Muslim-majority countries last summer found that only 15 percent approved of the leadership that the United States had shown on the global stage. Majorities or pluralities in most of the ten countries polled by Gallup said that their opinion of the United States would significantly improve if it withdrew its troops from Iraq and closed Guantanamo Bay. Other practical steps that would change their minds, most said, included greater direct humanitarian aid, help with transfer of technology and business expertise, and support for the right of Muslim publics to elect their own governments. The good news is that most of the 1.5 billion Muslims in the world are not holding up signs that say, "Yankee go home!" They want an engagement with the United States, but they want that relationship to proceed on the basis of mutual respect. They want the U.S. to help them get wired and start businesses and improve their health and move toward greater democracy. On the positive side, then, President Obama needs to lay out how his economic policies and posture on health, global warming, world trade and finance will help pull the world, including the Muslim world, out of its current economic doldrums. He needs to stress the positive role the United States has played in providing Muslims with the everyday technology, innovations and social tools to create a better life for themselves. Obama needs to convince Muslims that America respects their sovereignty even as it reaffirms its commitment to democracy and human rights, and that the U.S. stands for further investments in improving peoples lives. He must point out that those investments can only bear fruit if radicals and war-mongers both in the region and in the West are decisively side-lined.
(CBS News website, 1 June 2009. Juan Cole teaches history at the University of Michigan. He is author of the recent book, Engaging the Muslim World - Palgrave Macmillan, 2009 - and maintains the weblog “Informed Comment”.)


When President Obama delivers his much-anticipated address in Cairo this week, he should counter the deadly and pervasive narrative that "the West is at war with Islam" and replace it with a more accurate story line that offers Muslims both responsibility and pride. With his Muslim family members and his personification of the American dream, Obama is uniquely placed to recast the way American power and influence are viewed. Although he will need to acknowledge what most Muslims see as U.S. mistakes, an endearing and short-lived mea culpa is not ambitious enough for the task at hand. Instead, the president should shape a new narrative - one that reminds the world of American ideals and challenges Muslim communities to confront conflicts in their midst. While the United States will continue to be a partner, the ultimate outcome will be determined by them, not us. The president should point to three separate but overlapping struggles:
• Religion and terror: A small group of violent reactionaries - led by Al Qaeda, the Taliban, and allied groups - is trying, through horrifying brutality, to bring more than 1 billion Muslims into line with a sweeping totalitarian doctrine, inconsistent with the tenets of Islam. It`s up to Muslims to oppose and ostracize the violent extremists in their rnidst. Growing numbers of them are doing that - even in Pakistan, where a terrible threat had been widely ignored.
• Iran and proxies: Along with its proxies - Syria, Hezbollah and Hamas - Iran is confronting the vast majority of Arab nations, including Saudi Arabia, Jordan and Egypt. This Iran-v. Arab conflict is also part of the Sunni-Shiite conflict that is playing out elsewhere, including Iraq. But Iran`s threat transcends religion. Regardless of sectarian bent, Muslim communities need to oppose the attempts by Iran and its intelligence services - in particular the Qods Force - to extend Shiite extremism and influence throughout the world. Articles in the Arab press have expressed concern that the United States is softening its stance toward the Iranian camp. Egyptians would welcome a statement that clarifies America`s opposition to Iranian domination of the Middle East.
• Democracy and human rights: Many Arab governments have denied their citizens what
Egyptian activist Saad Eddin Ibrahim has called "the infrastructure of democracy": rule of law, independent judiciary, free media, gender equality and autonomous civil society. These necessities of liberty are more important than ballots dropped in a box, as we have seen by the actions of the Hamas regime in Gaza. A widespread criticism among Muslims is that the United States has not pressed authoritarian allies to democratize. For both moral and strategic reasons, we have a stake in supporting free societies with accountable governments. The reality of democracies thriving in Muslim societies like Turkey and Indonesia is a powerful counterweight to the canard that Islam and political freedom can`t coexist. In framing the narrative as a series of struggles within Muslim societies, Obama must also emphasize America`s values - concepts of pluralism, freedom and opportunity that run counter to the extremists` ideology. He should emphasize that the United States won`t be a passive bystander in these struggles. We will advance our own ideals and interests - which include promoting a comprehensive two-state solution between Israel and the Palestinians. Challenging and empowering Muslim communities to take on the three great struggles themselves, with the United States as a constructive partner, is an approach that will overturn the extremists` narrative and help shape a new, honest, and positive story line in which Muslims see themselves not as victims but as central protagonists in global struggles for justice.
(Boston Globe, 27 May 2009. Juan C. Zarate, former deputy national security adviser, is senior adviser at the Center for Strategic and International Studies. James K. Glassman former undersecretary of state, is president of the World Growth Institute.)