Religione e relazioni internazionali. Un inquadramento metodologico

Il fenomeno religioso suscita crescente interesse tra gli analisti di politica internazionale. Esso è oggi largamente considerato un elemento chiave per una corretta e più approfondita interpretazione degli eventi mondiali. Tale tendenza è in netto contrasto con l’atteggiamento assunto dai cultori della disciplina delle relazioni internazionali nel recente passato, in quanto la maggior parte degli analisti occidentali ha per lungo tempo di fatto escluso la religione dai parametri ritenuti fondamentali per lo studio della scena internazionale. Dopo l’11 settembre è sorto tuttavia un ricchissimo dibattito sul tema, anche al di là degli schemi strumentali dello «scontro di civiltà». La riflessione su questo tema risente però di tre condizionamenti: in primo luogo, della tendenza ad includere la religione nel novero dei fenomeni «culturali» in senso lato; in secondo luogo, dell’inclinazione a «comprimere» la domanda identitaria nel solo fenomeno religioso; infine, della tentazione di imboccare la scorciatoia di una (pericolosa) sovrapposizione tra la nozione di civiltà e quella di area geo-politica nella quale una determinata religione risulta professata dalla maggioranza della popolazione. Tuttavia, anche a prescindere da queste importanti caratterizzazioni, se molti sembrano essere d’accordo sul fatto che la religione costituisce uno dei fattori che maggiormente e in diversi modi influenzano le relazioni internazionali, non sempre è chiaro o univoco il giudizio sulle conseguenze ( e sul «segno») di tale influenza.
Sul versante negativo, si potrebbe menzionare la convinzione che i conflitti religiosi tendano ad estendersi oltre i confini nazionali e a trasformarsi spesso in fenomeni transnazionali di impervia soluzione. Tra gli aspetti positivi di tale complessa equazione si potrebbe annoverare il ruolo sempre più rilevante svolto dalla religione nella promozione di forme organizzate e istituzionalizzate di collaborazione internazionale, anche al fine di accrescere la «legittimità» di norme e pratiche della «società internazionale». Un modo per evitare di restare imbrigliati in un complesso intreccio di interpretazioni (apologetiche o liquidatorie) circa la funzione della religione nelle relazioni internazionali consiste anzitutto nel collocare la religione, dal punto di vista internazionalistico, tra i fattori strutturali e non tra quelli culturali dello scenario mondiale. Da questo punto di vista, la religione avrebbe la stessa consistenza strategica della questione della non-proliferazione nucleare. La teoria delle relazioni internazionali è giunta infatti oggi a livelli di sofisticata concettualizzazione della problematica nucleare, o di quella attinente alla liberalizzazione degli scambi mondiali, ma appare poco attrezzata (o poco incline) alla comprensione del fenomeno religioso come di una delle determinanti dell’ordine (o disordine) mondiale.

Integrare la religione nella teoria delle relazioni internazionali: vantaggi e pericoli.

La rinascita globale della religione rappresenta oggi un aspetto del processo - in atto a livello planetario - di definizione identitaria; un processo che vede coinvolti gli individui come le comunità, le istituzioni e più in generale le diverse strutture sociali. Attorno a tali identità culturali e religiose si verificano fenomeni di mobilitazione di massa e si generano situazioni di crisi; da qui nasce l’esigenza di nuove categorie analitiche anzitutto per «decifrare» tali sfide. La disciplina delle relazioni internazionali, in particolare, non può più oggi trascurare le virtù e le pratiche delle comunità di credenti radicate in una varietà di tradizioni religiose nel mondo. L’attuale scena mondiale è caratterizzata dall’emergere di una crisi strutturale delle relazioni internazionali, accompagnata da una crescente manifestazione di pluralismo culturale, come espressione di disparate forze centripete, territorialmente radicate, che intendono reagire all’omologazione nella tecnopolis globale. Si rende sempre piu’ evidente la dicotomia tra la globalizzazione in quanto tendenziale generalizzazione di un modello di sviluppo e le aspirazioni universalistiche, che trovano talvolta proprio nelle religioni un fattore di declinazione e di articolazione problematica. Tutto ciò rende necessaria la formulazione di una nuova e più adeguata teoria politica internazionale dell’«ordine mondiale», per quanto coniugato in temini pluralistici e di diffusione/diversificazione poliarchica di potenza, e dunque tutt’altro che monolitici. Un nuovo «concetto prospettico» dell’ordine mondiale dovrebbe ipotizzare una rinnovata struttura normativa per una società internazionale al contempo multiculturale e globalizzata, policentrica e universalizzante. Essa dovrebbe, inoltre, fornire gli strumenti teorici per analizzare con maggiore accuratezza il ruolo che la religione si sta con sempre maggiore forza ritagliando sullo scenario planetario. E’ evidente che riconoscere tale potenzialità alla religione implica un rovesciamento della prospettiva in base alla quale le diverse civiltà del mondo, e con esse le diverse fedi religiose, siano inevitabilmente destinate allo scontro.
Da questo punto di vista, la tesi che considera le religioni come un fattore endogeno di conflitto si divide in une filoni fondamentali: da una parte, la concezione «essenzialista e primordiale» della religione, ritenuta, assieme alle contrapposizioni etnico-culturali, come fonte di insanabili fratture; dall’altra, la concezione «modernizzante e strumentale», che ritiene la religione uno strumento malleabile a piacimento da parte del potere politico per ottenere consenso e mobilitazione di massa a scopi di accrescimento della propria capacita’ di influenza sia all’interno che sullo scenario internazionale. In questo secondo caso, la religione verrebbe a rafforzare i fenomeni securitari che investono in modo massiccio le forme politiche contemporanee. L’iniziativa «Alliance of Civilizations», lanciata nel 2005 dall’ONU, si fonda invece sulla convinzione che la diversità delle civiltà e delle culture sia una caratteristica fondamentale della società umana e una forza utile al progresso umano, poiché la natura stessa delle diverse civiltà le porterebbe alla reciproca interazione. La religione è indubbiamente da annoverare – in modo certamente non esclusivo - tra i caratteri fondamentali delle civiltà, che tuttavia non rappresentano affatto dei corpi monolitici senza differenziazioni interne e soprattutto non sono entità fissate nel tempo e nello spazio una volta per tutte. Da questo punto di vista, si potrebbe persino osservare che proprio le religioni, nonostante il loro bagaglio dogmatico, rappresentano oggi uno dei fattori più dinamici (e talvolta critici) di cambiamento e di mobilità all’interno delle grandi civilizzazioni. Non va sottaciuto, d’altra parte, il rischio, anch’esso presente, di sovrastimare il ruolo della religione a livello internazionale, enfatizzando eccessivamente l’influenza di approcci normativi tendenti al confronto tra questioni non-negoziabili e il pluralismo culturale, e ad assegnare improprie funzioni in senso lato politiche a leaders religiosi. Inoltre, focalizzare troppo l’attenzione sui principi religiosi fondamentali potrebbe far passare in secondo piano più complesse e articolate interpretazioni di fenomeni strutturali come la violenza politica, i conflitti armati e le vaste asimmetrie nella ripartizione delle risorse e delle capacità a livello globale.

Il ruolo della religione nella prevenzione dei conflitti e nella loro soluzione.

La religione può inoltre rappresentare un importante elemento di multi-track diplomacy. E’ necessario focalizzare l’attenzione sulla possibilità di applicare la tradizione moderna dell’«etica delle virtù» al mondo «pratico» della diplomazia e delle relazioni internazionali. In situazioni di conflitto e scontro, gli esponenti delle principali religioni mondiali possono fornire il «capitale sociale» in termini di networks sociali e di (ri)costruzione della fiducia reciproca, condizione essenziale per creare le condizioni della «pace sostenibile». Il processo di peace-building, inteso in modo dinamico, non-meccanicistico e generale, non inizia o finisce con il lancio o la fine di un’operazione di peace-keeping. In questa fase la religione può svolgere la limitata ma essenziale funzione di fattore di de-escalation del conflitto. Il peace-building è in principio una forma di risposta a cedimenti della struttura sociale e del contesto politico-istituzionale, ivi incluse le radicate contrapposizioni culturali che possono essere alla base di un conflitto. In particolare, il riconoscimento reciproco e la riconciliazione a livello nazionale e transnazionale rappresentano processi, spesso innescati da comunità o leaders religiosi, che possono contribuire ad individuare un terreno comune per far emergere un pluralismo più «profondo» (deeper pluralism), vale a dire stabile, costruttivo e non oppositivo, e un «cosmopolitismo radicato» (rooted cosmopolitanism), cioè «non apolide», ma anzi saldamente innestato nel tessuto sociale e culturale locale.
Per cogliere appieno le potenzialità del ruolo della religione in situazioni di «ricostruzione della pace» è necessaria una riconcettualizzazione dell’idea stessa di pace, che esplori la sua stretta connessione con le nozioni di giustizia e di riconciliazione. Questo processo di arricchimento semantico dell’idea di pace è alla base di iniziative «bottom-up» di prevenzione e risoluzione dei conflitti, o di ricostruzione post-conflittuale, capaci di ottenere risultati migliori di quelli raggiunti attraverso strategie «top-down», caratterizzate dal proceduralismo e da principi giuridici di stampo (solamente) liberale.

Attori religiosi non statali e transnazionali. Dinamiche e sfide.

Il ruolo degli attori transnazionali nelle relazioni internazionali contemporanee è materia ampiamente studiata ed analizzata. Non lo è altrettanto la funzione delle organizzazioni e dei leaders religiosi. Il quadro di riferimento generale dovrebbe essere costituito dall’emergere di una «società transnazionale» pluralista e complessa. Le interazioni transnazionali tra attori religiosi (sia di carattere personale che nella forma di scambio di idee e comunicazione di «pratiche») possono implicare varie espressioni di soft power. Nell’analizzare tali fenomeni si dovrebbe prendere atto che le unità centrali nella teoria delle relazioni internazionali, vale a dire gli Stati sovrani di tipo «westphaliano», non sono più le uniche strutture rilevanti per l’ordine internazionale, la stabilità, la cooperazione e la pace. Il crescente pluralismo degli attori internazionali dovrebbe indurre a tenere in maggior considerazione le potenzialità di nuove «comunità epistemiche globali» che si dedicano a migliorare la governance globale e in generale a rafforzare la cooperazione mondiale. In questa chiave di lettura, la religione dovrebbe cessare d’apparire necessariamente come una minaccia alla mutua comprensione tra le civiltà, per essere considerata invece come uno degli elementi centrali di una società civile transnazionale pluralistica e culturalmente differenziata. In questo contesto, dovrebbe essere dedicata speciale attenzione al significato simbolico di eventi come incontri di leaders religiosi mondiali globali e il relativo impatto sull’opinione pubblica internazionale. Tali incontri servono anche a costruire e consolidare nuove pratiche trasversali di solidarietà, di cooperazione e mobilitazione internazionale, di un «ethos» globale, anche come risposta alle nuove sfide ed alle incombenti minacce planetarie.