Un Nobel meritato


Li ha anticipati tutti, Barack Obama, i commentatori più saputelli e gli epigoni di Solone nella politica internazionale. E lo ha detto lui per primo, di non essere sicuro di «aver meritato» il Premio Nobel per la pace che gli è stato conferito per il 2009. Ma la giuria ha precisato, nella sua motivazione, che il Premio era stato assegnato ad Obama non tanto per qualche successo conseguito per la pace (è ancora troppo presto), ma «per il suo straordinario sforzo per rafforzare la diplomazia internazionale e la cooperazione tra i popoli». In effetti, si tratta, come è stato detto da più parti, di un «premio al metodo» e di un «premio al futuro». Obama sin dai primi passi della sua Presidenza ha cambiato profondamente il clima dei rapporti internazionali. Basti ricordare i messaggi al mondo islamico (ed in particolare il discorso del Cairo), la sua iniziativa a favore del disarmo nucleare («l’opzione zero») lanciata sulla piazza di Praga, il recente discorso all’Assemblea Generale delle Nazioni Unite, che ha sancito il pieno «ritorno» degli Stati Uniti nel multilateralismo. Molti sono i dossier sui quali Obama si è impegnato contemporaneamente: dalla questione del programma nucleare iraniano alla complessa situazione in Afghanistan, dal processo di pace israelo-palestinese al graduale ritiro del contingente militare americano in Iraq. Tanti fronti aperti, tutti assai impegnativi e cruciali per la pace nel mondo. Impensabile che vi potessero essere risultati immediati. Tante voci che rappresentano il cosiddetto pensiero “realista” delle relazioni internazionali hanno obiettato che la politica di apertura di Obama si sarebbe sinora rivelata improduttiva. Un interessante articolo dell’«Economist» ha definito la strategia di Obama come «teoria quantitativa della politica estera», per sottolineare proprio l’impressionante successione di iniziative e prese di posizione innovative e per certi versi rivoluzionarie assunte da Obama nell’arco di pochi mesi. Basti elencare quanto e' avvenuto solo nel settembre 2009: Obama ha presieduto un incontro, da lui fortemente voluto, con il Presidente dell’Autorita’ palestinese Abu Mazen e il Primo Ministro israeliano Netanyahu; ha delineato il suo programma per fronteggiare il cambiamento climatico alle Nazioni Unite; ha presieduto una sessione del Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite dedicata alla non-proliferazione; ha guidato un Vertice del G-20 (che ha investito del ruolo di "forum privilegiato" per la trattazione dei temi della "governance" economica globale informale); ha rivisto profondamente le strategia di difesa missilistica in Europa e dell’Europa, che aveva creato una forte contrapposizione con la Russia; ha avviato contatti diretti a Ginevra con gli Iraniani sulla questione del programma nucleare di Teheran. Rimane il serio problema della stabilizzazione dell’Afghanistan, rispetto alla quale Obama deve compiere scelte difficili, soppesando il giusto equilibrio tra aspetti militari e aspetti di ricostruzione del tessuto sociale, civile ed economico del Paese, per conseguire un minimo di sicurezza per gli Afghani e coinvolgere tutti i Paesi della regione in un impegno per la cooperazione e la pace. Tutte questioni aperte, tutte questioni complesse, e tutte questioni irrisolte. L’approccio quantitativo non si tramuta automaticamente, si direbbe per mero accrescimento della massa delle problematiche affrontate, in cambiamento qualitativo. Ma la politica internazionale è fatta anche di idee, di valori, di scelte coraggiose. Ed Obama, da questo punto di vista, è stato decisamente un «game changer», un Presidente che ha impostato in modo radicalmente diverso e nuovo anzitutto l’approccio degli Stati Uniti al mondo rispetto agli otto anni di Bush. Spostando anche l’asse del dibattito internazionale dalla «paura» alla «speranza» (in questo caso la distinzione ha davvero un senso e si giustifica assai piu' di un titolo di un recente libro di successo). Il doppio mandato di George W. Bush ha lasciato ad Obama ed al mondo la tragica eredita’ di due guerre, di un profondo risentimento nel mondo arabo-islamico per una presunta guerra al terrorismo che non ha fatto altro che alimentare ulteriormente i suoi focolai ed i suoi centri di incubazione, di una reazione di auto-difesa dinanzi ad un’aggressiva retorica sulla diffusione della democrazia liberal-democratica di stampo occidentale e di un modello economico globalizzante di tipo liberista, di uno scontro di civilta’ divenuto, dopo gli scritti di Huntington, una profezia che si auto-avvera negli scenari dogmatici ed ideologici ancor prima che militari degli ambienti del Pentagono fortemente influenzati dai convincimenti “teo-con”. Ci vorra’ forse piu’ di un decennio per riparare i profondi guasti causati nel sistema internazionale da tali scelte dissennate e controproducenti. Dinanzi a questo scenario di desolazione e macerie fumanti, meglio avere oggi un Presidente prudente, da alcuni considerato persino esitante (lo hanno definito ad esempio «Presidente-Amleto» o il «Procrastinatore») piuttosto che un decisionista impulsivo e catastrofico come Bush. Dinanzi alla complessita’ e talvolta all’intrattabilita’ dei problemi mondiali, meglio soppesare tutti i fattori in gioco, piuttosto che precipitarsi a compiere scelte improvvisate ed improvvide, che potrebbero in seguito rivelarsi irreversibili. Nell’ambito delle relazioni internazionali, si ricorre troppo spesso all’uso del termine «strategia», evocato a sproposito per dare una patente di lungimiranza a scelte maturate (si fa per dire) sotto la pressione degli eventi o della stessa opinione pubblica, nazionale o mondiale. Meglio riservare questa definizione solo alle decisioni ponderate sul corso di azione piu’ appropriato da prendere nelle circostanze complesse, in una prospettiva non di breve termine ma di medio-lungo periodo. Altrimenti meglio sarebbe parlare di «tattica» oppure di vuote operazioni di «public diplomacy» destinate a ritorcersi contro gli stessi presunti «spin doctors» che le concepiscono. Alla Casa Bianca in questo momento non ci sono dei vaghi utopisti inconcludenti, ma dei realisti etici, cioe' persone che ritengono che le decisioni vadano responsabilmente meditate, anche lungamente, e non frettolosamente «fabbricate» (viene in mente la precisa espressione di Noam Chomsky, «manufacturing consent») al fine di una loro «vendita» sul mercato onnivoro e bulimico dei media. Ma c’è un punto che non tutti hanno colto, nella vicenda del Nobel ad Obama. E cioè che si tratta di un premio alla persona, più che alla funzione. Non è stato premiato il Presidente degli Stati Uniti, ma il politico Barack Obama. Un Presidente responsabile, infatti, ha dei limiti strutturali ed auto-imposti nella sua possibilità di agire, deve tener conto delle implicazioni a vari livelli delle sue iniziative: in una parola, deve essere necessariamente cauto e addottare un approccio incrementale. Si tratta di trovare il giusto equilibrio, per nulla facile da conseguire, tra l'etica della convinzione e l'etica della responsabilita'. Ma il politico Obama ha decisamente scelto senza esitazioni la strada impervia e coraggiosa della progettualità, dell’«utopia realistica»: in una parola, la strada del futuro. Pensando non alle prossime elezioni, ma alle prossime generazioni. Basterebbe questa motivazione per ritenere il Nobel alla pace più che meritato.