Cosa succede agli Europei?

Cosa succede agli Europei? E’ questa la domanda che al di fuori del continente europeo si sente con maggior frequenza. Desta sorpresa, infatti, che l ‘Europa, che per decenni si è proposta al mondo come la terra della tolleranza, dell’inclusione, dello stato sociale, mostri oggi quasi di non credere più ai propri ideali fondativi. Naturalmente è questa una versione semplificata e forse caricaturale di ciò che accade ai sistemi politici e sociali del vecchio continente, ma ciò non toglie che vi sia un fondo di verità. Se la Francia, considerata, dalla Rivoluzione francese in poi, come “terra d’asilo” per i perseguitati e i rifugiati, tratta con durezza i Rom, tanto da provocare una procedura d’infrazione dell’Unione Europea; se l’Olanda ridiscute i termini dell’immigrazione e della società multi-culturale; se in Svezia, patria di un modello social-democratico di successo, cominciano a manifestarsi tentazioni di chiusura nel benessere “nazionale”; se in Germania cresce il dibattito sull’integrazione dei Turchi; se in Italia l’immigrazione viene troppo spesso trattata solo come un problema di sicurezza e vengono compiuti respingimenti verso Paesi non firmatari delle convenzioni internazionali sulla protezione dei rifugiati; allora è innegabile che un problema esiste e riguarda, in varia misura, tutte le società europee.
Occorre però sgombrare il campo da alcuni facili luoghi comuni. E’ un errore classificare la grande varietà di queste reazioni che potremmo definire “identitarie” in termini di avanzata delle “destre xenofobe”. Nella condizione attuale dell’Europa, queste etichette sbrigative hanno poco senso. Quello che è vero è che un po’ ovunque si diffonde un senso di incertezza per il futuro (e persino per il presente) e prende corpo la percezione di una “minaccia” indistinta al nostro modo di vivere. Questo fenomeno va al di là degli steccati classici della politica e delle affiliazioni partitiche. Per dirla con il sociologo Bauman, è la “paura liquida” che pervade le nostre società e progressivamente “riempie” l’agenda politica degli Europei.
Se questa è la situazione, le reazioni in senso lato “xenofobe” sono il sintomo, non la malattia. Un sintomo grave e talvolta odioso, che però richiede si indagare sulle cause profonde di queste reazioni e di questo malessere. La ragione vera dell’insicurezza generalizzata risiede, come spesso si dice, nella “globalizzazione”. Ma perché questo non diventi un alibi o un luogo comune, è necessario qualificare questa affermazione con qualcosa di più preciso. A ben guardare, le nostre paure crescono in modo proporzionale man mano che ci rendiamo conto che i nostri riferimenti comunitari, quella “rete di sicurezza” fatta di legami, rapporti, relazioni informali, progressivamente si sgretola nelle maglie di un individualismo e di un isolamento crescente delle persone. Abbiamo più paura perché ci sentiamo più soli. Non è una conclusione banale: la trasformazione aggredisce, infatti, la struttura portante delle società. In questi processi di cambiamento la politica rischia di essere latitante o semplicemente di inseguire le stesse paure che si dovrebbero, invece, comprendere e “governare” con intelligenza e lungimiranza. Perché è evidente che una società impaurita è anche una società bloccata, ferma, sulla difensiva. E’ proprio nei momenti più difficili della società che la politica dovrebbe, al contrario, svolgere un ruolo non tanto di rassicurazione, quanto di valorizzazione di ciò che unisce, di ciò che fa della società dispersa e frammentata una comunità al tempo stesso salda ed aperta. Siamo dinanzi ad un paradosso: più la politica si limita a riflettere le ansie e le paure, più queste ultime, invece di scomparire, aumentano a dismisura. In questo modo la politica diventa un moltiplicatore dell’insicurezza, proprio il contrario di quanto proclama. E’ come nelle nostre città: la sicurezza migliora certamente migliorando l’ordine pubblico (più polizia, più controlli), ma migliora in modo assai più sostanziale illuminando le strade, promuovendo attività e partecipazione proprio nei quartieri più degradati. La sicurezza non scende dall’alto, si costruisce dal basso; non scaturisce da una muscolare dimostrazione di forza, ma dalla consapevole e serena condivisione delle nostre debolezze.