A proposito dell'Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi (Roma, 10 - 24 ottobre 2010).
l crescente rilievo pubblico della religione, anche nel campo delle relazioni internazionali, rende desueto l’approccio fondato sulla rilevanza esclusivamente geo-politica delle chiese cristiane in Medio Oriente, sia latine che orientali.
Appare essenziale, infatti, saper identificare e valorizzare la funzione delle comunità cristiane nei contesti mediorientali, caratterizzati da una parte da conflitti irrisolti, dall’altra da un ritorno del senso religioso nella società che però si manifesta troppo spesso in senso esclusivo e intollerante.
Le comunità cristiane fronteggiano perciò una doppia sfida: quella derivante dalle fratture politiche interne e internazionali nella regione, e quella proveniente dalla nuova assertività di movimenti fondamentalisti e integristi, che spesso tendono a confondere la fede cristiana come una caratterizzazione culturale “dell’occidente”. Da questo punto di vista, in molti contesti le comunità cristiane vivono paradossalmente un’irreale condizione di “estraneità”, pur essendo state storicamente proprio le Chiese orientali i centri propulsori e di irradiazione del cristianesimo.
Le tre direttrici lungo le quali un’analisi politica della presenza cristiana in Medio Oriente dovrebbe articolarsi sono, quindi, la dimensione politico-internazionale (i conflitti aperti o latenti), la dimensione simbolico-identitaria (i caratteri prevalentemente religiosi dei nuovi movimenti sociali) la dimensione democratica (la questione dei diritti e, in particolare, il tema cruciale della libertà religiosa).
Non sono da trascurare anche le differenze di approccio e di sensibilità alle questioni appena elencate da parte delle diverse comunità cristiane, che sono spesso assai gelose delle proprie tradizioni storiche, sicuramente di valore, ma che in determinate situazioni possono rendere ancora più difficile il compito di influenzare positivamente il contesto politico e sociale locale.
Il grande obiettivo della pace non può essere perseguito, nella complessità della situazione mediorientale, se non promuovendo una sinergia tra queste molteplici dimensioni, e dunque articolando una visione complessiva delle sfide da superare e soprattutto del contributo da offrire per ricomporre un tessuto di rapporti interstatali, inter-comunitari e infra-comunitari che presenta gravi lacerazioni, alcune di origine antica, altre più recenti.
Tutti questi nodi sono affrontati con chiarezza e con lungimiranza nel documento di preparazione del Sinodo per il Medio Oriente.
Nell’«Instrumentum Laboris» predisposto per il Sinodo si afferma che «in una regione ove da secoli convivono fedeli di tre religioni monoteiste, per i cristiani è essenziale conoscere bene gli ebrei e i musulmani, per poter collaborare con loro nel campo religioso, sociale e culturale per il bene dell’intera società. La religione, soprattutto di quanti professano un unico Dio, deve diventare sempre di più motivo di pace, di concordia e di comune impegno nella promozione dei valori spirituali e materiali dell’uomo e della comunità.» [4]
Il Sinodo intende «fornire ai cristiani le ragioni della loro presenza in una società prevalentemente musulmana, sia essa araba, turca, iraniana, o ebrea nello Stato d’Israele» [6].
Inoltre, si sviluppa il concetto di «laicità positiva»: «i cattolici devono poter dare il migliore apporto nell’approfondire, insieme agli altri cittadini cristiani ma anche musulmani intellettuali riformisti, il concetto di “laicità positiva” dello Stato. In tal modo, aiuterebbero ad alleviare il carattere teocratico del governo e permetterebbero più uguaglianza tra i cittadini di religioni differenti favorendo così la promozione di una democrazia sana, positivamente laica, che riconosca pienamente il ruolo della religione, anche nella vita pubblica, nel pieno rispetto della distinzione tra gli ordini religioso e temporale.» [25]
Il documento affronta anche «i conflitti politici nella regione», analizzando in particolare alcuni contesti di crisi:
• «L’occupazione israeliana dei territori Palestinesi rende difficile la vita quotidiana per la libertà di movimento, l’economia e la vita sociale e religiosa (accesso ai Luoghi Santi, condizionato da permessi militari accordati agli uni e rifiutati agli altri, per ragioni di sicurezza). Inoltre, alcuni gruppi fondamentalisti cristiani giustificano, basandosi sulle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta ai palestinesi, il che rende ancor più delicata la posizione dei cristiani arabi.» [32]
• «In Iraq, la guerra ha scatenato le forze del male nel Paese, all’interno delle correnti politiche e delle confessioni religiose. Essa ha mietuto vittime tra tutti gli iracheni, ma i cristiani sono stati tra i colpiti principali in quanto rappresentano la comunità irachena più esigua e debole. Ancor’oggi la politica mondiale non ne tiene sufficiente conto.» [33]
• «In Libano, i cristiani sono divisi sul piano politico e confessionale e nessuno ha un progetto che possa essere accetto a tutti». [34]
• «In Egitto, la crescita dell’Islam politico, da una parte, e il disimpegno, in parte forzato, dei cristiani nei confronti della società civile, dall’altra, rendono la loro vita esposta a serie difficoltà. Inoltre, questa islamizzazione penetra nelle famiglie anche mediante i mass media e la scuola, modificando le mentalità che, inconsapevolmente, si islamizzano.» [34]
• «In altri Paesi, l’autoritarismo, cioè la dittatura, spinge la popolazione, compresi i cristiani, a sopportare tutto in silenzio per salvare l’essenziale.» [34]
• «In Turchia, il concetto attuale di laicità pone ancora problemi alla piena libertà religiosa del Paese.» [34]
Il dialogo con gli ebrei è definito «essenziale, benché non facile» risentendo del conflitto israelo-palestinese. La Chiesa auspica che «ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti». Si ribadisce la ferma condanna dell’antisemitismo, sottolineando che «gli attuali atteggiamenti negativi tra popoli arabi e popolo ebreo sembrano piuttosto di carattere politico» e dunque estranei ad ogni discorso ecclesiale.
I cristiani sono chiamati «a portare uno spirito di riconciliazione basata sulla giustizia e l’equità per le due parti. D’altra parte, le Chiese nel Medio Oriente invitano a mantenere la distinzione tra la realtà religiosa e quella politica» [85-94].
Per quanto riguarda i rapporti l’Islam, il documento ribadisce le parole di Benedetto XVI: «Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro». Si rileva che «è importante da una parte avere i dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo trilaterale». «Le relazioni tra cristiani e musulmani sono, più o meno spesso, difficili – si legge nel documento - soprattutto per il fatto che i musulmani non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini, mentre essi sono cittadini di questi Paesi già da ben prima dell’arrivo dell’Islam. La chiave del successo della coesistenza tra cristiani e musulmani dipende dal riconoscere la libertà religiosa e i diritti dell’uomo». «I cristiani sono chiamati … a non isolarsi in ghetti, in atteggiamenti difensivi e di ripiegamento su di sé tipici delle minoranze. Molti fedeli insistono sul fatto che cristiani e musulmani sono chiamati a lavorare assieme per promuovere la giustizia sociale, la pace e la libertà, e difendere i diritti umani e i valori della vita e della famiglia». [95-99].
Nella situazione conflittuale della regione i cristiani sono esortati a promuovere «la pedagogia della pace»: si tratta di una via «realistica, anche se rischia di essere respinta dai più; essa ha anche più possibilità di essere accolta, visto che la violenza tanto dei forti quanto dei deboli ha condotto, nella regione del Medio Oriente, unicamente a fallimenti e a uno stallo generale». Si tratta di una situazione «sfruttata dal terrorismo mondiale più radicale». Il contributo dei cristiani « esige molto coraggio, è indispensabile» anche se «troppo spesso» i Paesi mediorientali «identificano l’Occidente con il Cristianesimo» recando grande danno alle Chiese cristiane [100-102].
Il documento analizza anche il forte impatto della modernità che al musulmano credente «si presenta con un volto ateo e immorale. Egli la vive come un’invasione culturale che lo minaccia, turbando il suo sistema di valori». «La modernità, del resto, è anche lotta per la giustizia e l’uguaglianza, difesa dei diritti». Ma «la modernità è anche un rischio per i cristiani»: le società della regione sono infatti anch’esse «minacciate dall’assenza di Dio, dall’ateismo e dal materialismo, e più ancora dal relativismo e dall’indifferentismo … Tali rischi, al pari dell’estremismo, possono facilmente distruggere … famiglie, società e Chiese ». [103-105]. «Da questo punto di vista, musulmani e cristiani devono percorrere un cammino comune».
I cristiani, da parte loro, devono essere consapevoli di appartenere al Medio Oriente e di esserne «una componente essenziale come cittadini»: anzi, «sono stati i pionieri della rinascita della Nazione araba» e «il loro ruolo è riconosciuto nella società» [106-108] anche se «con la crescita dell’integralismo islamico, aumentano un po’ ovunque gli attacchi contro i cristiani» [110]. «Il cristiano ha un contributo speciale da apportare nell’ambito della giustizia e della pace»; ha il dovere di «denunciare con coraggio la violenza da qualunque parte essa provenga, e suggerire una soluzione, che non può passare che per il dialogo», la riconciliazione e il perdono. [111-114].