Guerra o missione di pace?
Afghanistan, guerra o missione di pace? E’ forse dal 2001, dall’inizio delle operazioni militari che molti si pongono questa domanda, trovando risposte spesso contraddittorie o ambigue. Quello che è certo, è che in Afghanistan si combatte. Tuttavia i conflitti di oggi sono molto diversi da quelli classici. Non ci sono in campo eserciti schierati. Spesso i contendenti non sono nemmeno Stati. In Afghanistan l’ONU ha autorizzato una missione tesa a rimuovere una minaccia alla sicurezza internazionale, costituita dal regime talebano, che pianificava e compiva azioni di terrorismo su vasta scala (come per le Torri Gemelle). Per la verità convivono in Afghanistan diverse «missioni»: quella americana («enduring freedom»), più di combattimento «attivo» nei confronti delle roccaforti talebane, e quella NATO-ISAF che, in teoria, dovrebbe rispondere più a criteri di stabilizzazione, di messa in sicurezza della popolazione, di protezione dei centri abitati. Siamo ora arrivati, dopo ben 9 anni di operazioni militari, ad una situazione nella quale è sempre più difficile distinguere i differenti livelli di impegno, anche perché i Talebani portano i loro attacchi verso zone che prima ne sembravano immuni. In questo contesto, ha senso parlare di «bombe» sugli aerei italiani impiegati in Afghanistan? Il punto è che i nostri militari (come tanti altri) sono vittime di azioni subdole, non di azioni di guerra propriamente dette; ad esempio, gli automezzi sono colpiti da ordigni, spesso rudimentali, posti ai lati delle strade e fatti esplodere al passaggio delle colonne. Aumentare il livello degli armamenti non è detto che serva. Anzi, sappiamo tutti che gli attacchi con armamenti pesanti contro piccoli gruppi senza scrupoli, che si nascondono in centri abitati, può produrre vittime innocenti, e dar luogo ad errori macroscopici (come colpire gli invitati ad un matrimonio o i partecipanti ad un funerale: è già accaduto nelle aree sotto responsabilità anglo-americana e nella zona ove operano i Tedeschi). In generale, elevare l’intensità delle operazioni militari mentre lo stesso governo Karzai avvia contatti negoziali con i Talebani corre il rischio di essere una mossa in controtendenza. Una cosa è certa: non esiste «vittoria» militare in Afghanistan. La via d’uscita, la famosa «exit strategy» (e anche la «strategia di transizione») non viene dall’esterno, ma dall’interno dell’Afghanistan, che non può essere lasciato a sé stesso proprio ora, se non altro per la responsabilità che la comunità internazionale ha assunto dopo nove anni di presenza, quale che sia il giudizio che se ne possa dare.