Tutti stranieri nella terra che ci ospita

Profondo e direi anche coraggioso questo testo di Bruno Forte sul complesso gioco tra l'identità e l'apertura all'altro, al diverso:
Perché è importante porsi in ascolto delle domande vere, di quelle, cioè, che non sono ripetizione di quanto già sei o conosci, ma vengono a te dall’altro, Ultimo o penultimo che sia? È l’altro,in realtà, a rivelare te a te stesso, perché è lui che “ti permette di essere te stesso facendo di te uno straniero”: con la sua differenza, l’altro ti consente di scorgere il profilo della tua identità sullo sfondo oscuro della differenza. In questo senso, l’altro estraneo a noi stessi, ci abita sempre, da sempre: l’Altro ultimo e sovrano, come l’altro prossimo e immediato. Siamo “ostaggi dell’altro” (Emmanuel Levinas). Lo rivela l’ambivalenza stessa del linguaggio dell’estraneità: ad esempio, il greco xenos, come il latino hospes, dice tanto lo straniero, quanto l’ospite, addirittura significato in latino anche col termine hostis, ospite, straniero e nemico al tempo stesso. Siamo, in realtà, tutti stranieri sulla terra che pure ci ospita, pellegrini in questo mondo: paroikoi, attendati nel cammino della vita. È per questo che ciascuno ritrova se stesso in quanto scopre l’altro, riconoscendosi altro dall’altro: proprio così l’io si percepisce, tale in quanto rivolto all’altro, accogliente dell’altro. L’alterità dell’altro è lo stimolo a scoprire l’identità del medesimo. Perciò, la prima parola di ogni essere umano è quella lanciata a chi gli/le ha dato vita: non “io”, ma l’altro che mi accoglie. Siamo, dunque, debitori di noi stessi all’altro, così da poter affermare che la diversità dell’altro, se accolta, ci genera alla verità di noi stessi, se rifiutata, evidenzia una condizione di alienazione. La ragione profonda di questa forza salutare, esercitata su ognuno di noi dall’altro, sta nel fatto che la vita è tutta una lotta con la morte, dove la sola arma efficace è la domanda, quella appunto che l’altro, il nuovo, il diverso suscita in noi: “Il mio nome - scrive Jabès, filosofo ebreo testimone del pensiero nomade - è una domanda e la mia libertà è nella mia propensione alle domande”. (....) L’interrogazione, che spinge oltre la soglia della nostra solitudine, è in grado di farci continuamente rinascere grazie al misterioso legame che essa segnala con l’origine di tutto ciò che esiste, con lo sfondo misterioso su cui si stagliano le esistenze nel mondo: proprio così essa è il dono, il pegno e la ferita dell’altro, ospite e “hostis” al tempo stesso. L’accoglienza delle domande vere, di quelle che ci vengono dall’altro e straniero, diventa allora rigenerazione di sé, costruzione di un essere umano più autentico per colui che le accoglie. In questo coraggio di lasciarci interrogare dalla verità delle domande, è Dio stesso - come dice Jabès - ad avere “in permanenza libero accesso a casa mia”. (...) Testimoni del mistero che si affaccia nella domanda che ci viene dall’altro, straniero e ospite, tutti possiamo fare esperienza della fecondità dell’incontro, che non cancelli le differenze, ma le stimoli nella reciprocità. In verità, resistere all’oblio della differenza è il dono dell’ascolto vivo dell’altro, come invece a favorire l’oblio è il dramma della scrittura. Lo aveva compreso già Platone nella memorabile critica della scrittura, contenuta nella parte finale del Fedro, lì dove insiste sul fatto che la scrittura non è un “farmaco della memoria” e non ne sostituisce le funzioni. La scrittura è, semmai, un mezzo per richiamare alla memoria conoscenze che si sono già apprese per altra via e perciò essa parla veramente “a chi già sa” le cose su cui verte. Il vero ed autentico mezzo di comunicazione non è la scrittura, bensì l’insegnamento, il quale costituisce una prerogativa dell’oralità. Gli scritti non sono in grado di rispondere a nessuna domanda che venga posta loro; essi vanno nelle mani di tutti e non sono in grado di scegliere coloro ai quali si deve parlare e coloro per i quali bisogna invece tacere. Il libro, insiste Platone, “ha sempre bisogno dell’aiuto del padre, perché non è capace di difendersi e di aiutarsi da solo” . La scrittura è come un “gioco” rispetto all’impegno di serietà che l’oralità implica. Ed è ancora Platone a dire che è filosofo colui che è in grado di venire in soccorso ai suoi scritti mostrandone la debolezza, “sulla base di quelle cose di maggior valore che non ha messo per iscritto”, quelle che sono veramente importanti . Proprio perciò, quando viene scritta, la parola - resistenza all’oblio, nata dall’oralità e custodita dalla musicalità del parlato - abita nel suo altro e lo stimola. Da parte sua, la scrittura, ospitando la comunicazione orale e ripresa in essa, può riscattarsi dal suo limite originario e divenire anch’essa una forma di resistenza all’oblio delle differenze.(Brani di un articolo pubblicato dal Corriere della Sera, 22 luglio 2009)