L’offensiva diplomatica americana si precisa, e si concretizza, in tutto il Medio Oriente, secondo il razionale, generoso principio espresso da Barack Obama nel discorso inaugurale. "Noi vi tenderemo la mano se aprirete il vostro pugno". In altre parole: se si dimostrano disponibili, noi offriamo agli avversari la possibilità di trattare. Pochi, tra i vecchi nemici non ancora amici, sono esclusi dall`offerta. Il passato non è cancellato, puo` essere archiviato. L`offensiva si muove in direzioni fin o a ieri improbabili, se non proprio impensabili: i Taliban in Afghanistan, il regime siriano, l`Iran khomeinista, Hamas in Palestina, e naturalmente l`Iraq, che gli americani vorrebbero abbandonare o dove vorrebbero ridurre al più presto il loro intervento militare. Un tempo, nell`epoca Bush, quasi tutti questi soggetti meritavano soltanto maledizioni, scomuniche, minacce, interventi armati. Non sempre immeritati. Il nuovo e (ripeto) razionale principio si riassume in un interrogativo: con chi si tratta, se non con gli avversari? Ovviamente Al Qaeda resta fuori da questo panorama: Bin Laden e i suoi devono rispondere dell`11 settembre e di tanti altri delitti. I loro misfatti non possono essere archiviati. Si tratta anche col demonio. Ok! Ma c`è demonio e demonio. L`offensiva diplomatica abbraccia l`intera regione, tra l`Asia centrale e il Vicino Oriente, perché le crisi, alimentate dall`odio e della violenza, sia pure distinte, hanno tanti punti in comune. L`Iran aiuta i Taliban che operano in Afghanistan e gli uomini di Hamas che governano a Gaza; è inoltre il padrino degli Hezbollah libanesi, i quali sono sciiti come gli iraniani; ed esercita una forte influenza sul governo, in larga parte sciita, di Bagdad, alleato sempre meno docile degli americani. La Siria è un alleato storico dell`Iran e ospita i capi di Hamas in esilio. II dramma palestinese tiene vivo il rancore del mondo arabo e in generale musulmano nei confronti dell`Occidente, dei quale Israele sarebbe per loro un`emanazione. Comincio da Hamas, il movimento islamico che controlla Gaza, e con il quale nessun occidentale, e ancor meno Israele, si dichiara disposto a negoziare direttamente, perché non ha rinunciato al terrorismo e rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele. Nonostante questi vistosi ostacoli, è già iniziata un`operazione diplomatica di aggiramento, con l`obiettivo di recuperare Hamas, sempre nella speranza di rinsavirlo. Di condurlo alla ragione. Non possono essere interpretate altrimentì le dimissioni di Salam Fayyad da primo ministro del governo dell`Autorità palestinese a Ramallah, opposto a quello di Gaza controllato da Hamas. Rifiutato da Hamas e considerato un uomo vicino agli americani (che tra l`altro addestrano le forze di sicurezza dell`Autorità palestinese) Salam Fayyad era considerato uno dei principali ostacoli a una riconciliazione con Gaza e alla formazione di un esecutivo di unione nazionale. Il ritiro volontario (ancora da precisare) di Fayyad dovrebbe aiutare le discussioni in corso, cui partecipano gli egiziani e su cui gli americani contano per ridar vita a seri negoziati tra israeliani e palestinesi. La diplomazia americana punta dunque su un recupero di Hamas, e, stando tra le quinte, favorisce le trattative, al punto da sacrificare Fayyad. Se queste trattative prendessero una piega positiva, si potrebbero tra l`altro sbloccare gli aiuti per la ricostruzione di Gaza, che, stando alla politica d`oggi, non possono essere affidati soltanto a Hamas. Mentre è in corso questa operazione, i rapporti tra l`amministrazione Obama e Israele conoscono alcune difficoltà. Si tratta di screzi che non mettono in discussione la salda, irrinunciabile alleanza tra la superpotenza e lo Stato ebraico, ma essendo nuovi, direi inediti, preannunciano rapporti meno facili che nel passato. Durante la sua visita a Ramallah, Hillary Clinton ha detto che la demolizione di case arabe a Gerusalemme Est «non aiuta il processo di pace». La frase del neosegretario di Stato ha indispettito il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, il quale l`ha definita «aria fritta» e l`ha attribuita all`atteggiamento della nuova amministrazione di Washington. L`ambasciata americana ha protestato definendo le parole del sindaco «un insulto» al capo della diplomazia degli Stati Uniti. Il governo di Gerusalemme si è scusato. L`incidente, insolito, anzi unico, unito alle pressioni diplomatiche affinché gli israeliani non espandano le loro colonie nei territori occupati (quattro passi ufficiali sarebbero stati compiuti in questo senso dall`ambasciata Usa), rivela appunto rapporti meno facili tra Washington e Gerusalemme. Un tempo Washington si adeguava alle volontà di Gerusalemme. Ora Gerusalemme dovrà tener conto della politica di Washington. E questo accade ancora prima che si installi il nuovo governo di destra, il cui primo ministro per ora incaricato, Benjamin Netanyahu, non prevede la nascita di uno Stato palestinese. Nascita invece ufficialmente auspicata dagli Stati Uniti. Anche un dialogo con i Taliban sembrava un insormontabile tabù. Adesso Barak Obama non lo esclude. Il generale David Petraeus, oggi responsabile militare della regione, forté della sua esperienza in Iraq, aveva già suggerito di prendere contatti coni Taliban «moderati». A Bagdad, Petraeus era riuscito a separare gli insorti saddamisti, ossia laici e nazionalisti, superstiti del vecchio esercito dissolto dagli americani, dalle organizzazioni islamiche integraliste, collegate ad Al Qaeda e composte da molti stranieri, provenienti dai paesi arabi. La scissione è in gran parte riuscita ed è stata decisiva. Nonostante gli attentati continuino, come dimostra la strage di ieri, il governo di Bagdad dispone adesso di truppe abbastanza efficaci da sostituire gli americani in molti settori. E questo consente agli Stati Uniti di alleggerire, sia pur non senza rischi, la loro presenza militare. In Afghanistan fu commesso un errore. L`intervento americano del 2001 non sconfisse del tutto i taliban, molti dei quali, rifugiatisi in Pakistan, hanno avuto il tempo di rafforzarsi e di ritornare poi in patria. In un conflitto osi distrugge definitivamente il nemico o si tratta con lui. In Afghanistan non avvenne niente dí questo Fu adottata una strategia perdente. Ora si cercherà, forse già lo si tenta, di agganciare i Taliban moderati. Esistono? Soltanto nel deserto non esiste destra e sinistra. E l`Afghanistan non è soltanto deserto. Lo stesso vale nel molto più sofisticato Iran, dove integralisti e riformisti si scontrano politicamente, nella lotta per il potere, e si differenziano nel linguaggio. Non tutti gli ayatollah ripetono le bestemmie, le insensatezze, del loro presidente contro Israele. O vogliono sfidare il mondo costruendo armi atomiche. Con la pazienza del saggio, che saprà essere intransigente, duro, se il pugno iraniano non si aprirà, Barak Obama ha invitato Teheran a partecipare alla conferenza sull`Afghanistan. Ha invitato gli avversari, i nemici. Con i quali si deve trattare. Con gli amici non ce ne è bisogno. Si parla. Lo stesso vale per la Siria, dove gli inviati di Obama sono già al lavoro. Siamo ancora ai primi passi. Ai primi approcci. Nulla è garantito. Ma si deve tentare. Anche perché le minacce, le scomuniche, le maledizioni, i morti hanno dato soltanto minacce, maledizioni, scomuniche e morti.
Dialogare con il nemico? (parte prima)
Mi ha molto interessato l'articolo di Bernardo Valli, pubblicato oggi da "Repubblica". Al di là dell'analisi puntuale della nuova politica americana nei confronti di interlocutori "ostici" nel "Medio Oriente allargato", Valli solleva un tema di grande complessità, e cioè il dilemma se "parlare" o meno con il nemico, ed i connessi rischi di una "legittimazione", per quanto involontaria. Il problema riguarda soprattutto - ma non solo - le organizzazioni terroristiche (o definite tali) e quelle che a loro volta non "riconoscono" l'interlocutore, sia nel senso della sua legittimità che in quello della sua stessa esistenza. Si tratta di un argomento vivacemente dibattuto non solo negli ambienti politico-diplomatici, ma che rappresenta anche un filone di approfondimento politico-filosofico ed etico sul quale mi riprometto di tornare in altre successive note.