Dialogare con il nemico? (parte seconda)

Nel dibattito in corso sulla questione dell'approccio da avere nei confronti del nemico "politico", mi sono ricordato del post del 14 gennaio del blog di Enrico Franceschini, giornalista di "Repubblica", nel quale riferiva di un ipotetico parallelo ("cum grano salis") che Jonathan Freedland, uno dei commentari più validi del "Guardian", ha proposto tra la tattica usata verso l'I.R.A. ("Irish Republican Army", l’esercito clandestino degli indipendentisti cattolici in Irlanda del Nord) e quella che dovrebbe essere adottata nel caso di Hamas. La questione è divenuta attuale a seguito della pubblica esortazione che Gerry Adams, leader dello Sinn Fein, il braccio politico dell’Ira (che non è più un esercito, avendo deposto e in parte smantellato le sue armi), ha rivolto a Israele e ai palestinesi, inclusi quelli di Hamas, ad iniziare un dialogo per la pace, sull’esempio di quanto fatto da cattolici e protestanti in Irlanda del Nord. Dove dopo trent’anni di guerra e migliaia di morti - osservava Franceschini - oggi le due parti governano insieme e il conflitto, sebbene non ancora del tutto risolto (i cattolici sperano un giorno di riunificarsi con il resto dell’Irlanda, i protestanti vogliono rimanere parte della Gran Bretagna) è finito dal punto di vista militare e della violenza. Personalmente nutro parecchi dubbi che le due situazioni siano persino comparabili, men che meno che si possa applicare lo stesso metodo. Ma la prospettiva merita un'attenta valutazione. L'articolo comunque dà correttamente conto dell'impostazione di Freedland, che è problematica più che superficialmente risolutiva, ed in ogni caso inserisce un ulteriore elemento di riflessione, perché nei conflitti e nei percorsi per uscirne non bisogna dare nulla per scontato né basarsi sui luoghi comuni o sullo scetticismo sistematico (che talvolta è tutto, fuorché "realistico", come pretende invece presuntuosamente di essere):
Naturalmente, scrive Freedland, i due conflitti non sono uguali. Per dirne una, osserva, per quante azioni militari la Gran Bretagna abbia lanciato contro l’Ira, non ha mai bombardato Belfast con l’aviazione o distrutto un intero edificio perchè nelle fondamenta potevano nascondersi dei combattenti nemici. Ma hanno anche parecchie somiglianze: un territorio conteso, la questione religiosa, quella demografica. Ciò detto, quali lezioni trarre per il Medio Oriente dal negoziato di pace concluso positivamente, con la mediazione di Tony Blair, nel 1999 in Irlanda del Nord?
1) Israele - scrive Freedland - dovrebbe fare, come prima mossa, una solenne dichiarazione d’intenti, analoga a quella con cui il governo britannico nel 1990 annunciò di non avere interessi strategici o economici per mantenere il possesso dell’Ulster, l’altro nome con cui viene identificata l’Irlanda del Nord. In fondo basterebbe che un premier israeliano ripetesse quello che l’attuale premier Olmert ha detto in settembre in un’intervista, ma in modo formale e ufficiale in un messaggio ai palestinesi: la pace avverà solo con la restituzione delle terre occupate nel ‘67.
2) La seconda mossa, continua il columnist del Guardian, dovrebbe essere la reciproca ammissione delle due parti che non esiste una soluzione militare al conflitto. La strada verso la pace in Ulster cominciò quando Londra riconobbe che combattere contro l’Ira poteva portare al massimo a un “onorevole pareggio”, e quando l’Ira comprese che a forza di bombe non avrebbe costretto le truppe britanniche al ritiro. In Medio Oriente, allo stesso modo, Hamas deve riconoscere che attacchi suicidi e razzi ritarderanno la fine dell’occupazione, anzichè accelerarla, e Israele deve capire che un movimento popolare come Hamas non può essere sconfitto con la sola forza.
3) Terzo: Israele dovrebbe citare il precedente dell’Ira, dicendo che non può negoziare con Hamas finchè Hamas non cessa la violenza. I cattolici repubblicani irlandesi infatti non ottennero un posto al tavolo delle trattative finchè non accettarono di perseguire i propri scopi unicamente con mezzi pacifici. Ma quale è il consiglio, rivela Freedland, dato dai membri dell’Ira che hanno incontrato dirigenti di Hamas? “Mantenete unito il movimento”. Ossia non dividetevi tra chi è pronto a riconoscere Israele e chi no, altrimenti nascerebbe soltanto una nuova Hamas. Essi ritengono che l’intero movimento vada lentamente sospinto verso la trattativa, dapprima attraverso un dialopgo indiretto con coloro al suo interno che sono più favorevoli ad avviarla: in questo modo, se e quando Hamas accetterà i metodi pacifici, tutto il movimento sarà costretto a rispettare l’accordo.
4) La quarta regola da ricordare è che ogni compromesso, lungo la strada della pace, deve ricevere un premio. Questo è sempre accaduto nei confronti dell’Ira da parte britannica, e se non accadrà con i palestinesi e/o con Hamas, i fautori della pace perderanno la faccia. In tal senso è stato un grave errore da parte israeliana, conclude il commentatore del Guardian, ritirarsi unilaterlamente da Gaza tre anni fa: se ci fosse stato un ufficiale passaggio delle consegne da Israele ad Al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen avrebbe potuto incassare agli occhi della popolazione il merito della liberazione. Così invece al Fatah non ha potuto incassare niente, e il merito se lo sono avocato Hamas e i suoi kamikaze.