Dialogare con il nemico? (parte quarta)

Torna il tema dell'analogia (ardua, quanto meno) tra la vicenda del Sinn Fein in Irlanda del Nord e quella di Hamas nella Striscia di Gaza. Umberto De Giovannangeli, sulle pagine dell'Unita', riporta oggi un'intervista a Gerry Adams, leader del Sinn Fein, il più importante partito cattolico nordirlandese, gia' braccio politico dell`Ira. Nei giorni scorsi, Adams ha visitato la Striscia di Gaza. Per la verita', le sue risposte a De Giovannangeli sono improntate, tutto sommato, ad una sufficiente dose di realismo.

Lei ha visitato Gaza. Quali impressioni ne ha ricavato?
«Sconvolgenti. I segni della guerra sono ovunque. Nelle case distrutte, nell`emergenza umanitaria che riguarda centinaia di migliaia di persone, in maggioranza bambini e adolescenti. Su quelle macerie non può crescere la speranza, ma solo rabbia, disperazione. Gaza resta ancor oggi una enorme prigione a cielo aperto da dove è impossibile uscire. La mancanza di qualsiasi libertà di movimento rappresenta una odiosa, iniqua, inaccettabile punizione collettiva. Ma la gente di Gaza è anche gente orgogliosa, che desidera vivere libera e in pace. Non è vero che Gaza è un covo di estremisti fanatici. Ognuno di noi ha l`obbligo morale, prima che politico, di fare tutto il possibile perché ciò che è accaduto non si ripeta».
Ricercare la pace. Nobile intendimento. Ma come concretizzarlo?
«Non esiste altra via che quella del negoziato. Negoziato diretto tra la leadership israeliana e quella palestinese. Con il supporto attivo della comunità internazionale, in particolare degli Stati Uniti. Le prese di posizione del presidente Obama sono in questo senso incoraggianti. Non esistono scorciatoie militariste per veder riconosciuti i propri diritti. E questo vale sia per gli israeliani che per i palestinesi. A volte ci vuole più coraggio a deporre le armi che a utilizzarle. E un primo passo nella giusta direzione è una completa cessazione di ogni ostilità e la libertà di circolazione per tutti».
Lei parla della necessità di un negoziato diretto tra tutte le parti in conflitto. Anche Hamas?
«Su questo punto il mio pensiero coincide pienamente con quello di Jimmy Carter: Hamas è un movimento complesso, con diverse sfaccettature al suo interno, comunque fortemente radicato nella società palestinese. Escluderlo da un negoziato finisce per favorire le frange più estreme. Questo non giova a nessuno, neanche a Israele. La pace si fa con i nemici».
Usa e Ue pongono il riconoscimento di Israele da parte di Hamas come precondizione di un possibile negoziato.
«Penso che il riconoscimento di Israele debba essere lo sbocco di un dialogo tra le parti. Quel che conta è che le armi tacciano da parte di tutti. Questa sarebbe la vera svolta».
II governo israeliano ha rifiutato di incontrarla.
«Mi dispiace di questo perché evidentemente non si è compreso lo spirito di questa mia visita. Una cosa posso dirle, partendo dalla mia esperienza di vita: come leader di un partito che per anni è stato censurato e demonizzato; un partito che ha visto uccisi molti dei suoi membri, ho maturato la consapevolezza che solo il dialogo tra tutte le parti può essere la chiave di successo per la costruzione di un processo di pace».
Un processo che in Irlanda del Nord si è inverato con gli «Accordi del Venerdì santo» del 1998. È uno schema esportabile anche in Medio Oriente?
«Alcune affinità possono essere riscontrate ma esistono anche differenze significative. Ma è chiaro - e ciò è valso in Irlanda del Nord come vale per il conflitto israelo-palestinese - che la pace è possibile solo se le leadership in campo, in ambedue le parti, sono pronte ad assumersi rischi e accettare un compromesso».