La barca e la torre


Bruno Forte, noto teologo, ha svolto un intervento molto bello e "inspiring"- come dicono gli americani - al Convegno organizzato all'Accademia di Francia a Roma sul tema impegnativo "pensare la crisi". Trovo grande consonanza con l'affermazione di Forte secondo cui "non sarà l'omologazione delle differenze il futuro dell'umanità, ma la loro convivialità, il loro reciproco riconoscersi e accettarsi, sul fondamento comune della dignità assoluta di ogni persona umana e del diritto di ciascuno all'uguaglianza, formale e sostanziale."
La Torre di Babele del nostro tempo
È attraverso la via della metafora che vorrei tentare di pensare la crisi in cui si trova oggi il "villaggio globale". Con la sua eccedenza di senso, la metafora si presta a evocare i volti di quanto sta avvenendo, senza pretendere di ridurre a diagnosi facile la complessità magmatica di ciò che è in corso. Quattro metafore fluide – naufragio, liquidità, assemblaggio e navigazione – approderanno a una finale metafora solida, di sicuro Autore: Babele e la sua torre. A far uso della metafora del naufragio è Hans Blumenberg (Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell'esistenza, Bologna 1985). L'immagine rinvia a un testo di Lucrezio, voce della "condition humaine" nell'età classica: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte» (De rerum natura, II, 1-4). Lo spettatore dell'età di Lucrezio osserva la scena del naufragio al sicuro, sul solido terreno delle sue certezze. Lo spettatore dell'età moderna, invece, sperimenta l'evidenza della frase di Pascal: «Siete tutti imbarcati» («Vous êtes embarqués». Pensées, 451). Blumenberg commenta: «Non c'è più lo stabile punto di vista a partire dal quale lo storico potrebbe essere lo spettatore distaccato» (99). La novità - dal "secolo dei lumi" in poi - è che lo spettatore s'identifica sempre più col naufrago: «Ci piacerebbe conoscere l'onda sulla quale andiamo alla deriva nell'oceano; solo, quell'onda siamo noi stessi» (99). Perdute le certezze che le ideologie ci avevano offerto, siamo diventati noi stessi i naufraghi. Si coglie qui una non marginale differenza fra la crisi del 1929 e l'attuale: allora il mondo delle certezze ideologiche si presentava come possibilità alternativa, rampante, come un sole nascente. Oggi, dopo la crisi delle ideologie, non è più così: «Siamo come dei marinai che devono ricostruire la loro nave in mare aperto, che non possono smantellarla sulla terraferma e ricostruirla usando i migliori materiali» (109). Non resta che una possibilità sola: «Farsi una nave con i resti del naufragio» (105), poiché «è chiaro che il mare contiene altro materiale rispetto a quello già impiegato nella costruzione. Da dove può venire, per far coraggio a chi ricomincia daccapo? Forse da precedenti naufragi?» (110s). Sul grande mare della storia continuano ad arrivare tavole cui aggrapparsi: da dove? Da altri naufragi? O da un possibile, totalmente altro, "altrove"? Lo scenario del naufragio, in cui spettatore e naufrago si identificano, si apre sull'orizzonte di un'attesa, forse persino di un'invocazione inespressa. Questa domanda che nasce dal naufragio è forse la cifra più profonda della crisi attuale. La metafora della liquidità è quella di cui si serve con singolare flessibilità il sociologo e filosofo britannico di origini ebraico-polacche Zygmunt Bauman (Modernità liquida, Roma-Bari 2002). Nel nostro tempo «modelli e configurazioni non sono più "dati", e tanto meno "assiomatici"; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione... Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l'avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana» (XIIIs). Mancando punti di riferimento certi, tutto appare fluido, giustificato o giustificabile in rapporto all'onda che passa. Gli stessi parametri etici che il "grande Codice" della Bibbia aveva affidato all'Occidente, sembrano diluiti, poco reperibili ed evidenti. Si parla di "relativismo", di "nichilismo", di "pensiero debole", di "ontologia del declino". La fiducia assoluta nell'autonomia dell'uomo porta alla perdita di ogni riferimento trascendente: la persona finisce con l'annegare nella propria solitudine, e il sogno dell'emancipazione si infrange nei rivoli del totalitarismo. Col sangue delle vittime, si dissolve anche la consistenza della macchina di distruzione e di morte che l'ideologia aveva prodotto: tutto diventa fluido, sospeso sul nulla, in caduta. Questa fluidità si manifesta anche nell'estrema volatilità delle sicurezze promesse dall'«economia virtuale» della finanza internazionale, sempre più separata dall'economia reale. Trovare punti di riferimento, indicare linee guida affidabili è la sfida titanica per governanti e amministratori, che vogliano ancora galleggiare sulla liquidità derivata dalla dissoluzione di tutti i valori. Eppure, sul mare della storia si affacciano tavole cui aggrapparsi, improvvisate scialuppe di salvataggio, con cui forse assemblare una nave comune: queste tavole sono di forme e dimensioni disparate e metterle insieme, sospesi sull'onda, è impresa non facile. La metafora, che potrebbe esprimere questo tentativo è quella dell'assemblaggio, dello sforzo di costruire un battello con assi dalle più svariate provenienze. C'è chi chiama questa condizione, caratteristica della crisi attuale, "meticciato" e giunge a vedervi l'alternativa alla barbarie dissolvitrice (René Duboux, Métissage ou Barbarie, Paris 1994): si tratta della confluenza d'identità molteplici, dovuta ai flussi migratori in atto, ma anche al ravvicinarsi delle lontananze grazie al mondo comunicativo della rete. È l'esperienza, inedita per i più, dell'incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi d'identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e flessibili, meticce. Il succedersi degli eventi - dal fatidico 1989 all'11 settembre 2001 e a quel che ne è seguito - mostra il volto drammatico di questa sfida: «Siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari... Per molti anni ancora il problema dell'identità avvelenerà la storia, indebolirà il dibattito intellettuale, diffondendo ovunque l'odio, la violenza e la distruzione» (Amin Maalouf, Identità, Bompiani, Milano 2007, 7s). S'impone una scelta di fondo, che parta dalla constatazione che il meticciato, come processo di incontro e di fusione di culture diverse, è stato sempre presente nella storia. L'illusione di una purezza dell'identità o della razza è follia ideologica. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reciproca comprensione con l'identità altrui che venga ad abitarla. Ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si costruiscano relazioni di reciproco rispetto, di riconoscimento dell'altro e di dialogo. I luoghi in cui questo riconoscimento può generarsi sono la società civile e la famiglia: la fecondazione reciproca delle identità avviene per maturazione delle coscienze attraverso laboratori di convivenza e di compartecipazione. Decisive sono però le condizioni oggettive e strutturali in cui simili laboratori divengano possibili: le garanzie di rispetto della dignità di ogni persona, qualunque sia lo status dell'immigrato, l'educazione alla solidarietà e alla multiculturalità, la scuola, il servizio sanitario, il dialogo fra esperienze religiose diverse, il sostegno alle mediazioni culturali e identitarie. «La società civile, senza una politica (e un'economia) che si faccia carico di proteggere e promuovere il senso di coappartenenza, diventerebbe... il liquefarsi della vita degna dell'uomo» (Paolo Gomarasca, Meticciato: convivenza o confusione?, Venezia 2009, 183). L'"assemblaggio", coinvolgendo tutti, richiede regole certe, che lo rendano possibile e fruttuoso. A quali parametri dovranno ispirarsi queste regole per superare la crisi verso un futuro migliore? È la metafora della navigazione che può forse descrivere la possibilità di un tale superamento: come dovrà essere la barca, risultante dall'assemblaggio delle tavole fornite dal mare? Verso dove guidarla? Un progetto, un codice etico e spirituale, risulta indispensabile. Per l'Italia questo codice è raccolto nella Costituzione Repubblicana, approvata il 22 dicembre 1947, nata dalla confluenza delle anime culturali, che avrebbero cooperato alla ricostruzione fisica e morale del Paese dopo la tragedia della guerra e della dittatura: l'anima cattolica, quella liberale e quella socialista. È in particolare, però, al personalismo d'ispirazione cristiana che la legge fondamentale dello Stato repubblicano deve la sua fonte più ricca in materia di valori, compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio (18-23 luglio 1943), tenutasi nel monastero di Camaldoli, presso Arezzo, da un gruppo di giovani cristiani desiderosi di pensare la crisi e il suo domani. Vi emergeva l'idea della centralità della persona nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia nel quadro della corresponsabilità e della solidarietà nazionale. Un pensatore francese, Emmanuel Mounier, era andato raccogliendo intorno alla dignità dell'essere personale un'analoga visione del mondo: «La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto...» (E. Mounier, Il personalismo, Roma 1964, 11s: orig. Paris 1949). La Costituzione Italiana afferma il principio della dignità assoluta della persona nell'articolo 2, dove afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo». Questi diritti sono considerati naturali, non creati giuridicamente dallo Stato, come fa intendere l'uso del verbo "riconoscere", che implica la preesistenza di essi rispetto alla loro formulazione giuridica. Al principio di singolarità si connette quello di uguaglianza, affermato nell'articolo 3 del testo costituzionale, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale). L'importanza di questi due principi è evidente nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, dei sessi, dei diversamente abili, e oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico di cittadinanza. Rispettare la dignità di ogni essere personale è il primo impegno cui chiama la Costituzione, in piena sintonia con l'idea cristiana dell'assolutezza, singolarità e pari dignità di ogni uomo o donna davanti a Dio e alla storia. È muovendosi con assoluta fedeltà a questo principio che la barca potrà essere costruita in modo da navigare sul mare della storia. La crisi non si supera se la persona, la sua dignità, il suo lavoro, la realtà dei suoi rapporti, non torna ad essere centro e misura dell'economia e della politica. Vorrei chiudere questa carrellata di metafore liquide con una metafora solida, tratta dal "grande codice" dell'ethos occidentale, la Bibbia. Si tratta del racconto della "torre di Babele", che il capitolo 11 della Genesi presenta come l'immagine della confusione disgregante, origine di tutte le crisi nate dalla scissione fra il virtuale - immaginato o preteso - e il reale, vissuto e pagato di persona. C'è però un senso, che sfugge per lo più ai commentatori e che già Voltaire aveva richiamato, sottolineando come il nome "Babele" voglia dire che "el" - il Dio - è padre. Jacques Derrida ne ricava la conclusione che Dio punisce i costruttori della torre per aver voluto in questo modo farsi un nome, costruire da sé il proprio nome, riunirsi in esso: «Li punisce per aver voluto così assicurarsi autonomamente una genealogia unica e universale» (Des tours de Babel, in Aut Aut 189-190, 1982, 70). Non sarà l'omologazione delle differenze il futuro dell'umanità, ma la loro convivialità, il loro reciproco riconoscersi e accettarsi, sul fondamento comune della dignità assoluta di ogni persona umana e del diritto di ciascuno all'uguaglianza, formale e sostanziale. Davanti al Dio della storia, Padre-Madre di tutti, nessun uomo è un'isola: oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, nel rispetto di ognuno, consentendo tutti e ciascuno a regole comuni, certe e affidabili, per navigare insieme sul vasto tratto di mare verso il porto – intravisto nella speranza e mai pienamente posseduto nella realtà – della pace universale e della giustizia per tutti.