Una governance per la crisi. Politiche di fraternità universale

Ho partecipato un mesetto fa a un seminario di studi multidisciplinare, tenutosi alla Camera dei Deputati, ad un anno di distanza dalla scomparsa di Chiara Lubich, per onorare in particolare il suo impegno concretamente universalista ed inclusivo. Riporto qui di seguito il mio intervento, dedicato al tema "fraternità politica e mutamento internazionale".
Ci troviamo in una situazione di portata storica. Il futuro socio-economico e politico-internazionale della vicenda mondiale dipendono dalle scelte che saranno compiute oggi. La crisi economico-finanziaria è esplosa in un momento in cui erano già in atto profonde trasformazioni sullo scenario mondiale. Il mondo in pochi decenni è radicalmente cambiato. Nuovi protagonisti, nuovi Paesi, nuove aree del mondo si affacciano sulla scena, provocando una traslazione o diffusione di potere ed una riconfigurazione di ruoli su scala globale, un global shift of power. Dalla caduta del Muro di Berlino al vacillare del Muro di Wall Street, il sistema internazionale si è trasformato da bipolare in unipolare (anche se forse bisognerebbe precisare che si è trattato di una breve stagione unilaterale), tornando poi ad essere confusamente multipolare, senza necessariamente essere multilaterale, fino alla situazione attuale, che potremmo chiamare multicentrica o persino non-polare. Nonostante tutti questi cambiamenti, le strutture internazionali sono ancora quelle forgiate dopo la Seconda Guerra Mondiale. E’ forse ora di ripensarne la struttura e soprattutto la mission, cioè gli obiettivi che esse devono perseguire. La crisi globale, da questo punto di vista, pur con i suoi risvolti drammatici per intere nazioni e per tante persone e famiglie, può essere anche un’opportunità. Questo è lo sfondo sul quale si staglia la proposta di un cambio di paradigma insito nel pensiero e nell’opera di Chiara Lubich; un nuovo paradigma che mira a sostituire con la dimensione e la consapevolezza della fraternità gli assiomi dominanti della forza da un lato e degli interessi dall’altro; entrambi rivelatisi miopi, improduttivi e persino controproducenti. Certo, non è facile, e può apparire persino naïf, proporre la fraternità come categoria politica anche di natura internazionalistica nel momento in cui sembrano riapparire spinte protezionistiche, tentazioni di scorciatoie che seguono il modello beggar-my-neighbor e che invitano in sostanza ad un buy national ed a chiusure identitarie, mentre su scala planetaria assistiamo ai primi segnali di quella che è stata definita de-globalizzazione o sglobalizzazione. Tuttavia, rileggendo gli interventi e gli scritti di Chiara Lubich su questi temi emerge con chiarezza che non si tratta affatto di un'ennesima «utopia planetaria», ma di un programma di azione che punta alle radici, alla stessa ragion d'essere della comunità internazionale. Direi che la prospettiva che ne emerge, per quanto possa apparire paradossale, è una «teoria pragmatica» della fraternità universale. Una teoria che potremmo oggi definire anticiclica rispetto alla crisi. Tenterò di mettere alla prova l’idea delle fraternità come principio politico su scala globale confrontandolo proprio con due passaggi critici della fase attuale del mondo: da una parte, il tema della governance sia nel senso di riforma delle istituzioni che di revisione delle politiche; dall’altra, il problema che può essere sinteticamente (sebbene impropriamente) definito come lo “scontro di civiltà”, l’affermazione dell’identità e le tensioni che spesso ne derivano.
La globalizzazione – e ne abbiamo la prova con la crisi attuale - ha finito per rimettere in causa, in modo spesso disarmonico e disordinato, la distinzione tra politica nazionale (e sub-nazionale) e politica internazionale. E’ l’intera dimensione spazio-temporale della politica (interna e internazionale) che ne è stata investita. Ed è così paradossalmente accaduto che la condizione attuale di crisi ed il dibattito sulla governance abbiano in qualche misura riabilitato teorie e proposte che fino a poco tempo fa erano considerate velleitarie, eccentriche o irrilevanti per i rapporti internazionali. Basti pensare al filone della “democrazia globale” (David Held, Daniele Archibugi) che affronta alcune incongruenze dello scenario internazionale: democrazia all’interno degli stati e le relazioni non-democratiche tra gli stati; uno stretto legame tra responsabilità e legittimità democratica all’interno dei confini statali e perseguimento della ragion di stato (ed il massimo vantaggio politico possibile) al di fuori di tali confini; democrazia e diritti dei cittadini sulla base di appartenenze e la ricorrente negazione degli stessi diritti per quanti si trovino al di là del confine o che non siano protetti dalle garanzie derivanti dalla comune cittadinanza. Un’altra prospettiva, in vista di una governance democratica globale, propone di verificare se sia possibile proiettare al di là della comunità politica «nazionale» i principi considerati fondanti della struttura politica interna, come la libertà, l’uguaglianza e soprattutto il principio politico della fraternità. Si consideri, ad esempio, l’idea di Rawls, secondo il quale le ineguaglianze e le diversità di ruolo o asimmetrie all’interno della società possono essere giustificate solo se si rivelano più favorevoli per il membro più svantaggiato di essa. Come può tradursi questo principio a livello di politiche delle istituzioni economiche e finanziarie multilaterali? Un altro approccio, quello che fa capo al «welfare internationalism» (Wilfred Jenks), afferma che il benessere degli individui, le condizioni di vita dei singoli esseri umani, dovrebbero essere sempre al centro del sistema della relazioni internazionali e dovrebbero costituire un criterio di giudizio e di valutazione delle performaces delle istituzioni internazionali.
E se applicassimo questo metro al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale ed agli stessi Vertici che si susseguono freneticamente da diversi mesi per fronteggiare la crisi?
In un suo intervento, la Lubich affermava che nel mondo contemporaneo «si esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione dei beni. Ma – aggiungeva – come si sa, i beni non si muovono da soli, non camminano da sé.» Non è un caso se uno dei più importanti ed autorevoli quotidiani del mondo, il Financial Times, abbia parlato proprio dell’«audacia dell’aiuto» (audacity of help). Se questi sono i termini della questione, è evidente che limitarsi alla riconfigurazione – pur importante e per molti versi indispensabile - della governance solo nel senso di un allargamento degli attuali organismi o degli attuali «formati» (dal G8 al G13/G14, al G16 o al G20) risponderebbe solo ad una parte del problema, ed in particolare assegnerebbe, sulla carta, maggiore rappresentatività a questi consessi. Ma il tema, come abbiamo visto, non è solo quello delle strutture e dei processi, quanto piuttosto quello delle politiche, e ancor più quello della formazione della stessa «agenda mondiale». Questo è un punto nodale, che va ben oltre la governance economica. Oggi si parla di una nuova Bretton Woods, cioè della necessità di rifondare le istituzioni finanziarie multilaterali; ma si parla assai meno di una nuova Dumbarton Oaks, cioè dell’esigenza di rivedere profondamente anche le Nazioni Unite ed il loro sistema di governo, in senso più paritario, rappresentativo, democratico. Se è ormai insufficiente l’idea di una governance without government, questo non vuole dire che si debba necessariamente prospettare un vero e proprio governo mondiale. Il mondo ha però bisogno di ampliare i canali di partecipazione e di responsabilità, a livello di istituzioni internazionali, a livello di governi, a livello di una cittadinanza attiva che non resti confinata negli ambiti nazionali. La fraternità ci suggerisce un progetto di unità nella distinzione, l’idea cioè di un’Autorità mondiale a carattere pluralista e a diversi livelli di sussidiarità, che porti ad un grado di maggior avanzamento il progetto appena abbozzato nell'impianto multilaterale delle Nazioni Unite. L’inizio del XXI secolo è stato caratterizzato dal grande tema dello «scontro delle civiltà», che ci ha persino spinti talvolta verso la deriva di una «civiltà dello scontro». Si sono manifestate forme di reazione alla globalizzazione, che è stata vissuta spesso come un fenomeno uniformante senza essere affatto unificante. Da questo punto di vista, è chiaro che la globalizzazione non è un fenomeno Universale, in quanto non consente a tutti di potervisi riconoscere o di sentirsene espressi. A ben guardare, oggi forse la categoria più importante nelle relazioni internazionali è quella dell’identità. Ma l’identità non va intesa come un fatto monolitico. Una cosa infatti è l’identità, un’altra cosa sono le appartenenze. L’identità è data da diverse appartenenze, che rendono «declinabile» il concetto di identità. Tuttavia le identita’ – come sostiene Alexander Wendt - non dovrebbero essere definite in termini sostantivi, cioè come date ed immutabili, poiché esse sono prevalentemente relazionali. Il progressivo sviluppo di un maggior numero di «identità collettive» – che tuttavia rispettino le identità originarie – tra contesti socio-politici diversi è pertanto uno dei processi centrali della politica internazionale. La grande sfida oggi è quella della ricerca e «messa in valore» di un’identità «collettiva» e dialogica più ampia, a livello globale, che tuttavia non distrugga il sistema delle appartenenze, ma che proprio a partire da esse costruisca una comune identità molteplice. Dalla visione della Lubich – fondatrice di un Movimento strutturalmente e direi persino geneticamente multiculturale, multietnico, multireligioso, diffuso in tutto il mondo – emerge il disegno di una ricchissima «identità collettiva», anzi di un’identità mutualmente comunicata, offerta e partecipata. “La più alta dignità per l’umanità – afferma la Lubich – sarebbe, infatti, quella di non sentirsi un insieme di popoli spesso in lotta fra loro”, ma, proprio grazie alla fraternità, “un solo popolo, arricchito dalla diversità di ognuno e per questo custode nell’unità delle differenti identità.” Si tratta, pertanto, di un concetto di mondialità più che di globalità, con un carattere davvero universale. E che ha una dimensione molto concreta: è l’idea di una «interdipendenza fraterna», concepita come «mutua dipendenza», perché essa implica che l’affermazione dell’identità «non può avvenire né per difesa, né per opposizione, ma si raggiunge attraverso la comunione delle risorse, delle virtù civiche, delle caratteristiche culturali, delle esperienze politico-istituzionali.» La cifra fondamentale di questa prospettiva è riassumibile nel celebre detto della Lubich: «Amare la patria altrui come la propria». Un capovolgimento di prospettiva radicale, dove la messa in valore delle identità nazionali, al riparo dal rischio sempre presente del nazionalismo e del particolarismo, non è in contraddizione con il riconoscimento sereno e costruttivo delle identità altrui. Lungi dal configurare contrapposizioni e frammentazioni, questa identità «dialogica» è il fondamento di una comunità mondiale arricchita proprio dall'incontro delle diversità. Inoltre, è un universalismo che non ha una natura astratta, perché parte dalle persone e dalle varie articolazioni della società e non si lascia confinare negli spazi spesso angusti dei rapporti tra governi e nei rigidi canoni delle relazioni diplomatiche. L'universalismo dell'unità è infatti anzitutto una prassi sociale, un modulo partecipativo, un modo di guardare al mondo dal punto di vista della fraternità e della reciproca appartenenza, come interdipendenza attiva e positiva, che ben poco ha in comune con la dimensione impersonale, con le macro-dinamiche della globalizzazione o l'istinto difensivo delle piccole patrie e di chiusura auto-referenziale che essa talvolta provoca. Concludo. Benedict Anderson ha scritto, a proposito delle identità nazionali, che esse, in fondo, sono tutte immaginate; ma ciò non significa affatto che esse siano anche immaginarie. Analogamente, la proiezione transnazionale della fraternità come principio politico implica la necessità di ampliare i margini dell’immaginazione politica, concependo le comunità nazionali non giustapposte ad altre ma limitrofe, tutte confinanti con l’umanità in quanto tale. Anche in questo caso, l’immaginazione politica rappresenta in realtà un esercizio di realismo politico, perché questa visione oggi è assai più aderente alla effettiva configurazione del mondo rispetto alle concezioni che privilegiano la politica di potenza o le varie versioni di egemonia. Un brano della Lubich fa stato di inquietudini e speranze nelle quali mi pare molti di noi si possano riconoscere in una situazione, come quella attuale, in rapida trasformazione, ricca di incognite ma anche di potenzialità: «In molti ci chiediamo oggi, a New York come a Bogotà, a Roma come a Nairobi, a Londra come a Bagdad, se sia possibile vivere in un mondo di popoli liberi, uguali, uniti, non solo rispettosi l’uno delle necessità dell’altro, ma anche solleciti alle rispettive necessità. La risposta è una sola: non solo è possibile, ma è l’essenza del progetto politico dell’umanità».