Dialogare con il nemico? (parte quinta)

Continuando la rassegna (più o meno meditata) di commenti sulle ipotesi di dialogo con i nemici, riporto qui di seguito il commento pubblicato di Bob Kaplan pubblicato sul "Corriere della sera" l'11 aprile 2009 (originalmente su "The Atlantic" on-line il 6 aprile 2009). Kaplan non è certo un pacifista ad oltranza, né è uno che appare molto incline al cosiddetto "appeasement", tutt'altro. Rientra piuttosto nel filone del cosiddetto neo-realismo in politica estera. Per Kaplan, la vicenda afghana è strettamente collegata a quella pachistana, anche attraverso filoni meno evidenti, "carsici". La complessità di quella regione non consente semplificazioni pregiudiziali come quelle che ci capita spesso di sentire nei commenti più ideologizzati - regolarmente erronei e potenzialmente persino dannosi per la causa della pace.
Per quanto sia forte l`influenza esercitata su un dato Paese, è raro che si possa indurlo ad agire contro i suoi interessi vitali. Gli Stati Uniti si scontrano ormai da decenni con questo dilemma, nell`ambito dei loro rapporti con Israele e Corea del Sud. E l`interesse basato su fattori geografici a rendere i rapporti dell`America con questi due stretti alleati particolarmente incrinabili. Israele si ostina da lungo tempo -a rifiutare di ridurre gli insediamenti nei territori occupati, vanificando così gli sforzi di pacificazione `orchestrati dagli Usa, proprio mentre i loro soldati muoiono in Iraq e in Afghanistan. La Corea del Sud, viceversa, ha teso in particolari circostanze un ramoscello d`olivo ai comunisti nordcoreani, frustrando in tal modo i tentativi statunitensi di erigere un fronte solido e compatto contro il regime di Pyongyang. Oggi l`America si trova a fronteggiare questo stesso problema con un altro dei suoi presunti alleati: il Pakistan. Gli Usa pretendono che la direzione dell`Inter-services intelligence (Isi), l`agenzia di spionaggio del Pakistan, tronchi ogni rapporto con i talebani. In ragione della configurazione geografica del loro Paese, agli occhi dei pachistani tutto ciò appare insensato. Innanzi tutto, mantenere linee di comunicazione e canali informali con il nemico rientra tra le attività delle agenzie di intelligence. Se l`Isi non intrattenesse alcun contatto con uno degli attori chiave che concorreranno a determinare il futuro del suo Paese vicino, che genere di servizio spionistico sarebbe? Ciò appare particolarmente evidente se si considera il lungo e turbolento confine territoriale tra Pakistan e Afghanistan, e come i due Paesi formino un`unica, organica regione. A dir la verità, Sugata Bose, professore di Storia ad Harvard, nel 2003 ha sostenuto che la zona frontaliera tra Pakistan e Afghanistan «storicamente non è mai stata una frontiera», bensì il «cuore» stesso di un «bacino economico, culturale e politico indo-persiano e indo-islamico che aveva stretto a sé Afghanistan e Punjab per due millenni». Il fatto, come ormai tutti ribadiscono, che non può esservi una soluzione per l`Afghanistan senza una soluzione per il Pakistan, è di per sé rivelatore di quanto sia forte il legame che unisce i due Paesi. Per questo è ancor più importante che l`Isi mantenga contatti e reti informative sofisticate con tutti i principali gruppi politici e di guerriglieri afghani. Anche gli Stati Uniti hanno seguito la stessa strada. Nel 1976, l`inviato speciale Talcott Seelye poté dar corso all`evacuazione dei diplomatici americani e delle loro famiglie da una Beirut devastata dalla guerra soltanto grazie ai contatti con l`Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), un gruppo con cui all`epoca, teoricamente, non si sarebbe dovuto trattare. E tutti concordano nel sostenere che fu un grave errore, da parte dell`America, abbandonare in modo repentino la regione di confine tra Pakistan e Afghanistan dopo la caduta del Muro di Berlino, buttando alle ortiche i contatti meticolosamente costruiti in loco. E bene ricordare che non furono gli integralisti infiltrati nei ranghi dell`lsi a decidere, nella metà degli anni '80,di favorire l`ascesa al potere dei talebani: fu il governo democraticamente eletto di Benazir Bhutto, leader politico formatosi in Occidente, a imboccare quella strada, nella convinzione che i talebani avrebbero contribuito alla stabilizzazione dell`Afghanistan. Questo retroterra indica quanto sia forte il sostegno all`opzione del dialogo con i talebani da parte della classe politica pachistana. L`establishment politico e militare pachistano osserva l`Afghanistan attraverso la lente del conflitto con l`India. Quando guarda a Ovest, prefigura un «Islamistan» conl`Afghanistan e altri Paesi dell`Asia centrale, da mettere in diretta contrapposizione all`India a maggioranza indù, a est del Pakistan. Il presidente afghano Hamid Karzai, di orientamento filo-occidentale e filo-indiano, si pone come intralcio alle mire pachistane. Anche qualora raggiungessero un`intesa con Karzai, tuttavia, le autorità di Islamabad avrebbero pur sempre bisogno di intrattenere contatti con tutti i gruppi afghani, compresi i talebani. Ovviamente, gli Stati Uniti possono e devono pretendere che il Pakistan rinunci ad aiutare i talebani a pianificare ed eseguire le loro operazioni. Ma troncare completamente i rapporti è un`ipotesi che i pachistani, molto semplicemente, non possono attuare, e tentare di insistere su questo punto significherebbe soltanto esacerbare le tensioni tra Pakistan e America. Che cosa fare, dunque? C`è chi sostiene che l`America dovrebbe abbandonare tout court l`impegno in Afghanistan, con l`eccezione degli attacchi mirati contro Al Qaeda. Ma il presidente Barack Obama ha già deciso in senso opposto, e sta rafforzando la campagna con l`invio di nuove truppe e personale civile, dando corso di fatto l "nation-building" dell`Afghanistan. La speranza è che, dirottando il corso della guerra a nostro favore, i pachistani possano, in virtù dei loro stessi interessi, raggiungere un miglior accordo con il filo-occidentale Karzai, pur mantenendo contatti meno pregiudizievoli e di basso livello con i talebani. Il meglio che possiamo augurarci. Come in Iraq, potremmo scoprire che per mettere a segno progressi e delineare una strategia d`uscita, sarà necessario intavolare negoziati con alcuni degli elementi stessi contro cui ci battiamo. E, a un dato momento, potremmo anche ritrovarci a trattare direttamente con esponenti dei talebani. L`unica cosa che gli Stati Uniti non possono permettersi, in una situazione così intricata, è lanciare coram populo secchi ultimatum a quelli che dovrebbero essere i suoi alleati.