2011, crisi e rivoluzioni: più immaginazione!
Se si dovesse sintetizzare il 2011 in due parole, queste potrebbero essere crisi e rivoluzione. Serie situazioni sociali, economiche, ambientali e processi di cambiamento radicale hanno colpito diverse aree del pianeta. L’Europa è stata investita da una tempesta finanziaria che ha messo in ginocchio non solo l’Euro, ma le stesse politiche di integrazione europea. Il compromesso raggiunto a Bruxelles agli inizi di dicembre per un’unione fiscale a 26 (la Gran Bretagna ne resta volontariamente fuori) sa più di disperazione che di visione prospettica. In ogni caso, come sempre l’Europa sa trovare vie d’uscita, se non soluzioni, proprio quando affronta momenti drammatici. Nel frattempo, il mondo diventa sempre meno “occidentale” e sempre meno “europeizzato”. Si consolida il ruolo dei “Brics” (Brasile, Russia, India, Cina ed ora anche Sudafrica) come gruppo di Paesi economicamente emergenti, con potenzialità anche sotto il profilo politico. La grande sfida che abbiamo dinanzi è far sì che questa moltiplicazione di centri del potere mondiale non danneggi le istituzioni multilaterali, come le Nazioni Unite che, bene o male, continuano a rappresentare un nucleo, per quanto imperfetto, di democrazia globale. Anche perché, come ha dimostrato la grande catastrofe del maremoto in Giappone e il grave danneggiamento della centrale nucleare di Fukushima, oggi i rischi (di qualsiasi genere) sono potenzialmente “universali”; lo sostiene da tempo, fondatamente, il sociologo tedesco Ulrick Beck. L’altra grande vicenda del 2011 è il risveglio del mondo arabo-islamico, con una serie di “rivoluzioni” che hanno assunto fattezze diverse a seconda dei Paesi e dei regimi politici. Nei sistemi a carattere più militaristico e di controllo di polizia (Libia, Siria), le vicende sono state - e sono tuttora – drammatiche; nel caso della Libia, ancora una volta la scorciatoia è stata una guerra. E qualche irresponsabile parla persino di attacco all’Iran. Speriamo che in futuro la politica internazionale ci porti più immaginazione e meno bombe.
L’Europa, il Mediterraneo e il dialogo post-secolare
Gli eventi in corso nella regione mediterranea e mediorientale stanno portando già - e porteranno verosimilmente ancor più in futuro - ad una maggiore apertura democratica in buona parte dei paesi dell’area, non solo in quelli direttamente toccati dai sommovimenti popolari.
In particolare, si assiste all’espansione della sfera di partecipazione politica, con l’ingresso sulla scena politico-elettorale di nuovi attori. In alcuni di tali Paesi hanno fatto la loro comparsa o si sono consolidati movimenti politici di ispirazione religiosa, in taluni casi banditi, sinora, dalla vita politica nazionale. In ogni caso, occorre essere consapevoli che senza una piena integrazione dell’Islam politico nello scenario la stessa sostenibilità delle trasformazioni in corso può risultarne indebolita.
In molti Paesi europei (ad esempio in Italia, Germania, Belgio, Spagna, e per alcuni versi anche in Francia) sono state sperimentate, negli anni, formule di impegno politico di cittadini portatori di visioni del mondo improntate a motivazioni religiose. L’esperienza storica dei movimenti politici europei di ispirazione religiosa è stata caratterizzata da una modalità di presenza nel sistema politico che ha tenuto conto dei principi di laicità e si è articolata nel contesto di istituzioni democratiche e rappresentative, con il pieno recepimento dei principi costituzionali e il rispetto del pluralismo politico e culturale.
In tale ambito, potrebbe rivelarsi utile instaurare un dialogo, nel Mediterraneo, in questa fase di cambiamenti strutturali nella regione, tra organismi e singoli studiosi che possano condividere con interlocutori del mondo arabo analisi e proposte basare sul patrimonio di esperienze e di idee sopra richiamato, evidenziandone le opportunità ma non sottacendone anche le possibili criticità.
In questo scenario dovrebbe essere inclusa anche la Turchia, ove è già in corso un esperimento di declinazione politica di principi derivanti dalla religione islamica, pur nel contesto della condizionalità democratica necessaria per ottemperare ai parametri richiesti per l’ingresso nell’Unione Europea.
Inoltre che questo tema deve essere approfondito anche in una dimensione interconfessionale ed interreligiosa.
Alcuni punti vanno fissati anche nella prospettiva di una riflessione su tale ipotesi di nuovo partenariato tra attori politici:
• la prospettiva deve guardare al futuro, non al passato;
• non ha relazione alcuna con le "formule politiche" (tipo unità politica dei cristiani o degli “islamici”);
• non deve porsi dal punto di vista delle religioni, ma da quello dei sistemi politici e degli attori in essi rilevanti;
• non riguarda l'Italia o altri singoli Paesi, ma il rapporto tra il mondo euro-atlantico e quello mediterraneo;
• concerne la dimensione che è stata battezzata “post-secolare”; essa chiama in causa, tra le altre cose, il ruolo pubblico delle religioni dal punto di vista delle motivazioni dell’impegno politico;
• richiede un approfondimento sulla laicità dello stato e delle istituzioni alla luce sia dell’esperienza europea che dei nuovi movimenti apparsi sulla scena nel mondo arabo-islamico (da questo punto di vista, la modellistica deve essere il più possibile ampia, e deve essere collocata su un continuum delle possibili declinazioni tra Islam e politica che parte, dal lato del radicalismo, dalla pseudo-teocrazia iraniana e giunge, dal lato del pluralismo, all’assetto indonesiano, passando per il “canone” pakistano e l’accomodamento pragmatico turco);
• comporta una seria e fondata analisi comparata tra i diversi movimenti al fine di identificare i possibili segmenti di intersezione ideale e operativa
Un argomento a parte riguarda l’eventuale grado di condizionalità nell’approccio dialogante nei riguardi dei movimenti ad ispirazione islamica che decidono di entrare nell’agone politico. Sicuramente sono importanti i parametri della:
• rinuncia ad ogni forma di violenza;
• accettazione di valori democratici in senso lato (in particolare il pluralismo);
• uguaglianza (non discriminazione, questioni di genere).
A questi principi politici se ne possono aggiungere anche altri, legati in particolare alla questione dell’adozione di un quadro giuridico ed etico fondato sulla libertà individuale e non esclusivamente sulla soggettività delle comunità.
In particolare, si assiste all’espansione della sfera di partecipazione politica, con l’ingresso sulla scena politico-elettorale di nuovi attori. In alcuni di tali Paesi hanno fatto la loro comparsa o si sono consolidati movimenti politici di ispirazione religiosa, in taluni casi banditi, sinora, dalla vita politica nazionale. In ogni caso, occorre essere consapevoli che senza una piena integrazione dell’Islam politico nello scenario la stessa sostenibilità delle trasformazioni in corso può risultarne indebolita.
In molti Paesi europei (ad esempio in Italia, Germania, Belgio, Spagna, e per alcuni versi anche in Francia) sono state sperimentate, negli anni, formule di impegno politico di cittadini portatori di visioni del mondo improntate a motivazioni religiose. L’esperienza storica dei movimenti politici europei di ispirazione religiosa è stata caratterizzata da una modalità di presenza nel sistema politico che ha tenuto conto dei principi di laicità e si è articolata nel contesto di istituzioni democratiche e rappresentative, con il pieno recepimento dei principi costituzionali e il rispetto del pluralismo politico e culturale.
In tale ambito, potrebbe rivelarsi utile instaurare un dialogo, nel Mediterraneo, in questa fase di cambiamenti strutturali nella regione, tra organismi e singoli studiosi che possano condividere con interlocutori del mondo arabo analisi e proposte basare sul patrimonio di esperienze e di idee sopra richiamato, evidenziandone le opportunità ma non sottacendone anche le possibili criticità.
In questo scenario dovrebbe essere inclusa anche la Turchia, ove è già in corso un esperimento di declinazione politica di principi derivanti dalla religione islamica, pur nel contesto della condizionalità democratica necessaria per ottemperare ai parametri richiesti per l’ingresso nell’Unione Europea.
Inoltre che questo tema deve essere approfondito anche in una dimensione interconfessionale ed interreligiosa.
Alcuni punti vanno fissati anche nella prospettiva di una riflessione su tale ipotesi di nuovo partenariato tra attori politici:
• la prospettiva deve guardare al futuro, non al passato;
• non ha relazione alcuna con le "formule politiche" (tipo unità politica dei cristiani o degli “islamici”);
• non deve porsi dal punto di vista delle religioni, ma da quello dei sistemi politici e degli attori in essi rilevanti;
• non riguarda l'Italia o altri singoli Paesi, ma il rapporto tra il mondo euro-atlantico e quello mediterraneo;
• concerne la dimensione che è stata battezzata “post-secolare”; essa chiama in causa, tra le altre cose, il ruolo pubblico delle religioni dal punto di vista delle motivazioni dell’impegno politico;
• richiede un approfondimento sulla laicità dello stato e delle istituzioni alla luce sia dell’esperienza europea che dei nuovi movimenti apparsi sulla scena nel mondo arabo-islamico (da questo punto di vista, la modellistica deve essere il più possibile ampia, e deve essere collocata su un continuum delle possibili declinazioni tra Islam e politica che parte, dal lato del radicalismo, dalla pseudo-teocrazia iraniana e giunge, dal lato del pluralismo, all’assetto indonesiano, passando per il “canone” pakistano e l’accomodamento pragmatico turco);
• comporta una seria e fondata analisi comparata tra i diversi movimenti al fine di identificare i possibili segmenti di intersezione ideale e operativa
Un argomento a parte riguarda l’eventuale grado di condizionalità nell’approccio dialogante nei riguardi dei movimenti ad ispirazione islamica che decidono di entrare nell’agone politico. Sicuramente sono importanti i parametri della:
• rinuncia ad ogni forma di violenza;
• accettazione di valori democratici in senso lato (in particolare il pluralismo);
• uguaglianza (non discriminazione, questioni di genere).
A questi principi politici se ne possono aggiungere anche altri, legati in particolare alla questione dell’adozione di un quadro giuridico ed etico fondato sulla libertà individuale e non esclusivamente sulla soggettività delle comunità.
Palestina, lo stato che manca
Il significato del "riconoscimento" dello stato della Palestina da parte dell'Unesco (organizzazione dell'Onu che si occupa di cultura) è certamente simbolico, ma non è per nulla irrilevante. Al contrario, è destinato a provocare un terremoto in tutta la politica mediorentale, con contraccolpi a livello globale.
È anzitutto interessante osservare come nell'ampia maggioranza dei paesi favorevoli (107) vi siano la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica, la Russia e tutti i Paesi arabi: tutto il fronte dei paesi emergenti ed in transizione, quasi a sancire una sorta di sfida implicita al cosiddetto "ordine mondiale".
Quanto all'Europa, come nella schedina del totocalcio, ha giocato tutte e tre le possibili opzioni 1 X 2; a favore la Francia, contraria la Germania, astenute Italia e Gran Bretagna. Tuttavia il quadro cambia aspetto se si considera che tutti i paesi mediterranei, del sud e del nord, con la sola eccezione dell'Italia (decisione ardua da motivare) e del Montenegro (se vogliamo considerarlo un paese mediterraneo),hanno votato a favore (ovviamente Israele si è opposta).
In campo occidentale, scontata ma non meno grave la posizione contraria degli Stati Uniti; atteggiamento che pare davvero difficile fondare su serie considerazioni di politica internazionale, e che invece sembra rispondere ad una ferrea logica di gruppi di pressione interni, ai quali nemmeno un deludente Obama è stato capace di sottrarsi, tanto più in vista delle presidenziali di novembre 2012. Non ha senso, infatti, continuare a ripetere all'infinito che la soluzione dei "due popoli, due Stati", deve venire solo da accordi bilaterali. Dalle intese di Oslo in poi, passando per il pomposo ma vacuo vertice di Annapolis nel 2007, lo Stato palestinese non solo non è stato creato attraverso i negoziati diretti, ma vi sono stati sostanziali e forse irrimediabili passi indietro ( basti pensare alla esponenziale espansione degli insediamenti israeliani). Insomma, se la comunità internazionale non assicura un impulso, non succede un bel nulla, ed anzi si compromette quel poco che si è ottenuto.
Da questo punto di vista, l'iniziativa di Abu Mazen di presentare formale domanda di adesione alle Nazioni Unite lo scorso 23 settembre, per quanto se ne possa discutere l'opportunità politica, ha avuto quanto meno il merito di smuovere le acque. Lo status quo è durato troppo ha lungo, si è trasformato in una strategia politica dilatoria; oggi non è più sostenibile.
È anzitutto interessante osservare come nell'ampia maggioranza dei paesi favorevoli (107) vi siano la Cina, l'India, il Brasile, il Sudafrica, la Russia e tutti i Paesi arabi: tutto il fronte dei paesi emergenti ed in transizione, quasi a sancire una sorta di sfida implicita al cosiddetto "ordine mondiale".
Quanto all'Europa, come nella schedina del totocalcio, ha giocato tutte e tre le possibili opzioni 1 X 2; a favore la Francia, contraria la Germania, astenute Italia e Gran Bretagna. Tuttavia il quadro cambia aspetto se si considera che tutti i paesi mediterranei, del sud e del nord, con la sola eccezione dell'Italia (decisione ardua da motivare) e del Montenegro (se vogliamo considerarlo un paese mediterraneo),hanno votato a favore (ovviamente Israele si è opposta).
In campo occidentale, scontata ma non meno grave la posizione contraria degli Stati Uniti; atteggiamento che pare davvero difficile fondare su serie considerazioni di politica internazionale, e che invece sembra rispondere ad una ferrea logica di gruppi di pressione interni, ai quali nemmeno un deludente Obama è stato capace di sottrarsi, tanto più in vista delle presidenziali di novembre 2012. Non ha senso, infatti, continuare a ripetere all'infinito che la soluzione dei "due popoli, due Stati", deve venire solo da accordi bilaterali. Dalle intese di Oslo in poi, passando per il pomposo ma vacuo vertice di Annapolis nel 2007, lo Stato palestinese non solo non è stato creato attraverso i negoziati diretti, ma vi sono stati sostanziali e forse irrimediabili passi indietro ( basti pensare alla esponenziale espansione degli insediamenti israeliani). Insomma, se la comunità internazionale non assicura un impulso, non succede un bel nulla, ed anzi si compromette quel poco che si è ottenuto.
Da questo punto di vista, l'iniziativa di Abu Mazen di presentare formale domanda di adesione alle Nazioni Unite lo scorso 23 settembre, per quanto se ne possa discutere l'opportunità politica, ha avuto quanto meno il merito di smuovere le acque. Lo status quo è durato troppo ha lungo, si è trasformato in una strategia politica dilatoria; oggi non è più sostenibile.
Europa: evitare la deriva
Mentre la barca rischia di affondare, ha senso pensare di progettare una barca nuova, più solida e sicura? La risposta è si, se si pensa che la nostra barca malandata riuscirà comunque a resistere alla tempesta in cui ci troviamo. In fondo, è questa la metafora che pare appropriata per descrivere le nuove ipotesi di riforma dei trattati europei nel pieno della crisi dell'Eurozona. La prospettiva di una "Unione fiscale" ventilata dalla Cancelliera Merkel e condivisa dal premier Monti (accolta con molti "distinguo" da Sarkozy) non è comunque una misura emergenziale, ma un progetto complicato di medio periodo. Quel che è certo è che vengono oggi al pettine i nodi dell'Euro, una moneta senza stato (o meglio, con "troppi" stati, nel senso di politiche economiche diverse) e soprattutto senza una guida politica. In effetti, non dobbiamo dimenticare che a quasi venti anni dal Trattato di Maastricht l'Euro rimane un progetto incompiuto, e perciò lontano da quella visione integrativa che aveva animato l'era di Jacques Delors. La moneta unica rappresentava una componente di un disegno complessivo, "quasi-federale", al quale i Governi europei hanno sostanzialmente rinunciato. Ci troviamo dunque a fare i conti con uno strumento di sovranità condivisa, come l'Euro, mentre un pò tutti in Europa hanno ricominciato e credere nella grande illusione della sovranità nazionale. Se dovessimo riassumere le ragioni della perdita di credibilità dell'Eurozona, potremmo identificarne la causa principale proprio in questo rischio di frammentazione nazionale delle politiche europee. Il paradosso è che proprio quella che è ormai ritenuta una "utopia", e cioè una politica economica unica almeno per l'area Euro, rappresenterebbe l'unica misura realistica per salvare non solo la moneta unica, ma forse la stessa costruzione europea. Una volta di più si dimostra che se i grandi progetti politici non progrediscono, non restano tali e quali, ma regrediscono e rischiano persino di dissolversi. Ma c'è anche un'altra questione che emerge in questi mesi turbolenti: la tentazione, cioè, di creare un'Europa "centrale" ed un'Europa "marginale". Non solo in termini geografici (basti pensare che gli stati più in crisi sono anche quelli "periferici") ma anche come processi decisionali. L'impressione è che le questioni più importanti non solo vengono trattate solo da pochi Paesi " che contano", ma vengono anche decise al di fuori delle istituzioni europee propriamente dette. Una deriva da evitare: l'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è un'Europa diseguale, asimmetrica, polarizzata, cioè il contrario della sua ragion d'essere politica ed istituzionale.
The reverse "Silk Road"
When the history-based metaphor of the “Silk Road” is used, that is done mainly with reference to the new set of relations that the Euro-Atlantic world is keen to build with rising Central-Asian countries. However, confining the image of the Silk Road to a bilateral axis West-East is misleading.
Other regions of the world are becoming increasingly interested in that strategic road. The point is that whereas the Euro-Atlantic concerns regard the past and the current corridor to the Far East, other actors consider it a pathway to the future. Some analysts see, for instance, a clear connection between the rising Arab world and the New Silk Road, as a result of the growing influence of China in that area.
We should not forget that Central Asia has for centuries been an area of crucial interest for China, since it was the country’s gateway to the world. After the independence of former Soviet Republics as Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, and Uzbekistan Chinese foreign policy has been very attentive to the developments in the region, also a consequence of the “Western” military operations in Afghanistan. The Shanghai Cooperation Organization is an early evidence of such awareness of the Chinese leadership. From the point of view of Beijing, the “New Silk Road diplomacy” is a Chinese trademark.
China is even planning a physical "New Silk Road" that will run “backwards”, through Central Asia and continue into Europe. The route within China will start in Lianyungang, in East China's Jiangsu province, and travel through Xi'an, in Northwest China's Shaanxi province, before reaching the Xinjiang Uygur autonomous region. The proposed route will continue through Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, Iran and Turkey, before heading into Europe. China has also proposed two other road connections between China and Europe -- one going via Kazakhstan and Russia and the other going through Kazakhstan and via the Caspian Sea. In addition to that, China is advocating a rail link that would start from the Xinjiang Uygur autonomous region in China and pass through Tajikistan, Kyrgyzstan and Afghanistan before arriving in Iran; the railway would then be divided into two routes -- one of which would lead to Turkey and Europe.
So, the Silk Road is not a western monopoly; moreover, it would rather be a Silk Road to Europe.
We should also recall that the historical “Silk Road” had an economic and trade-oriented meaning; generally speaking, it doesn’t fit very well in the strategic and security concerns that lay at the foundation of the concept of a “New” Silk Road.
There is, however, one way to retrieve the original conceptual depth of that metaphor, and it is its anthropological and cultural meaning. Some authors and analysts already refer to the “Silk Road” as a way to evoke the need to overcome differences in different domains, as in the case of the “digital divide”. In this semantically rich acception, the Silk Road is rather (and correctly) perceived as a “bridge”, instead of being a tool for achieving other strategic goals, following a hidden agenda.
Other regions of the world are becoming increasingly interested in that strategic road. The point is that whereas the Euro-Atlantic concerns regard the past and the current corridor to the Far East, other actors consider it a pathway to the future. Some analysts see, for instance, a clear connection between the rising Arab world and the New Silk Road, as a result of the growing influence of China in that area.
We should not forget that Central Asia has for centuries been an area of crucial interest for China, since it was the country’s gateway to the world. After the independence of former Soviet Republics as Kazakhstan, Kyrgyzstan, Tajikistan, Turkmenistan, and Uzbekistan Chinese foreign policy has been very attentive to the developments in the region, also a consequence of the “Western” military operations in Afghanistan. The Shanghai Cooperation Organization is an early evidence of such awareness of the Chinese leadership. From the point of view of Beijing, the “New Silk Road diplomacy” is a Chinese trademark.
China is even planning a physical "New Silk Road" that will run “backwards”, through Central Asia and continue into Europe. The route within China will start in Lianyungang, in East China's Jiangsu province, and travel through Xi'an, in Northwest China's Shaanxi province, before reaching the Xinjiang Uygur autonomous region. The proposed route will continue through Kyrgyzstan, Uzbekistan, Tajikistan, Turkmenistan, Iran and Turkey, before heading into Europe. China has also proposed two other road connections between China and Europe -- one going via Kazakhstan and Russia and the other going through Kazakhstan and via the Caspian Sea. In addition to that, China is advocating a rail link that would start from the Xinjiang Uygur autonomous region in China and pass through Tajikistan, Kyrgyzstan and Afghanistan before arriving in Iran; the railway would then be divided into two routes -- one of which would lead to Turkey and Europe.
So, the Silk Road is not a western monopoly; moreover, it would rather be a Silk Road to Europe.
We should also recall that the historical “Silk Road” had an economic and trade-oriented meaning; generally speaking, it doesn’t fit very well in the strategic and security concerns that lay at the foundation of the concept of a “New” Silk Road.
There is, however, one way to retrieve the original conceptual depth of that metaphor, and it is its anthropological and cultural meaning. Some authors and analysts already refer to the “Silk Road” as a way to evoke the need to overcome differences in different domains, as in the case of the “digital divide”. In this semantically rich acception, the Silk Road is rather (and correctly) perceived as a “bridge”, instead of being a tool for achieving other strategic goals, following a hidden agenda.
Il dopo-guerra libico
In queste ore si accentua la sensazione di un “accerchiamento” di Gheddafi, non tanto per i progressi militari o per un’accelerazione delle operazioni dei “ribelli” sul terreno (pur apprezzabile), quanto per una brusca accentuazione del processo di disgregazione interna del regime. Il controllo delle citta’ di Zlitan, Surman e Brega può effettivamente marcare una svolta, perché in tal mondo si interrompe una importante linea di rifornimento per le forze di Gheddafi. Inoltre, la defezione dell'ex numero due del regime, Abdel Salam Jalloud, uno dei compagni di Gheddafi nelle rivoluzione del 1969 acquista un significato politico innegabile.
Ciò detto, non credo sia mai stato in dubbio l’esito “militare” delle vicenda libica. E dunque la questione non è la debellatio. Lo squilibrio delle forze è tale che non ci possono essere illusioni di “resistenza” da parte del regime. La questione vera è se la crisi libica possa o meno trasformarsi in una sorta di conflitto a bassa intensità, con diffusa instabilità politica anche dopo la “vittoria” del Consiglio Nazionale Transitorio. Gli interventi militari di stabilizzazione devono infatti affrontare la questione cruciale di tutti i conflitti, e cioè cosa fare una volta che le ostilità sono giunte al termine. Tutte le guerre, senza eccezioni, si “vincono” davvero non tanto sul campo, ma in due momenti successivi: alle conferenze di pace e nei processi di riconciliazione nazionale. I conflitti mondiali del Novecento hanno confermato la verità di questo assunto, nel bene e nel male. Le operazioni militari in Iraq ed Afghanistan ne sono la riprova nel XXI secolo. Ora, ciò che impressiona nell’atteggiamento della comunità internazionale in relazione alla vicenda libica è l’adozione di un approccio che potremmo definire “incrementale” ed empirico. In altri termini, non pare che ci sia stato mai davvero un “piano” politico e diplomatico per la fase successiva ai bombardamenti della NATO ed alle incursioni dei ribelli di Bengasi. Anche il riconoscimento ufficiale del Consiglio Nazionale Transitorio è avvenuto dopo molte settimane dall’inizio delle ostilità ed in modo scoordinato. Molti osservatori hanno criticato l’avvio delle operazioni militari in Libia mettendone in risalto la mancanza di adeguata preparazione. C’è una parte di verità in tali critiche, ma la questione vera riguarda, in realtà, la mancanza di preparazione politica del “dopo”.
Ora, è evidente che negli interventi di stabilizzazione la questione della conferenza di pace internazionale è tutto sommato secondaria, dal momento che sono all’opera delle coalizioni più o meno coese che tengono regolarmente dei vertici, che adottano conclusioni spesso “ecumeniche” che è difficile tradurre in politiche concrete. Dunque la questione vera concerne l’eventuale percorso di riconciliazione nazionale. Lo abbiamo visto in Afghanistan: dopo anni di rifiuti e veti reciproci, si comprende che senza un contesto di riavvicinamento delle fazioni contrapposte è assai difficile parlare il linguaggio della stabilità politica.
Nel caso della Libia, il tema della riconciliazione nazionale ha fatto capolino qua e là durante questi mesi, ma non pare che sia stata immaginata una strategia coerente ed efficace per arrivarci. A parte l’irriducibilità di Gheddafi, che è un fatto scontato, c’è tuttavia la questione assai più complessa e delicata del nuovo “progetto nazionale” per la Libia. Le tre entità storico-geografiche della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan dovranno trovare un nuovo assetto comune dopo l’unificazione dall’alto compiuta da Gheddafi. Senza contare il ruolo dei raggruppamenti tribali e delle intricate relazioni ed alleanze tra essi.
La posa in gioco è duplice. Da una parte, non pare affatto chiara l’identità nazionale della “nuova” Libia, e quali ne saranno i caratteri costitutivi. Avremo una Libia federale, laica e tollerante, o un Paese dall’incerta configurazione interna, con pulsioni localistiche e separatiste, e tentazioni integraliste? Queste sono le domande difficili che occorrerebbe porsi, e preparare un quadro di interventi e sostegni che possano indirizzare le forze liberate dal dopo-Gheddafi verso la modernizzazione e la democratizzazione. Come sempre, i veri nodi della guerra si nascondono nel dopo-guerra.
Ciò detto, non credo sia mai stato in dubbio l’esito “militare” delle vicenda libica. E dunque la questione non è la debellatio. Lo squilibrio delle forze è tale che non ci possono essere illusioni di “resistenza” da parte del regime. La questione vera è se la crisi libica possa o meno trasformarsi in una sorta di conflitto a bassa intensità, con diffusa instabilità politica anche dopo la “vittoria” del Consiglio Nazionale Transitorio. Gli interventi militari di stabilizzazione devono infatti affrontare la questione cruciale di tutti i conflitti, e cioè cosa fare una volta che le ostilità sono giunte al termine. Tutte le guerre, senza eccezioni, si “vincono” davvero non tanto sul campo, ma in due momenti successivi: alle conferenze di pace e nei processi di riconciliazione nazionale. I conflitti mondiali del Novecento hanno confermato la verità di questo assunto, nel bene e nel male. Le operazioni militari in Iraq ed Afghanistan ne sono la riprova nel XXI secolo. Ora, ciò che impressiona nell’atteggiamento della comunità internazionale in relazione alla vicenda libica è l’adozione di un approccio che potremmo definire “incrementale” ed empirico. In altri termini, non pare che ci sia stato mai davvero un “piano” politico e diplomatico per la fase successiva ai bombardamenti della NATO ed alle incursioni dei ribelli di Bengasi. Anche il riconoscimento ufficiale del Consiglio Nazionale Transitorio è avvenuto dopo molte settimane dall’inizio delle ostilità ed in modo scoordinato. Molti osservatori hanno criticato l’avvio delle operazioni militari in Libia mettendone in risalto la mancanza di adeguata preparazione. C’è una parte di verità in tali critiche, ma la questione vera riguarda, in realtà, la mancanza di preparazione politica del “dopo”.
Ora, è evidente che negli interventi di stabilizzazione la questione della conferenza di pace internazionale è tutto sommato secondaria, dal momento che sono all’opera delle coalizioni più o meno coese che tengono regolarmente dei vertici, che adottano conclusioni spesso “ecumeniche” che è difficile tradurre in politiche concrete. Dunque la questione vera concerne l’eventuale percorso di riconciliazione nazionale. Lo abbiamo visto in Afghanistan: dopo anni di rifiuti e veti reciproci, si comprende che senza un contesto di riavvicinamento delle fazioni contrapposte è assai difficile parlare il linguaggio della stabilità politica.
Nel caso della Libia, il tema della riconciliazione nazionale ha fatto capolino qua e là durante questi mesi, ma non pare che sia stata immaginata una strategia coerente ed efficace per arrivarci. A parte l’irriducibilità di Gheddafi, che è un fatto scontato, c’è tuttavia la questione assai più complessa e delicata del nuovo “progetto nazionale” per la Libia. Le tre entità storico-geografiche della Tripolitania, della Cirenaica e del Fezzan dovranno trovare un nuovo assetto comune dopo l’unificazione dall’alto compiuta da Gheddafi. Senza contare il ruolo dei raggruppamenti tribali e delle intricate relazioni ed alleanze tra essi.
La posa in gioco è duplice. Da una parte, non pare affatto chiara l’identità nazionale della “nuova” Libia, e quali ne saranno i caratteri costitutivi. Avremo una Libia federale, laica e tollerante, o un Paese dall’incerta configurazione interna, con pulsioni localistiche e separatiste, e tentazioni integraliste? Queste sono le domande difficili che occorrerebbe porsi, e preparare un quadro di interventi e sostegni che possano indirizzare le forze liberate dal dopo-Gheddafi verso la modernizzazione e la democratizzazione. Come sempre, i veri nodi della guerra si nascondono nel dopo-guerra.
La vera orchestrina del Titanic
Quale legittimita' hanno alcuni Governi europei di dettar regole e scrivere ricette per gli altri Paesi? Chi ha assegnato ad Angela Merkel e a Nicolas Sarkozy il ruolo di ispettori dei bilanci altrui? Coloro che amano denunciare i rischi di strapotere dei "burocrati non eletti" di Bruxelles (e Francoforte) dovrebbero spiegarci anche chi mai abbia "eletto" i Capi degli Esecutivi di Berlino e Parigi per "governare" l'economia italiana, greca, spagnola o irlandese. Nessuno. E proprio questo e' il problema. Essi riempiono, a loro modo, e senza alcuna investitura democratica, un vuoto politico. E lo fanno non certo per europeismo, ma per evitare di essere trascinati in una crisi monetaria continentale.
E' una lacuna poltica che nasce, in sostanza, con la stessa adozione dell'Euro.
Volendo semplificare al massimo, potremmo dire che abbiamo uno strumento altamente "federale" come la moneta unica, ma non un'istanza di politica economica di tipo federale, al di la' della funzione tecnocratica della BCE. L'Unione economica e monetaria cui aspira in teoria l'Europa e' in realta' una limitata unione commerciale e regolamentare (il 'Mercato Unico') e un insieme di criteri quantitativi e statistici per l'adozione e la gestione di una valuta condivisa. Negli anni '70 e '80 dello scorso secolo l'utopia della "repubblica europea", coltivata da circoli di "illuminati", aveva fatto sorgere la speranza di un'Europa politicamente unita. Quella utopia era poi naufragata negli anni '90 e nel primo decennio del XXI secolo sotto i colpi di una crisi di consenso dell'idea europeista e per le miopi tendenze alla "rinazionalizzazione" delle politiche europee. La famosa espressione "my money back" (ridatemi i miei soldi) pronunciata da una ultrabritannica Margaret Tatcher a proposito del bilancio europeo ha conosciuto una sua versione politica generalizzata, che ha portato in buona sostanza al naufragio del progetto di costituzione europea. Quello che abbiamo oggi, infatti, nel Trattato di Lisbona, nascosto tra le pieghe del pur legittimo "principio di sussidiarieta'", e' in fondo l'equivalente, in termini di competenze, della ostinazione nazionalista tatcheriana. Basti leggere l'articolo 5 del Trattato, che afferma senza mezzi termini ne' sfumature che "qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri". L'inverso e' considerato, dai leghismi di ogni latitudine europea, un sopruso. Salvo poi scoprire, nei momenti piu' critici, che la salvezza viene proprio dall'Unione. L'ironia dei "sovranismi" e' che sono costretti a invocare l'utopia europea "a' la carte", per necessita' e non per scelta.
Gli interventi di queste settimane della Banca europea e di Trichet in particolare non possono essere semplicisticamente considerati come un "commissariamento". La parola piu' adatta e' invece "condizionalita'", cioe' azioni comuni in cambio di impegni nazionali. Un fatto nuovo per l'Europa, abituata ad adottare standard e criteri politici soprattutto nelle sue relazioni con Paesi terzi.
Ha avuto una certa fortuna, in passato, la teoria del "vincolo esterno". In sostanza, si trattava di un'interpretazione della storia nazionale piu' recente in base alla quale l'Italia si sarebbe data una certa disciplina, anche politica, oltre che economica, solo in virtu' di obblighi contratti in sede internazionale, in particolare atlantica ed europea. Il vincolo esterno era tuttavia anche intrusivo, perche' influiva pesantemente anche sul sistema politico ed economico nazionale: in tal senso hanno in effetti funzionato, ad esempio, la Nato ed i famosi parametri di Maastricht.
Sarebbe tuttavia un errore riferirsi alla stessa "dottrina" per spiegare quanto avviene oggi tra l'Italia e il sistema europeo. La notizia e' che non c'e' piu' un "esterno": in quel mondo di regole e discipline varie ci siamo dentro fino al collo tutti noi Europei. Casomai e' l'Europa intera a subire il mega-vincolo "esterno" della globalizzazione. Un vincolo che pero' non sembra ancora fatto breccia sui poteri forti e sugli apparati tecnocratici dei governi nazionali, che fingono tuttora, per convenienza ed interessi di parte (tutt'altro che democratici e popolari) di poter competere in quanto tali con giganti emersi o emergenti come Cina, India, Brasile. Questa si' e' l'orchestrina del Titanic!
E' una lacuna poltica che nasce, in sostanza, con la stessa adozione dell'Euro.
Volendo semplificare al massimo, potremmo dire che abbiamo uno strumento altamente "federale" come la moneta unica, ma non un'istanza di politica economica di tipo federale, al di la' della funzione tecnocratica della BCE. L'Unione economica e monetaria cui aspira in teoria l'Europa e' in realta' una limitata unione commerciale e regolamentare (il 'Mercato Unico') e un insieme di criteri quantitativi e statistici per l'adozione e la gestione di una valuta condivisa. Negli anni '70 e '80 dello scorso secolo l'utopia della "repubblica europea", coltivata da circoli di "illuminati", aveva fatto sorgere la speranza di un'Europa politicamente unita. Quella utopia era poi naufragata negli anni '90 e nel primo decennio del XXI secolo sotto i colpi di una crisi di consenso dell'idea europeista e per le miopi tendenze alla "rinazionalizzazione" delle politiche europee. La famosa espressione "my money back" (ridatemi i miei soldi) pronunciata da una ultrabritannica Margaret Tatcher a proposito del bilancio europeo ha conosciuto una sua versione politica generalizzata, che ha portato in buona sostanza al naufragio del progetto di costituzione europea. Quello che abbiamo oggi, infatti, nel Trattato di Lisbona, nascosto tra le pieghe del pur legittimo "principio di sussidiarieta'", e' in fondo l'equivalente, in termini di competenze, della ostinazione nazionalista tatcheriana. Basti leggere l'articolo 5 del Trattato, che afferma senza mezzi termini ne' sfumature che "qualsiasi competenza non attribuita all’Unione nei trattati appartiene agli Stati membri". L'inverso e' considerato, dai leghismi di ogni latitudine europea, un sopruso. Salvo poi scoprire, nei momenti piu' critici, che la salvezza viene proprio dall'Unione. L'ironia dei "sovranismi" e' che sono costretti a invocare l'utopia europea "a' la carte", per necessita' e non per scelta.
Gli interventi di queste settimane della Banca europea e di Trichet in particolare non possono essere semplicisticamente considerati come un "commissariamento". La parola piu' adatta e' invece "condizionalita'", cioe' azioni comuni in cambio di impegni nazionali. Un fatto nuovo per l'Europa, abituata ad adottare standard e criteri politici soprattutto nelle sue relazioni con Paesi terzi.
Ha avuto una certa fortuna, in passato, la teoria del "vincolo esterno". In sostanza, si trattava di un'interpretazione della storia nazionale piu' recente in base alla quale l'Italia si sarebbe data una certa disciplina, anche politica, oltre che economica, solo in virtu' di obblighi contratti in sede internazionale, in particolare atlantica ed europea. Il vincolo esterno era tuttavia anche intrusivo, perche' influiva pesantemente anche sul sistema politico ed economico nazionale: in tal senso hanno in effetti funzionato, ad esempio, la Nato ed i famosi parametri di Maastricht.
Sarebbe tuttavia un errore riferirsi alla stessa "dottrina" per spiegare quanto avviene oggi tra l'Italia e il sistema europeo. La notizia e' che non c'e' piu' un "esterno": in quel mondo di regole e discipline varie ci siamo dentro fino al collo tutti noi Europei. Casomai e' l'Europa intera a subire il mega-vincolo "esterno" della globalizzazione. Un vincolo che pero' non sembra ancora fatto breccia sui poteri forti e sugli apparati tecnocratici dei governi nazionali, che fingono tuttora, per convenienza ed interessi di parte (tutt'altro che democratici e popolari) di poter competere in quanto tali con giganti emersi o emergenti come Cina, India, Brasile. Questa si' e' l'orchestrina del Titanic!
L'Europa tra Tripoli e Damasco
La vicenda libica va oggi letta in controluce con i drammatici eventi
della repressione siriana. E' chiaro che la scelta di procedere
all'intervento militare contro Tripoli intendeva costituire anche un
segnale di dissuasione nei confronti di tutte le altre autocrazie,
oligarchie o "democradure" della regione. La circostanza che le
operazioni in Libia non si siano ancora concluse affievolisce, di
fatto, l'effetto di dimostrazione che esse avrebbero dovuto produrre.
Piu' in generale, l'andamento della strana "guerra" libica evidenzia
tutti i limiti del cosiddetto "intervento umanitario" e delle modalita'
di conduzione delle operazioni di "polizia internazionale".
La protezione della popolazione civile, nell'ambito della nuova
funzione delle Nazioni Unite definita "responsabilita' di poteggere",
in regimi forti come quello libico e quello siriano, non puo' avvenire
tramite semplici cambiamenti nel regime, ma deve assumere la portata di
un vero cambiamento di regime. In effetti, dove i rivolgimenti in Nord
Africa hanno avuto successo, sia pur parziale (come in Tunisia e in
Egitto), cio' e' paradossalmente avvenuto grazie a delle "abdicazioni"
piu' che come risultato di autentici processi rivoluzionari classici.
Laddove il gruppo di potere oppone una pervicace resistenza, come a
Tripoli ed a Damasco, il cambiamento deve essere necessariamente
sostenuto dall'esterno. Ma qui iniziano i problemi.
Al punto in cui siamo, e' evidente che la crisi libica ha in qualche
misura provocato due altre "crisi" diplomatiche ed istituzionali:
l'incapacita' dei Paesi membri dell'Unione Europea di formare un fronte
comune in un'area - il Mediterraneo - strategica per l'Europa, ancor
piu' che per gli Stati Uniti; e il coinvolgimento "obliquo", incompleto
e travagliato della stessa Nato, in un'operazione fuori area con
motivazioni diverse rispetto alla sua "ragione sociale", vale a dire la
difesa dell'Europa da minacce esterne di tipo militare. E' vero che
ogni regione ed ogni crisi sono diverse, ma tutto questo non fa che
rendere piu' impervio il tentativo europeo di esercitare una sorta di
generale "potere normativo" nel Mediterraneo, cioe' incanalare le
proteste, rivolte e para-rivoluzioni che agitano il mondo arabo verso
transizioni ordinate e "governate".
A ben guardare, l’aspetto piu’ disarmante e in fondo sorprendente
dell’appoccio euro-occidentale nei confronti dei cambiamenti in corso
nel mondo arabo e’ un certo modo di procedere improntato alla routine.
C’e’ in fondo un parallelismo con l’impostazione data alla crisi
finanziaria in Grecia: una sostanziale sottovalutazione, salvo poi
accorgersi che si e’ piombati in piena emergenza. Nelle speculazioni
finanziarie come in politica internazionale, l’allerta precoce e’ gia’
una prima risposta alle crisi. Anche per evitare di trovarsi dinanzi a
scelte inevitabili e drammatiche.
L'Italia soffre, in questo scenario gia' fin troppo complesso, non
tanto per la nota questione dell’amicizia (per la verita'
reciprocamente interessata) tra Roma e Tripoli, quanto piuttosto per
non aver potuto giocare le sue carte tradizionali, che sono
storicamente quelle della diplomazia piu' che quelle militari, proprio
nel punto di snodo piu' critico delle relazioni tra Europa e
Nordafrica. La Libia rappresentava questo snodo, e lo avevano compreso
anche Parigi e Londra. In ogni caso, per uscire dal potenziale pantano
libico, occorrera' presto o tardi tornare alla politica, come pare gia'
avvenga da qualche settimana, nonostante le bombe alleate ed i missili
libici. D’altra parte, sarebbe velleitario continuare a parlare
unicamente di un “ruolo italiano” nella crisi libica, allo stesso modo
come sarebbe vano evocare un “ruolo francese” o un “ruolo spagnolo”. O
l’Europa si decide a muoversi in modo concertato e coeso, oppure queste
crisi segneranno in modo sempre piu’ accentuato il drastico
ridimensionamento delle sue proclamate ambizioni internazionali.
della repressione siriana. E' chiaro che la scelta di procedere
all'intervento militare contro Tripoli intendeva costituire anche un
segnale di dissuasione nei confronti di tutte le altre autocrazie,
oligarchie o "democradure" della regione. La circostanza che le
operazioni in Libia non si siano ancora concluse affievolisce, di
fatto, l'effetto di dimostrazione che esse avrebbero dovuto produrre.
Piu' in generale, l'andamento della strana "guerra" libica evidenzia
tutti i limiti del cosiddetto "intervento umanitario" e delle modalita'
di conduzione delle operazioni di "polizia internazionale".
La protezione della popolazione civile, nell'ambito della nuova
funzione delle Nazioni Unite definita "responsabilita' di poteggere",
in regimi forti come quello libico e quello siriano, non puo' avvenire
tramite semplici cambiamenti nel regime, ma deve assumere la portata di
un vero cambiamento di regime. In effetti, dove i rivolgimenti in Nord
Africa hanno avuto successo, sia pur parziale (come in Tunisia e in
Egitto), cio' e' paradossalmente avvenuto grazie a delle "abdicazioni"
piu' che come risultato di autentici processi rivoluzionari classici.
Laddove il gruppo di potere oppone una pervicace resistenza, come a
Tripoli ed a Damasco, il cambiamento deve essere necessariamente
sostenuto dall'esterno. Ma qui iniziano i problemi.
Al punto in cui siamo, e' evidente che la crisi libica ha in qualche
misura provocato due altre "crisi" diplomatiche ed istituzionali:
l'incapacita' dei Paesi membri dell'Unione Europea di formare un fronte
comune in un'area - il Mediterraneo - strategica per l'Europa, ancor
piu' che per gli Stati Uniti; e il coinvolgimento "obliquo", incompleto
e travagliato della stessa Nato, in un'operazione fuori area con
motivazioni diverse rispetto alla sua "ragione sociale", vale a dire la
difesa dell'Europa da minacce esterne di tipo militare. E' vero che
ogni regione ed ogni crisi sono diverse, ma tutto questo non fa che
rendere piu' impervio il tentativo europeo di esercitare una sorta di
generale "potere normativo" nel Mediterraneo, cioe' incanalare le
proteste, rivolte e para-rivoluzioni che agitano il mondo arabo verso
transizioni ordinate e "governate".
A ben guardare, l’aspetto piu’ disarmante e in fondo sorprendente
dell’appoccio euro-occidentale nei confronti dei cambiamenti in corso
nel mondo arabo e’ un certo modo di procedere improntato alla routine.
C’e’ in fondo un parallelismo con l’impostazione data alla crisi
finanziaria in Grecia: una sostanziale sottovalutazione, salvo poi
accorgersi che si e’ piombati in piena emergenza. Nelle speculazioni
finanziarie come in politica internazionale, l’allerta precoce e’ gia’
una prima risposta alle crisi. Anche per evitare di trovarsi dinanzi a
scelte inevitabili e drammatiche.
L'Italia soffre, in questo scenario gia' fin troppo complesso, non
tanto per la nota questione dell’amicizia (per la verita'
reciprocamente interessata) tra Roma e Tripoli, quanto piuttosto per
non aver potuto giocare le sue carte tradizionali, che sono
storicamente quelle della diplomazia piu' che quelle militari, proprio
nel punto di snodo piu' critico delle relazioni tra Europa e
Nordafrica. La Libia rappresentava questo snodo, e lo avevano compreso
anche Parigi e Londra. In ogni caso, per uscire dal potenziale pantano
libico, occorrera' presto o tardi tornare alla politica, come pare gia'
avvenga da qualche settimana, nonostante le bombe alleate ed i missili
libici. D’altra parte, sarebbe velleitario continuare a parlare
unicamente di un “ruolo italiano” nella crisi libica, allo stesso modo
come sarebbe vano evocare un “ruolo francese” o un “ruolo spagnolo”. O
l’Europa si decide a muoversi in modo concertato e coeso, oppure queste
crisi segneranno in modo sempre piu’ accentuato il drastico
ridimensionamento delle sue proclamate ambizioni internazionali.
Silvio Fagiolo e Boris Biancheri
A distanza di sole due settimane ci hanno lasciato due diplomatici di rango, miei cari amici e colleghi illustri: Silvio Fagiolo e Boris Biancheri. Personalità molto diverse, eppure accomunate da una dote non da poco, e cioè quella di essere non solo due Ambasciatori di primo piano, ma anche di possedere un profilo culturale d'eccezione. Silvio Fagiolo è stato soprattutto un fine saggista ed un acuto analista politico; Biancheri, un letterato ed uno scrittore. L'amore per la scrittura è tradizionalmente una caratteristica della diplomazia italiana, ma essa si manifesta soprattutto come memorialistica. Fagiolo e Biancheri appartengono ad una diversa categoria, perché capaci di inserirsi con autorevolezza e prestigio nella dimensione contemporanea della scrittura, del dibattito storico e politologico. La stessa categoria - per intenderci - di un Sergio Romano.
Biancheri ha svolto incarichi che lo hanno portato a divenire segretario generale della Farnesina, il ruolo più importante all’interno della struttura. Fagiolo è stato, ad un certo punto, Capo di Gabinetto, ma direi che la sua indole era quella di uno stratega politico, senza nulla togliere alle sue doti manageriali. Se dovessi semplificare, direi che la stella polare di Fagiolo è sempre stata la causa europea, quella di Biancheri la dimensione transatlantica. Silvio Fagiolo è apparso a più riprese sulla scena europea con ruoli centrali nei diversi negoziati di revisione dei Trattati, da Maastricht ad Amsterdam a Nizza. Ha concluso la sua prestigiosa carriera come Ambasciatore a Berlino, nella capitale del Paese che egli riteneva essere davvero la locomotiva dell’Europa (in quegli anni), assai più della Francia e persino contro di essa. Biancheri negli anni “americani” ha intessuto una trama di rapporti che hanno portato l’Italia a tentare di svolgere un ruolo più attivo e partecipe all’interno della scelta “atlantista” del Paese.
Al termine della carriera “ufficiale”, con il collocamento a riposo (si fa per dire) è iniziata per entrambi una nuova vita. Biancheri è stato per molti anni Presidente dell’ANSA, un ruolo nel quale si sentiva a proprio agio, e che ha interpretato non solo come un incarico direttivo e manageriale, ma anche come un’opportunità di incoraggiare la principale agenzia informativa del Paese a sviluppare maggiormente la sua “redazione esteri”. Come Presidente dell’ISPI (Istituto di studi per la politica internazionale) Biancheri ha dato un impulso decisivo alla riorganizzazione del prestigioso “think tank”, inserendo non solo nuove linee di attività (come le summer e winter schools), ma anche incoraggiando l’inserimento di nuovi temi di politica estera nell’agenda dell’Istituto (ad esempio la Turchia e l’Europa, il grande spazio asiatico “post-sovietico”). Fagiolo ha invece coronato una passione coltivata per anni, e cioè quella dello studio e dell’approfondimento tematico, accettando di “insegnare l’Europa” agli studenti della LUISS, e inserendosi recentemente anche nel progetto di formazione di quadri a livello internazionale, il Master in International Public Affairs, concentrandosi anche in questo caso sulla vicenda dell’integrazione europea.
Biancheri e Fagiolo vanno ricordati anche per un altro tratto del loro spessore culturale. Entrambi, accanto alla passione e alla competenza sulle questioni internazionali, hanno “interpretato” la funzione di Ambasciatori anche in chiave “nazionale”, vale a dire ritenendo che la loro opera potesse servire al Paese in momenti cruciali della sua collocazione in un mondo che si andava globalizzando. Una dimensione che va ricordata con riconoscenza per entrambi, nell’anno in cui si celebra il 150^ anniversario dell’unità d’Italia.
La pericolosa illusione di "sgomberare" la diversità
Un manifesto inquietante, un messaggio che mette i brividi. Colpisce il collegamento tra lo "sgombero" e la "risurrezione" di un quartiere. In realtà un quartiere, una comunità "muore" quando decide semplicemente e brutalmente di "espellere" (o "sgomberare", sospingere oltre il perimetro del gruppo dominante) l'altro, una minoranza, una diversità. Ci si riferisce ad uno sgombero appena iniziato, e si lascia minacciosamente presagire che l'opera sarà portata a termine senza pietà, e che altre "eroiche" azioni simili seguiranno. Colpisce poi che alla "rimozione" del "campo" non segua l'indicazione del luogo in cui gli esseri umani coinvolti sono destinati (deportati?). Sgomberati verso dove? Il messaggio del manifesto sembra suggerire una loro evaporazione nel nulla; in realtà la sparizione di un gruppo umano ritenuto anomalo o deviante sembra essere il desiderio o la volontà implicita negli estensori di questo testo, che considera il dramma di pochi un "trionfo" di molti. Come si può pensare di risorgere sul "seppellimento" della diversità? Si tratta solo dell'illusione "immunitaria" e securitaria, il cui risultato non è che il fallimento del progetto di comunità (ammesso che chi scriveva il testo in questione ne abbia in mente uno). Ciò che resta dopo lo "sgombero" è il deserto delle coscienze, è l'orda, non certo una società degna di questo nome. Non così furono trattate le baraccopoli delle grandi periferie romane negli anni '50 e '60, ma se ne tentò l'integrazione, e persino il Vaticano non lesinò gli sforzi per dare dignità a quelle comunità in tutti i sensi "periferiche". Dov'è quella città, dov'è quel Paese? L'ironia della sorte ha voluto che il manifesto in questione, suprema espressione di insipienza politica e di mancanza assoluta di senso di responsabilità dinanzi ad un problema serio e drammatico come quello degli accampamenti abusivi, sia apparso nelle strade di Roma esattamente nel giorno in cui - il 1^ giugno scorso - in Campidoglio si celebrava un Convegno internazionale sulla "città interetnica", alla presenza addirittura del Segretario Generale delle Nazioni Unite, Ban Ki Moon, e dello stesso Sindaco evocato nel manifesto, che vi appare citato come "ispiratore" di questa strana e insensata idea di "rinascita".
Obama, l'Europa, la primavera araba
Quale “posto” occupa l’Europa nella politica estera americana? Il segretario di stato, Hillary Clinton, alla sua prima audizione in Senato, affermò che gli Stati Uniti sono senza dubbio una “potenza transatlantica”, ma questo non impedisce che essi siano anche una potenza “trans-pacifica” (intendendo la necessità di dedicare una nuova attenzione all’Asia ed alle sue potenze emergenti, India e Cina). Dunque, l’atteggiamento degli USA nei riguardi dell’Europa è cambiato? In un certo senso, si. Gli Americani non sono più troppo desiderosi di parlare dell’Europa, e nemmeno vogliono solo limitarsi a parlare agli Europei. In un mondo in veloce trasformazione, vorrebbero parlare delle cose da fare con l’Europa sul piano globale.
Dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi, il problema non è stato il rapporto tra Europa e Stati Uniti, ma la definizione di un’agenda comune. E dobbiamo ammettere che in molte circostanze l’Europa è rimasta un passo indietro. Come nel caso degli “stimoli” all’economia, fortemente voluti da Obama, ma visti dagli Europei – già troppo indebitati, come dimostra la crisi dell’Euro – come un pericolo per la stabilità finanziaria. In occasione del recente vertice G8 tenutosi in Francia, l’Europa è sembrata “inseguire” Obama nel suo programma di sostegno alla “primavera araba” che, almeno sulla carta, prevede 2 miliardi di dollari di sostegno allo sviluppo economico (settore privato, piccole e medie imprese) oltre alla cancellazione del debito egiziano verso gli Stati Uniti (1 miliardo di dollari). E pensare che il “nocciolo” politico delle iniziative che gli Stati Uniti intendono lanciare a sostegno delle transizioni democratiche nel mediterraneo e nel medio oriente riguarda un settore in cui l’Europa potrebbe eccellere: vale a dire, rapporti interuniversitari, tra centri di ricerca, tra intellettuali e tra organizzazioni della società civile. Obama dimostra di credere nell’apertura dei sistemi politici del mondo arabo; l’Europa pure, ma con troppe “note a pie’ pagina”. Bisogna passare dal “credere nell’apertura” ad una “apertura di credito”.
Dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi, il problema non è stato il rapporto tra Europa e Stati Uniti, ma la definizione di un’agenda comune. E dobbiamo ammettere che in molte circostanze l’Europa è rimasta un passo indietro. Come nel caso degli “stimoli” all’economia, fortemente voluti da Obama, ma visti dagli Europei – già troppo indebitati, come dimostra la crisi dell’Euro – come un pericolo per la stabilità finanziaria. In occasione del recente vertice G8 tenutosi in Francia, l’Europa è sembrata “inseguire” Obama nel suo programma di sostegno alla “primavera araba” che, almeno sulla carta, prevede 2 miliardi di dollari di sostegno allo sviluppo economico (settore privato, piccole e medie imprese) oltre alla cancellazione del debito egiziano verso gli Stati Uniti (1 miliardo di dollari). E pensare che il “nocciolo” politico delle iniziative che gli Stati Uniti intendono lanciare a sostegno delle transizioni democratiche nel mediterraneo e nel medio oriente riguarda un settore in cui l’Europa potrebbe eccellere: vale a dire, rapporti interuniversitari, tra centri di ricerca, tra intellettuali e tra organizzazioni della società civile. Obama dimostra di credere nell’apertura dei sistemi politici del mondo arabo; l’Europa pure, ma con troppe “note a pie’ pagina”. Bisogna passare dal “credere nell’apertura” ad una “apertura di credito”.
Osama e Obama
Non bisogna farsi illusioni. L’uccisione di Osama Bin Laden nel corso di un’incursione di forze USA ad Abbottabad, a nord di Islamabad, è un duro colpo ad Al Qaeda, ma non rappresenta certo la sconfitta definitiva del terrorismo transnazionale che fa capo a tale organizzazione. Nel corso del decennio successivo agli attentati dell’11 settembre 2001 Al Qaeda si è trasformata, è diventata un network di piccole cellule sparse sul globo, che fanno un uso spregiudicato di Internet. Il modello “occidentale” è quello del franchising. Si conferma, inoltre, quello che molti analisti e commentatori hanno sempre pensato, e cioè che la vasta area compresa tra i confini di Pakistan e Afghanistan (al di qua e al di la della famosa “Durand line”) è un territorio di coltura del terrorismo islamista e ove si compie la saldatura tra alcune frange dei Talebani e Al Qaeda. Come dire che le chiavi della stabilità e della transizione politica in Afghanistan stanno in Pakistan. L’uccisione di Bin Laden avrà ripercussioni profonde a livello globale. Da una parte, essa indubbiamente “scoraggia” le formazioni islamiste dedite al terrorismo (una sparuta e deleteria minoranza in tutto il vasto mondo islamico), dall’altro potrebbe fungere – ma speriamo non accada - da ulteriore elemento di polarizzazione e radicalizzazione contro l’Occidente. Dal punto di vista americano, è una vittoria di Obama. Qualcuno potrebbe cinicamente ritenere che si tratta di un enorme ed insperato aiuto alla campagna per la sua rielezione alla Casa Bianca. Ma Obama ha fatto bene, nelle ore successive all’incursione in Pakistan, ad evitare toni eccessivamente trionfalistici e a ribadire che l’America non è contro l’Islam, bensì contro le centrali del terrorismo internazionale. Non aiutano, tuttavia, le scene di giubilo che si sono viste nelle strade americane. Si comprende il dolore immenso dei familiari delle vittime dell’11 settembre, ma non bisogna oltrepassare il fragile confine tra la giustizia e la vendetta. La morte di un uomo, per quanto efferati i crimini commessi, non può mai essere motivo di celebrazione.
Starving the Leviathan
For 17 times in the Bible Israel is called "a land flowing with milk and honey". With a remarkable auto-ironic attitude, Israelis use to tell a joke about Moses on the mountain, looking out over the Promised Land, frustrated that he will only see it but not cross into it. In his conversation with God, the old Patriarch said: "God, how wonderful! A land flowing with milk and honey -- wonderful!". After a pause, Moses addes timidly: "But God, how about some oil?". In fact, for a long time the only oil associated with Israel was the olive oil.
The milk and honey narrative goes deep inside Israel’s weltanschauung. They are considered symbols of a comprehensive anthropological vision of what means a good life. Milk resonates with motherhood, nourishment, and love, as well as protection and empowerment. Honey symbolizes sweetness, joy and celebration.
However, on a more prosaic note, the milk and honey/gas and oil cleavage has been for decades an additional fault line between Israel and the Arab countries. Some analysts saw exactly in that gap the source of a political-economic resented attitude: the "resource envy", even though Israel had discovered, in 2009, a natural gas deposit - the Tamar field - in the Mediterranean Sea, located roughly 50 miles west of Haifa.
Until recently. At the beginning of this year, the discovery of a very large natural gas field on the maritime borders between Israel, Lebanon, the Gaza strip, Cyprus and Northern Cyprus created many expectations. The area – called “Levant Basin province” – contains a section which is believed to possible hide, alongside natural gas, 4.2 barrels of oil.
The really new factor does not consist in the availability of energy sources for internal consumption. This may be a very important and even strategic objective, but what represents a game changer is the perspective of Israel becoming an energy exporter country. The impact on the regional market and on the international economic and political system would be huge. In fact, whereas Israel’s Tamar gas field is capable of supplying the country’s domestic natural gas field for the next twenty years, in principle the Leviathan field gas deposit (estimate twice the volume as Tamar) could go for export.
All that is pure speculation. The name chosen for new discovery is not among the most reassuring concepts: the “Leviathan field”; but it could prove appropriate. The gigantic natural gas field is located in between countries and political entities with endless amount of mutual distrust. That’s why the delight in Israel about the deposit news was immediately tempered by the awareness that it could provide the spark to ignite a new confrontation in an already troubled region. The Tamar field is already disputed by Lebanon. The discovery of “Leviathan” is likely to follow the same pattern, adding new fuel to an offshore territorial dispute between Lebanon and Israel.
The biblical image of the Leviathan – a marine monster, who appears to be invincible in the Book of Job - was borrowed by Thomas Hobbes to found the legitimacy of the modern State in the need to overcome the state of nature, characterized by fear and war. In our post-modern times, freedom from fear may consist instead in looking beyond the Leviathan. In Europe, for many decades across the XIX e XX centuries coal and steel fed the monster. Let’s starve the beast.
The milk and honey narrative goes deep inside Israel’s weltanschauung. They are considered symbols of a comprehensive anthropological vision of what means a good life. Milk resonates with motherhood, nourishment, and love, as well as protection and empowerment. Honey symbolizes sweetness, joy and celebration.
However, on a more prosaic note, the milk and honey/gas and oil cleavage has been for decades an additional fault line between Israel and the Arab countries. Some analysts saw exactly in that gap the source of a political-economic resented attitude: the "resource envy", even though Israel had discovered, in 2009, a natural gas deposit - the Tamar field - in the Mediterranean Sea, located roughly 50 miles west of Haifa.
Until recently. At the beginning of this year, the discovery of a very large natural gas field on the maritime borders between Israel, Lebanon, the Gaza strip, Cyprus and Northern Cyprus created many expectations. The area – called “Levant Basin province” – contains a section which is believed to possible hide, alongside natural gas, 4.2 barrels of oil.
The really new factor does not consist in the availability of energy sources for internal consumption. This may be a very important and even strategic objective, but what represents a game changer is the perspective of Israel becoming an energy exporter country. The impact on the regional market and on the international economic and political system would be huge. In fact, whereas Israel’s Tamar gas field is capable of supplying the country’s domestic natural gas field for the next twenty years, in principle the Leviathan field gas deposit (estimate twice the volume as Tamar) could go for export.
All that is pure speculation. The name chosen for new discovery is not among the most reassuring concepts: the “Leviathan field”; but it could prove appropriate. The gigantic natural gas field is located in between countries and political entities with endless amount of mutual distrust. That’s why the delight in Israel about the deposit news was immediately tempered by the awareness that it could provide the spark to ignite a new confrontation in an already troubled region. The Tamar field is already disputed by Lebanon. The discovery of “Leviathan” is likely to follow the same pattern, adding new fuel to an offshore territorial dispute between Lebanon and Israel.
The biblical image of the Leviathan – a marine monster, who appears to be invincible in the Book of Job - was borrowed by Thomas Hobbes to found the legitimacy of the modern State in the need to overcome the state of nature, characterized by fear and war. In our post-modern times, freedom from fear may consist instead in looking beyond the Leviathan. In Europe, for many decades across the XIX e XX centuries coal and steel fed the monster. Let’s starve the beast.
Israele e la primavera araba
Può sembrare paradossale che Israele, che per molto tempo è stata considerata l’unica democrazia in tutto il medio oriente, abbia reagito con una certa perplessità alla “primavera araba” ed alle sue implicazioni di maggior apertura democratica. Ma le profonde trasformazioni che stanno avendo luogo nella regione, ed in particolare la complessa transizione in corso in Egitto, costringono Tel Aviv a ripensare dalle fondamenta tutto il sistema di alleanze costruito faticosamente in decenni. L‘Egitto del futuro confermerà il Trattato di pace con Israele, e se si, a quali condizioni? Che ruolo assumeranno i movimenti islamisti, ed in particolare i Fratelli Musulmani, e che conseguenze ciò avrà su Hamas e la striscia di Gaza? Anche la Siria, certamente non considerata favorevolmente da Israele, è investita da profonde tensioni, che potrebbero persino rendere ancora più difficile il rapporto tra Tel Aviv e Damasco. La Giordania, che ospita centinaia di migliaia di profughi palestinesi, è un altro fronte che potrebbe aprirsi. I rapporti tra Israele e la Turchia, buoni per diversi anni, si sono raffreddati dopo l’incidente della Mavi Marmara (la nave turca che, di questi tempi nel 2010, portava aiuti a Gaza, assaltata da incursori israeliani, con diverse vittime a bordo). Insomma, strategicamente le sfide per Israele potrebbero divenire molto impegnative. D’altra parte, pensare che i mutamenti strutturali in atto lascino fuori dal gioco il nodo cruciale del Medio Oriente, e cioè l’irrisolta questione palestinese, è una pura illusione. Da parte palestinese, costatato il totale immobilismo nei negoziati bilaterali, e considerato che la politica degli insediamenti israeliani illegali prosegue inalterata, si tenta ora di giocare la carta delle Nazioni Unite. In ipotesi, una risoluzione dell’Assemblea Generale dovrebbe, in settembre, dichiarare la “nascita” dello Stato palestinese. Una mossa puramente politica, visto che, in ogni caso, sarebbero necessari negoziati diretti tra le parti perché l’auspicio si trasformi in realtà. Ma anche Israele dovrebbe rendersi conto che la paralisi politica in questo momento non paga. La storia si è rimessa in marcia in Medio Oriente, e tutti sono chiamati a indirizzarla verso esiti di pace.
La crisi libica e l'Europa in crisi
Il punto di svolta, nella crisi libica, è stata una risoluzione dell’ONU. Ma non quella con cui il Consiglio di sicurezza ha autorizzato l’uso della forza, la n. 1973. No, la vera novità sta nella risoluzione precedente, la n.1970. Una pietra miliare nella diplomazia multilaterale. Con essa il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite faceva quattro cose: richiamava la “responsabilità” di proteggere la propria popolazione da parte delle Autorità libiche (invece di perseguire una linea di repressione violenta); avviava il procedimento per deferire il governo libico alla Corte Penale Internazionale per crimini contro l’umanità; stabiliva un embargo totale ed immediato nella fornitura di armi alla Libia; redigeva una lista di esponenti libici ai quali era vietato espatriare, come misura “punitiva” per la repressione delle manifestazioni anti-regime. Precedentemente, la Libia era stata sospesa, con voto unanime, dalla partecipazione al Consiglio dei diritti umani delle Nazioni Unite. Sappiamo poi come è andata a finire. Da una parte, un dittatore che non ha voluto sentire ragioni e che minacciava stragi; una “coalizione” che ha precipitato gli eventi bellici, priva inizialmente di coordinamento e persino di un accordo sugli obiettivi finali. L’eco delle bombe in Libia ha raggiunto le principali capitali europee, ed ha marcato ancora una volta l’assenza di una reale volontà politica di dar vita ad un’autentica politica estera e di difesa europea. Francia, Inghilterra, e in buona misura anche l’Italia, sono andate in ordine sparso. La Germania si era già tirata fuori, astenendosi dal voto in Consiglio di sicurezza sulla risoluzione 1973. Il vertice internazionale sulla Libia si è tenuto a…. Londra, importante capitale euro-atlantica, con credenziali mediterranee poco credibili. Insomma, in tutta questa crisi, ha parlato un’anacronistica “Europa delle Nazioni”, non quella delle istituzioni comuni di Bruxelles. L’unica organizzazione internazionale con sede a Bruxelles alla quale si è voluto dare un ruolo (più per “imbrigliare” la Francia che per autentica convinzione politica) è stata la NATO. Ma chiediamoci: ha davvero senso che l’Europa si presenti oggi nel Mediterraneo con il volto securitario e militare della NATO? Nessuno sa più che fine abbia fatto l’Unione per il Mediterraneo o il progetto di Medio Oriente e Nord Africa, e così via. Dopo decenni durante i quali l’asse della politica europea si era spostato nell’Europa centro-orientale (con il “grande allargamento” dell’Unione Europea negli anni 2000), l’Unione Europea si è trovata impreparata ad affrontare i cambiamenti strutturali avviatisi sulla sponda sud del Mediterraneo.
Finiti i rivolgimenti e le crisi in corso, con ogni probabilità il Mediterraneo è destinato a ritornare al centro della politica mondiale, speriamo con nuove classi dirigenti democratiche e responsabili. Questo Mediterraneo “rinato” troverà un’Europa pronta, finalmente, a diventare un vero interlocutore politico, economico, istituzionale, un partner adulto, o avrà di fronte un muro di sospetti, cinismo, indifferenza, paura? Dalla risposta dipende forse il futuro del Mediterraneo; certamente quello dell’Europa.
Finiti i rivolgimenti e le crisi in corso, con ogni probabilità il Mediterraneo è destinato a ritornare al centro della politica mondiale, speriamo con nuove classi dirigenti democratiche e responsabili. Questo Mediterraneo “rinato” troverà un’Europa pronta, finalmente, a diventare un vero interlocutore politico, economico, istituzionale, un partner adulto, o avrà di fronte un muro di sospetti, cinismo, indifferenza, paura? Dalla risposta dipende forse il futuro del Mediterraneo; certamente quello dell’Europa.
L’Europa, il Kansas e il Cappellaio Matto
“I've a feeling we're not in Kansas anymore” (“ho l’impressione che non siamo più in Kansas”) esclama perplessa Dorothy nel Mago di Oz. E’ questo forse il modo migliore per descrivere il senso di subitaneo (quanto ingiustificabile) smarrimento e persino di indignazione di gran parte delle classi dirigenti e politiche europee nel constatare l’inadeguatezza dell’Europa, nella sua attuale configurazione istituzionale, dinanzi alle crisi e trasformazioni epocali che attraversano lo spazio euro-mediterraneo. Tuttavia, questa trita retorica dell’Europa-che-non-c’è è diventata stucchevole e francamente insostenibile. Da almeno un decennio, ed in particolare dai dibattiti svoltisi già alla Convenzione Europea del 2002 (che porterà al fallito progetto di Trattato costituzionale europeo) molti Governi si sono alacremente adoperati per bloccare il processo di trasferimento (rectius, “condivisione”) di sovranità tra le capitali e Bruxelles. Le accuse contro i “burocrati non-eletti” di Bruxelles hanno riempito i discorsi ufficiali di leaders e esponenti politici di tutte le tendenze. Il mito del “superstato” ha dominato il discorso politico dell’Europa occidentale. Brandendo lo spettro di una sorta di mostruoso Leviatano continentale, i governi si sono tenute strette gran parte delle competenze in materia di immigrazione e nella politica estera e di difesa. L’avversione verso l’Europa si è troppo spesso fatta scudo di un’interpretazione capziosa e parziale del pur sacrosanto principio di sussidiarietà. Una sussidiarietà “dimezzata”, considerata solo nella sua fase “discendente” e quasi mai in quella “ascendente”. Le sgangherate e sbilanciate disquisizioni sui poteri più prossimi ai territori hanno giustificato veti, reticenze, attribuzioni all’Europa di responsabilità in realtà nazionali e dei singoli governi. Il blame game ha forse funzionato in chiave politica interna, ma le sue conseguenze sono spesso sfuggite di mano agli apprendisti stregoni del “sovranismo” nazionale e del localismo para-sovranista, come nel caso della mancata ratifica del Trattato costituzionale europeo a seguito della sua bocciatura nei referendum in Francia e Paesi Bassi. Quando poi le classi dirigenti e politiche scoprono che, proprio per tutelare i territori e realizzare politiche efficaci anche a livello locale, c’è bisogno – guarda un po’! - di una dimensione sovranazionale, ecco che improvvisamente l’Europa diviene la “patria assente”, la dimensione mancante, l’anello necessario. Si invoca però un’Europa che dovrebbe calare dall’alto, da non si sa quale empireo politico dove si forgerebbe la politica europea. Che però viene decisa nelle riunioni, molto “terrene”, delle varie formazioni del Consiglio dell’Unione, con la partecipazione di tutti i ministri dei 27, di volta in volta competenti nelle diverse materie. L’Europa viene dunque chiamata in causa – il più delle volte per denunciarne “l’assenza” e le insufficienze - nelle situazioni emergenziali, ma non risulta da nessun atto politico serio e compiuto che i Ministri abbiano mai avuto intenzione di attribuire alle istituzioni europee poteri emergenziali, con annesse competenze e risorse. Andrebbe in questi casi adattato alla dimensione europea ciò che John Kennedy nel suo discorso inaugurale disse ai cittadini americani: non chiedetevi (ex-post) cosa può fare l’Europa per voi, ma chiedetevi (ex-ante) cosa voi potete fare per l’Europa. Non si tratta di retorica europeista, ma del modo più efficace per tutelare concreti interessi nazionali e persino per realizzare intelligenti politiche territoriali. Sorpresa! I poteri, proprio per essere più “vicini al cittadino”, dovrebbero passare più spesso da Bruxelles. Anche per l’Europa, come dice il Cappellaio Matto in Alice nel paese delle meraviglie, “si può sempre averne più di niente”.
The Architects, the Oracles and the Ones
A fierce debate has taken place on the alleged “failure” of analysts, political scientists, scholars of international relations, diplomats and the intelligence community to foresee the turmoil in the Arab World. Marta Dassù on “Aspen online” added more fuel to it. To be sure, there are many kinds of “failure”: overestimation, underestimation, overconfidence, complacency, ignorance, inability to connect the dots. The post- 9/11 analyses, for instance, provide a full spectrum of different and spectacular ways to fail. What is astonishing in this debate is the fact that nobody seems to care about one fundamental issue: the problem is less the method adopted than the very nature of the reality observed. What we watch is as important as how we watch it. The failure has nothing to do with the tools adopted; it is rather about missing the point. For decades analysts have been studying traditional variables and data sets, being unaware of the new societal environment created by new media, private agencies and informal groups. If there is a failure, it is the one regarding the stubborn “realist” approach to international relations, according to which only “hard power”, the economy and geo-political factors are structural elements in the understanding of world politics. A different outlook, based on the process of identity formation, ideas and values, would have been needed to fully understand what was happening beyond the façade of “order” and “stability”. One further aspect has been neglected in this discussion: the “missing link” between theory and practice in foreign policy. The subject is not new. Entire university courses are taught on foreign policy analysis. Non-orthodox approaches have been adopted in an effort to close the gap between academics and practitioners. Recently, some scholars came to me suggesting that we analyze the events in North Africa through the conceptual lens of “fuzzy logic”. Others are resorting to fractals and chaos theory, entropy and quantum physics categories. In many cases, experts and scholars are eager to give advice to diplomats and international relations practitioners who are under terrible pressure due to precipitating events or due to the small window of opportunity they are desperately trying to catch. On the other hand, academics are frustrated with the lack of inputs coming “from the ground” that would allow them to better formulate their scenarios. Like in the famous movie trilogy The Matrix, three main characters – the Architect, the Oracle and the One – play their roles without knowing the entire plot. First, there are the Architects, who design and incessantly correct the Matrix: in our case, university and academic centers dealing with international issues operate at this level. Second, there are the Oracles: “think tanks” crafting strategies, offering hints, suggesting policies. And third, are the “Ones” (self-appointed): diplomats, international organization officials, special envoys (to almost everything and to everywhere). The Architects think they control the knowledge. The Oracles think they have a strategy. The Ones think they have a mission. But the Source can be reached only by connecting the bits.
Age of (new) tribes?
The year was 1988, when the ancient word “tribe” made its comeback in the political arena. Michel Maffesoli, a French sociologist, interpreted the new phenomena of social groupings using ancestral metaphors. However, that approach had nothing to do with anthropology and was very much in tune with the sociologic outlook of contemporary collective life. In other words, we discovered that tribes are more a post-modern pattern of social behaviour than a reminiscence of the Iron Age. I think it is extremely useful to keep that in mind when we turn to the analysis of international relations, in the light of the turmoil in the Arab world. A sort of “primordialist” prejudice led us to understand the tribal structure of some societies as a sign of historical backwardness. Wrong assumption. Tribes can live side by side with information technology and high education standards. It is rather a matter of how people connect to each other. To this regard, it would be useful to make a clear distinction between the concepts of tribe and clan: the latter being a more concrete unit, which applies to different social contexts, from the top management of multi-national corporations to the structure of power in those societies designated by John Rawls as “decent hierarchical people” (for instance, the case of some “benign autocracies” in the Gulf). Beyond the ethno-anthropological viewpoint, the “tribal paradigm” is regaining a strategic role in the globalised world; as Michael Walzer put it as early as 1992 “all over the world today men and women are reasserting their local and particularist, their ethnic, religious, and national identities.” This was the political-cultural version of the “new tribalism” in modern times. There is however a different way of looking at tribalism, which consists of considering it as an aspect of trans-national relations. This means, on the one side, that physical borders are less relevant in the eyes of “tribal” people, and, on the other side, that they can draw invisible lines inside a country or a society. Those invisible lines, politically irrelevant for most of the time, suddenly begin to bear a great relevance in crisis scenarios. Take the case of Libya, for instance. For many years under the Kaddafi regime it was almost forgotten the fact that the country includes multiple versions of “tribal” affiliation. Just to mention the most common of the relevant ones, think of the Senoussi sect in the region of Benghazi (who profess a specific variant of Islam) and of the ancient “trans-national” Berber people, present with different density in a vast region between Libya, Algeria, Morocco, Mali, Niger. Berbers usually call themselves “Imazighen”, the free people. Ironically, freedom was at the source of the Modern State. In the three principles of the French Revolution, liberty (of individuals) comes first, then goes equality (as a quality of “fair” societies) and - last but not least – fraternity (which is rather a communitarian concept). The strange joint declination of freedom, equalitarianism and strong communities ties poses a challenge to the Weberian hypothesis of the disenchantment of the world. Moreover, we should reconsider the core issues of two decades of fierce and fruitless debate between individualist-cosmopolitans and culturalist-communitarians. Perhaps this new age of tribes implies also a fresh understanding on how liberty, equality and fraternity could combine in a fragmented and yet integrated world.
Giappone, ben più di un terremoto
Nonostante la meticolosa preparazione in caso di terremoti, praticata regolarmente e con grande serietà da tutta la popolazione, il Giappone è stato messo in ginocchio da uno dei più devastanti sismi della storia, accompagnato da uno spaventoso tsunami. Ma è un Paese tenace, dignitoso, resistente. Un paese che ha già dimostrato di sapersi riprendere da immani tragedie: basti pensare alla disastrosa sconfitta nella seconda guerra mondiale e al ruolo che ancora oggi occupa sul piano economico e politico nel sistema internazionale. Il Giappone è un Paese membro del G8/G20, ed è uno dei principali donatori in termini di aiuto allo sviluppo. E’ inoltre la terza economia mondiale ed è al quarto posto per il commercio su scala globale. Proprio sul piano internazionale che si potrebbero verificare le ripercussioni più significative. Le conseguenze economiche dell’immane distruzione non solo graveranno su un Paese che ha già il debito pubblico più alto del mondo industrializzato (200% del PIL), ma, per il peso che il Giappone ancora ha sull’economia mondiale, potrebbero inibire la già debolissima ripresa globale, anche se il Giappone attualmente contribuisce poco alla crescita economica. Inoltre, sul piano finanziario, gli alti indennizzi che le compagnie di assicurazione dovranno erogare non sono cosa da poco in un panorama della finanza mondiale già traballante. Sul piano politico, la solidarietà che si è innescata a livello regionale (oltre che su scala globale) potrebbe condurre a migliori relazioni tra Giappone, Corea del Sud e Cina: tre Paesi che sono stati storicamente in notevole frizione e che proprio l’emergenza potrebbe riavvicinare. Non a caso la Cina ha voluto dare grande ufficialità alla missione di esperti in protezione civile e gestione dei disastri naturali inviata in Giappone nei giorni immediatamente successivi al sisma. Per non parlare dell’emergenza verificatasi per i danni alle centrali nucleari, che ha suscitato in tutto il mondo un vivace dibattitto sulla gestibilità di questi impianti in situazioni critiche. Il sociologo tedesco Ulrich Beck, qualche anno fa, aveva coniato l’espressione “società globale del rischio”. In pratica, viviamo un mondo nel quale i pericoli, le catastrofi, non possono più essere chiusi nei confini di un solo Paese. Sarebbe perciò il caso, pensando non solo alle centrali nucleari, ma anche al fatto che le forze della natura non rispettano certo le frontiere, di evitare di considerare le scelte che riguardano attività o situazioni rischiose come un fatto esclusivamente nazionale, di globalizzare la prevenzione e di coordinare meglio la risposta alle crisi “trans-nazionali”.
Islam politico o Islam "a-politico"?
E’ ancora troppo presto per dire se i cambiamenti strutturali in corso in diversi Paesi del Nordafrica e del Medio Oriente avranno positive conseguenze anche in termini di “apertura” dei rispettivi sistemi politici. E’ in ogni caso prevedibile che un numero considerevole di formazioni ed attori politici intenda accedere alla partecipazione democratica nel contesto di sistemi elettorali competitivi. E’ ipotizzabile che molteplici partiti politici di diretta ispirazione islamica non solo partecipino ai processi elettorali, ma anche che conquistino una considerevole rappresentanza parlamentare, e, in prospettiva, assumano responsabilità di governo. A questo proposito occorre sottolineare come un “Islam politico”, vale a dire incanalato nei processi istituzionali di partecipazione e rappresentanza nel contesto delle regole costituzionali, rappresenterebbe una soluzione senza dubbio migliore di un islamismo a-politico, vale a dire privo di una cultura politica pluralista e inclusiva e possibile preda di agitatori che fomentano l’integralismo e l’intolleranza. Partiti politici di ispirazione religiosa, purché organizzati in modo democratico ed incardinati nelle istituzioni rappresentative, potrebbero dunque contribuire a disinnescare potenziali tensioni interne di matrice religiosa o in senso lato culturale (ad esempio tra “laici” e osservanti). D’altra parte, le esperienze di partiti democratici di ispirazione religiosa in democrazie competitive (basti pensare all’Italia, alla Germania, alla stessa Turchia), ormai consolidate nel tempo, sono numerose e si sono rivelate fruttuose per l’intero sistema politico.
L'Europa, il Nordafrica e il linguaggio della paura
I fatti libici rappresentano il risvolto drammatico, tragico del risveglio politico dell’Africa del nord e del mondo arabo. E hanno dato la sveglia anche alla comunità internazionale, con il Consiglio di Sicurezza delle Nazioni Unite che ha finalmente preso una posizione netta e ferma: sanzioni e soprattutto Corte Penale Internazionale per Gheddafi.
Certamente in Libia ancor meno che in altri paesi si può semplicisticamente parlare di ”rivolta del pane”, soprattutto perché in Libia, a motivo della politica paternalistica e clientelare di Gheddafi, la popolazione, grazie alla ricchezza proveniente dai proventi di gas e petrolio, ha goduto mediamente di condizioni economiche migliori rispetto ad altri Paesi dell’area. Hanno pesato altri fattori. Il primo è che il Paese non si è mai definitivamente amalgamato nelle sue componenti regionali, tribali ed etniche. Rilevante è che la regione della Cirenaica, con il capoluogo Bengasi (dove ora è stato formato l’embrione di governo libico alternativo), è stata il punto di riferimento di questa sollevazione, animata dalla confraternita musulmana autonomista dei Senussiti.
Il secondo fattore è l’aspirazione ad aperture democratiche dopo oltre 40 anni di dittatura.
Da questo punto di vista, Bush aveva ragione, quando sottolineava la necessità della diffusione della democrazia anche nel mondo arabo, ma ha avuto torto sulle modalità, perché la democrazia non si impone e non si esporta, ma è legata a fattori endogeni. Questo significa che ha i suoi tempi, i suoi cicli, le sue motivazioni, legate alla maturazione della cultura politica di un paese.
Si parla a sproposito del rischio del “fondamentalismo islamico” al potere. A parte il peso relativo di tali forze, i movimenti d’ispirazione islamica non vanno confusi con l’islamismo violento. La grande scommessa è che essi siano incanalati dentro processi democratici. Non dobbiamo dimenticare che anche in Italia e in Germania, ad esempio, abbiamo avuto i cristiano-democratici, cioè forze politiche di ispirazione religiosa che sono state i pilastri della rinascita dei nostri Paesi dalle rovine della seconda guerra mondiale. Per quale ragione non si può pensare a una “democrazia islamica” (non “islamista”), ma senza fondamentalismi di sorta? Un esperimento in tal senso nella regione rimane la Turchia, con l’AKP di Erdoğan. Manteniamo dunque aperta la prospettiva europea della Turchia: “normalizzando” il rapporto tra democrazia e Islam all’interno dei parametri dell’Unione Europea si può generare un positivo “effetto domino” in tutto il mondo islamico. Nel suo discorso tenuto al Cairo, Obama disse che l’Islam è sempre stato parte della storia americana. Ancor più di quella europea, ma nessun leader europeo ha mai fatto un discorso saggio, coraggioso e onesto come quello di Obama al Cairo. L’Europa (e l’Italia in particolare) parla solo il linguaggio della paura: ondate di immigrazione, terrorismo di matrice islamica. La democrazia, a casa e fuori, non si costruisce se manca una seria e realistica visione politica del futuro. Non facciamo di una rivoluzione un’altra occasione persa.
Certamente in Libia ancor meno che in altri paesi si può semplicisticamente parlare di ”rivolta del pane”, soprattutto perché in Libia, a motivo della politica paternalistica e clientelare di Gheddafi, la popolazione, grazie alla ricchezza proveniente dai proventi di gas e petrolio, ha goduto mediamente di condizioni economiche migliori rispetto ad altri Paesi dell’area. Hanno pesato altri fattori. Il primo è che il Paese non si è mai definitivamente amalgamato nelle sue componenti regionali, tribali ed etniche. Rilevante è che la regione della Cirenaica, con il capoluogo Bengasi (dove ora è stato formato l’embrione di governo libico alternativo), è stata il punto di riferimento di questa sollevazione, animata dalla confraternita musulmana autonomista dei Senussiti.
Il secondo fattore è l’aspirazione ad aperture democratiche dopo oltre 40 anni di dittatura.
Da questo punto di vista, Bush aveva ragione, quando sottolineava la necessità della diffusione della democrazia anche nel mondo arabo, ma ha avuto torto sulle modalità, perché la democrazia non si impone e non si esporta, ma è legata a fattori endogeni. Questo significa che ha i suoi tempi, i suoi cicli, le sue motivazioni, legate alla maturazione della cultura politica di un paese.
Si parla a sproposito del rischio del “fondamentalismo islamico” al potere. A parte il peso relativo di tali forze, i movimenti d’ispirazione islamica non vanno confusi con l’islamismo violento. La grande scommessa è che essi siano incanalati dentro processi democratici. Non dobbiamo dimenticare che anche in Italia e in Germania, ad esempio, abbiamo avuto i cristiano-democratici, cioè forze politiche di ispirazione religiosa che sono state i pilastri della rinascita dei nostri Paesi dalle rovine della seconda guerra mondiale. Per quale ragione non si può pensare a una “democrazia islamica” (non “islamista”), ma senza fondamentalismi di sorta? Un esperimento in tal senso nella regione rimane la Turchia, con l’AKP di Erdoğan. Manteniamo dunque aperta la prospettiva europea della Turchia: “normalizzando” il rapporto tra democrazia e Islam all’interno dei parametri dell’Unione Europea si può generare un positivo “effetto domino” in tutto il mondo islamico. Nel suo discorso tenuto al Cairo, Obama disse che l’Islam è sempre stato parte della storia americana. Ancor più di quella europea, ma nessun leader europeo ha mai fatto un discorso saggio, coraggioso e onesto come quello di Obama al Cairo. L’Europa (e l’Italia in particolare) parla solo il linguaggio della paura: ondate di immigrazione, terrorismo di matrice islamica. La democrazia, a casa e fuori, non si costruisce se manca una seria e realistica visione politica del futuro. Non facciamo di una rivoluzione un’altra occasione persa.
From "Globish" to "Globese"?
Is language power or culture? A strange contradictory feature of the global Babel we live in is, after all, the perception of a new kind of “Koiné” rather than confusion of idioms. This is the case of “Globish”, a cosmopolitan English dialect with a vocabulary of 1500 words or so (a fraction of the 615,000 of the Oxford English Dictionary), a language spoken all over the globe by non-native speakers of English. It is the way a Bolivian talks to a Russian, or a Japanese talks to an Egyptian. Unlike "Spanglish”, it's not a meld of English and a different language. It arose naturally and acquired its legitimacy through reiteration and usage.
The English writer and editor Robert McCrum has called Globish "the worldwide dialect of the third millennium." A language sometimes compared to "open source" software: available for free to anybody willing to use it for his own purposes. Is it commonly believed that language and culture go hand in hand. In the case of Globish, language underwent a process of deculturation. In a sense, Globish as a language was “abstracted” from the western, English-speaking culture. Dangerous operation: as Ruth Walker (“Christian Science Monitor”) puts it, “language and culture are so closely linked that culture-free language would be like tasteless food or colorless paint.” However, Globish is at the same time accessible and democratic. If that is power, it is the power of anarchy in grammar and pronunciation.
In many cases, language is more a basic tool for relationships than a weapon of cultural conquest. The case of immigration demonstrates that assumption, sometimes in a dramatic way. Language travels with people, but also travels through immaterial channels. In 2009, for instance, China gained 36 million additional internet users, meaning that there are over 440 million internet users in the country. English is by far the most widely used language on the internet. However, Chinese is growing fast, and is already one among the “dominant languages” on the internet.
China is currently classified, in the international and diplomatic jargon, as an “emerging country”. If this is correct from a contemporary (economic) point of view, it is completely misleading on a historical ground. In the times of Marco Polo and Matteo Ricci (the only two foreigners who appear on the wall of the World Art Museum in Beijing, in recognition to their contribution to the Chinese civilization) Europe was an emerging power, and China a superpower.
It may sound ironic that in the year of the celebration of the IV Centenary of the death of Padre Matteo Ricci (1610-2010) a program to teach Chinese in Italian elementary schools financed by Beijing became operational. Perhaps those children one day will learn Globish. Would they also speak “Globese” (global Chinese)? (First published in "Longitude", March 2011)
The English writer and editor Robert McCrum has called Globish "the worldwide dialect of the third millennium." A language sometimes compared to "open source" software: available for free to anybody willing to use it for his own purposes. Is it commonly believed that language and culture go hand in hand. In the case of Globish, language underwent a process of deculturation. In a sense, Globish as a language was “abstracted” from the western, English-speaking culture. Dangerous operation: as Ruth Walker (“Christian Science Monitor”) puts it, “language and culture are so closely linked that culture-free language would be like tasteless food or colorless paint.” However, Globish is at the same time accessible and democratic. If that is power, it is the power of anarchy in grammar and pronunciation.
In many cases, language is more a basic tool for relationships than a weapon of cultural conquest. The case of immigration demonstrates that assumption, sometimes in a dramatic way. Language travels with people, but also travels through immaterial channels. In 2009, for instance, China gained 36 million additional internet users, meaning that there are over 440 million internet users in the country. English is by far the most widely used language on the internet. However, Chinese is growing fast, and is already one among the “dominant languages” on the internet.
China is currently classified, in the international and diplomatic jargon, as an “emerging country”. If this is correct from a contemporary (economic) point of view, it is completely misleading on a historical ground. In the times of Marco Polo and Matteo Ricci (the only two foreigners who appear on the wall of the World Art Museum in Beijing, in recognition to their contribution to the Chinese civilization) Europe was an emerging power, and China a superpower.
It may sound ironic that in the year of the celebration of the IV Centenary of the death of Padre Matteo Ricci (1610-2010) a program to teach Chinese in Italian elementary schools financed by Beijing became operational. Perhaps those children one day will learn Globish. Would they also speak “Globese” (global Chinese)? (First published in "Longitude", March 2011)
Islamic Calvinism?
For decades, the fulcrum of political debates regarding Turkey was the apparent clash between Islam and democracy. Now that a southeastern European and Islamic version of the western “Christian Democratic Party” model is in power in the country, that dilemma now seems to be outdated, though naturally not everyone shares this view. There are still doubts among European political leaders about the ability of the new “confessional” political class to bring about the reforms needed to qualify for EU membership. Such reservations could be entirely wrong, but the question now is of a different nature. The case in point is no longer politics and religion, but rather economy and religion. In Turkey, a new form of Turkish Islam is emerging, one which is pro-business and pro-free market. It's being called Islamic Calvinism.
In the Anatolian province of Kayseri, a new model of economic development is reshaping the productive structure of the country. New successful entrepreneurs – sometimes dubbed as the "Anatolian Tigers" – are giving a substantial contribution to what became in 2010 the world's 17th largest economy, with a GDP of $780 billion.
The famous book of Max Weber on the Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism perhaps needs an additional chapter. The central thesis of Weber was not that religion is the determinant causal factor of economic development, but rather that there exists, between certain religious forms and the capitalist lifestyle a relationship of “elective affinity”. On that ground Michael Novak, a catholic thinker, wrote about the conditional compatibility between the Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism. Of all the questions raised by Novak, the possibility of economic competition in accordance with religious beliefs seems to be the most intriguing. For the Catholic thinker, a noncompetitive world is a world reconciled with the status quo. To compete - goes on Novak – is not a vice; on the contrary, it is “the form of every virtue and an indispensable element in natural and spiritual growth”. Some Christians would object to this thesis, recalling for instance the teaching of universal love and selflessness of St. Francis. Ironically, the Anatolian Tigers could easily subscribe to such a statement.
Central Anatolia, with its rural economy and patriarchal, Islamic culture, is often seen by Western Europeans as the heartland of a land far from modernity. And yet the prosperity reached in recent years in those eastern regions of Turkey has led to a transformation of traditional values and to a new cultural outlook that embraces hard work, entrepreneurship and development. That could lead to a sort quiet Islamic reform, bringing together, as Novak argued for Christianity, a solid blend of “democratic polity, an economy based on markets and incentives, and a moral-cultural system which is pluralistic and, in the largest sense, liberal”. To be sure, many questions remain unanswered. Is it religion or rather profit the incentive for production and investment? What about the socialization of profits (like in the experiment of the “Economy of Communion” of several Italian Christian entrepreneurs who divide up their profits in three baskets: a third for the poor, a third for culture and education, and the remaining for investments)? Finally, how could Anatolian capitalism be reconciled with the principles of Islamic finance and with the “problem” of interest?
It is curious to see that whereas Islamic finance is receiving more and more attention in the economic circles of the West – particularly after the financial crisis of 2008 – the Anatolian Tigers seem to adopt a Muslim (allegedly more ethical) form of Western turbo-capitalism. Paradoxically, whereas the capitalist model is more and more criticized in the Christian West, it seems now flourishing in a country with a Muslim majority. As for the liberal economic “Copenhagen criterion” (a functioning market economy capable of coping with competitive pressure and market forces within the Union) required for the EU membership, Turkey might be more qualified than some of the current member states, who no longer have a unbreakable faith in free market, and for a good reason. No surprise: it’s globalization, stupid! (First published as The Anatolian Spirit of Capitalism, "Longitude", February 2011)
In the Anatolian province of Kayseri, a new model of economic development is reshaping the productive structure of the country. New successful entrepreneurs – sometimes dubbed as the "Anatolian Tigers" – are giving a substantial contribution to what became in 2010 the world's 17th largest economy, with a GDP of $780 billion.
The famous book of Max Weber on the Protestant Ethic and the Spirit of Capitalism perhaps needs an additional chapter. The central thesis of Weber was not that religion is the determinant causal factor of economic development, but rather that there exists, between certain religious forms and the capitalist lifestyle a relationship of “elective affinity”. On that ground Michael Novak, a catholic thinker, wrote about the conditional compatibility between the Catholic Ethic and the Spirit of Capitalism. Of all the questions raised by Novak, the possibility of economic competition in accordance with religious beliefs seems to be the most intriguing. For the Catholic thinker, a noncompetitive world is a world reconciled with the status quo. To compete - goes on Novak – is not a vice; on the contrary, it is “the form of every virtue and an indispensable element in natural and spiritual growth”. Some Christians would object to this thesis, recalling for instance the teaching of universal love and selflessness of St. Francis. Ironically, the Anatolian Tigers could easily subscribe to such a statement.
Central Anatolia, with its rural economy and patriarchal, Islamic culture, is often seen by Western Europeans as the heartland of a land far from modernity. And yet the prosperity reached in recent years in those eastern regions of Turkey has led to a transformation of traditional values and to a new cultural outlook that embraces hard work, entrepreneurship and development. That could lead to a sort quiet Islamic reform, bringing together, as Novak argued for Christianity, a solid blend of “democratic polity, an economy based on markets and incentives, and a moral-cultural system which is pluralistic and, in the largest sense, liberal”. To be sure, many questions remain unanswered. Is it religion or rather profit the incentive for production and investment? What about the socialization of profits (like in the experiment of the “Economy of Communion” of several Italian Christian entrepreneurs who divide up their profits in three baskets: a third for the poor, a third for culture and education, and the remaining for investments)? Finally, how could Anatolian capitalism be reconciled with the principles of Islamic finance and with the “problem” of interest?
It is curious to see that whereas Islamic finance is receiving more and more attention in the economic circles of the West – particularly after the financial crisis of 2008 – the Anatolian Tigers seem to adopt a Muslim (allegedly more ethical) form of Western turbo-capitalism. Paradoxically, whereas the capitalist model is more and more criticized in the Christian West, it seems now flourishing in a country with a Muslim majority. As for the liberal economic “Copenhagen criterion” (a functioning market economy capable of coping with competitive pressure and market forces within the Union) required for the EU membership, Turkey might be more qualified than some of the current member states, who no longer have a unbreakable faith in free market, and for a good reason. No surprise: it’s globalization, stupid! (First published as The Anatolian Spirit of Capitalism, "Longitude", February 2011)
Nord Africa: il cambiamento come opportunità internazionale
Con l’esplodere della “rivoluzione” egiziana non solo il nordafrica, ma tutto il Medio oriente e l’intero sistema internazionale dovranno fare i conti con un cambiamento strutturale. Dinanzi a questo mutamento ci si può porre in due modi: tentare di “limitare i danni” oppure vedevi una nuova opportunità. Sinora Israele, giustamente preoccupata per la sua sicurezza, e l’Arabia Saudita, più concentrata invece sui possibili “rischi” di cambiamenti interni, hanno per ragioni diverse paventato questa evoluzione. Più coraggio è venuto dagli Stati Uniti, che avevano sinora nell’Egitto, accanto ad Israele, il maggior alleato strategico. L’Europa rimane sospesa in un difficile gioco di equilibrio tra rischio di interferenza (negli affari interni di altri Paesi) e prospettiva di irrilevanza (per eccesso di prudenza).
Ma la questione riguarda anche altri Paesi, come ad esempio la Turchia: in effetti Ankara, con il suo partito islamico (ma non “islamista”) al potere, potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per quanti ritengono possibile coniugare Islam e democrazia (al pari di cristianesimo e democrazia).
Vero è che in questa parte di mondo si registra un intreccio complesso di fattori geo-strategici, di tensioni legate a vecchi e nuovi radicalismi, di contrastati e contrastanti progetti egemonici, di contesti economici che devono fare i conti con crescenti segnali di instabilità sociale, e che la crisi finanziaria globale ha reso più acuti. Il Medio Oriente è in sé stesso un sistema internazionale in sedicesimo. In effetti, tutte le questioni politiche più rilevanti, e non solo dal punto di vista internazionale, trovano in quest’area una sorta di paradigma parossistico. Tutte le tensioni che attraversano il mondo contemporaneo, ed anche i Paesi occidentali, si palesano con grande rilievo. In questa regione del pianeta si sperimentano, per così dire, in modo drammatico alcuni rivolgimenti dell’assetto interno ed internazionale: il rapporto tra religione e politica e, più in generale, tra convinzione e ragione, tra comunità ed individuo, tra stato e società, tra mondialità e località. Tutti i caratteri della sovranità sono coinvolti e spesso radicalmente messi in discussione: popoli, stati, territori.
E allora perché non approfittare del momento “epocale” per trasformare questa complessità in un valore? Sorprende, in generale, che l’eccezionalità degli eventi sulla riva sud del Mediterraneo non abbia provocato sinora una mobilitazione della comunità internazionale di adeguata rilevanza.
La profondità dei mutamenti in corso giustificherebbe, invece, un’iniziativa politica internazionale di primaria importanza, sul modello della Conferenza di Helsinki del 1975, nella quale considerare diversi ambiti di cooperazione, relativi a sicurezza, democratizzazione, rispetto dei diritti umani, sviluppo, ma con un formato più flessibile e ampio: non solo i governi, ma anche altri importanti attori interni. Una conferenza inclusiva ed originale, non i paludati rituali della diplomazia.
Ma la questione riguarda anche altri Paesi, come ad esempio la Turchia: in effetti Ankara, con il suo partito islamico (ma non “islamista”) al potere, potrebbe rappresentare un nuovo punto di riferimento per quanti ritengono possibile coniugare Islam e democrazia (al pari di cristianesimo e democrazia).
Vero è che in questa parte di mondo si registra un intreccio complesso di fattori geo-strategici, di tensioni legate a vecchi e nuovi radicalismi, di contrastati e contrastanti progetti egemonici, di contesti economici che devono fare i conti con crescenti segnali di instabilità sociale, e che la crisi finanziaria globale ha reso più acuti. Il Medio Oriente è in sé stesso un sistema internazionale in sedicesimo. In effetti, tutte le questioni politiche più rilevanti, e non solo dal punto di vista internazionale, trovano in quest’area una sorta di paradigma parossistico. Tutte le tensioni che attraversano il mondo contemporaneo, ed anche i Paesi occidentali, si palesano con grande rilievo. In questa regione del pianeta si sperimentano, per così dire, in modo drammatico alcuni rivolgimenti dell’assetto interno ed internazionale: il rapporto tra religione e politica e, più in generale, tra convinzione e ragione, tra comunità ed individuo, tra stato e società, tra mondialità e località. Tutti i caratteri della sovranità sono coinvolti e spesso radicalmente messi in discussione: popoli, stati, territori.
E allora perché non approfittare del momento “epocale” per trasformare questa complessità in un valore? Sorprende, in generale, che l’eccezionalità degli eventi sulla riva sud del Mediterraneo non abbia provocato sinora una mobilitazione della comunità internazionale di adeguata rilevanza.
La profondità dei mutamenti in corso giustificherebbe, invece, un’iniziativa politica internazionale di primaria importanza, sul modello della Conferenza di Helsinki del 1975, nella quale considerare diversi ambiti di cooperazione, relativi a sicurezza, democratizzazione, rispetto dei diritti umani, sviluppo, ma con un formato più flessibile e ampio: non solo i governi, ma anche altri importanti attori interni. Una conferenza inclusiva ed originale, non i paludati rituali della diplomazia.
La democrazia possibile
La diffusione della democrazia nel mondo arabo è stata spesso confusa, nello scorso decennio, con la cosiddetta “esportazione della democrazia”. Un obiettivo che è stato percepito, specie nei Paesi che ne avrebbero dovuto “beneficiare”, come una forma di imposizione di modelli euro-atlantici ad un mondo “mediterraneo”. Anche perché di mezzo c’era una guerra (in Iraq) e toni non proprio concilianti nei confronti della cultura arabo-islamica in molti Paesi occidentali. L’amministrazione Bush aveva lanciato l’iniziativa “Grande Medio Oriente e Nord Africa” per favorire l’effetto-domino, che dal modello iracheno avrebbe dovuto contagiare la regione.
Come sappiamo, non andò così. Da parte sua, già dal 1995 l’Europa aveva avviato il “Processo di Barcellona”, vale a dire un ampio programma di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per incoraggiare progetti comuni e il dialogo ad ogni livello. Nemmeno questo piano ha funzionato. Da ultimo, il presidente francese Sarkozy ha aperto un nuovo cantiere, quello dell’“Unione per il Mediterraneo” che è bloccato a causa della stasi nei negoziati israelo-palestinesi.
Ci siamo dimenticati, noi europei, che non molti decenni fa la democrazia non era affatto di casa nei Paesi del Mediterraneo del Nord: fascismo in Italia, salazarismo in Portogallo, franchismo in Spagna, colonnelli in Grecia, regimi militari in Turchia. Dunque, nessuno può dare lezioni. Ma nei nostri Paesi la transizione è avvenuta. Perché non dovrebbe essere possibile anche nel Mediterraneo del Sud?
Le incongruenze politiche e sociali di molti Paesi del Nord-Africa erano emerse con chiarezza già nel rapporto sullo “sviluppo umano” nel mondo arabo dell’Undp (agenzia Onu per lo sviluppo) già dal 2002. L’argomento che si utilizza è quello delle incognite dell’islamismo politico. Ma non si considera che è molto meglio un islamismo politico (cioè partecipe del processo politico-istituzionale, con la connessa rinuncia ad ogni violenza ed integrismo) che un islamismo a-politico, preda di agitatori e demagoghi.
In altri termini, meglio un Rachid Ghannouchi (Tunisia), che torna dall’esilio e appoggia il pluralismo, o i Fratelli musulmani (Egitto), che come partito possono finalmente presentarsi alle elezioni, che un ostracismo contro forze che rischiano di abbracciare un’agenda distruttiva. Per troppo tempo il mondo euro-atlantico ha creduto di favorire la stabilità appoggiando autocrati che hanno progressivamente perso ogni spinta riformista. Si credeva che la stabilità coincidesse con la continuità. Se mai è stato vero, i fatti del Nord Africa ci dicono che oggi non è più così.
Mediterraneo: la democrazia possibile
La diffusione della democrazia del mondo arabo è stata spesso confusa, nello scorso decennio, con il tema controverso della cosiddetta “esportazione della democrazia”. Un obiettivo che è stato percepito, specie nei Paesi che ne avrebbero dovuto “beneficiare”, come una forma di imposizione di modelli euro-atlantici ad un mondo “mediterraneo”. Anche perché di mezzo c’era una Guerra (in Iraq) e toni non proprio concilianti nei confronti della cultura arabo-islamica in molti Paesi occidentali. L’Amministrazione Bush aveva lanciato l’iniziativa denominata “Grande Medio Oriente e Nord africa” con il fine di favorire l’effetto-domino, che dal modello iracheno avrebbe dovuto contagiare tutta la regione. Come sappiamo, non andò così. Da parte sua, già dal 1995 l’Europa aveva avviato il “Processo di Barcellona”, vale e dire un ampio progetto di cooperazione tra le due sponde del Mediterraneo per incoraggiare progetti comuni e il dialogo ad ogni livello, a cominciare dalla cultura e dagli scambi tra giovani e tra le espressioni della società civile. Nemmeno questo piano ha funzionato. Da ultimo, il presidente francese Sarkozy ha aperto un nuovo cantiere, quello dell’ “Unione per il Mediterraneo” che, nella migliore delle ipotesi, è temporaneamente bloccato, a causa della stasi nei negoziati israelo-palestinesi. Dunque, nemmeno quest’idea si è rivelata vincente. Ci siamo dimenticati, noi europei, che non molti decenni fa la democrazia non era affatto di casa nei Paesi del mediterraneo del nord: fascismo in Italia, salazarismo in Portogallo, franchismo in Spagna, colonnelli in Grecia, regimi militari in Turchia. Dunque, nessuno può dare lezioni. Ma nei nostri Paesi, pur tra mille ostacoli, la transizione è avvenuta. Perché non dovrebbe essere possibile anche nel mediterraneo del sud? Le incongruenze politiche e sociali di molti Paesi del nord-africa erano emerse con chiarezza nel rapporto sullo “sviluppo umano” nel mondo arabo dell’UNDP (agenzia ONU per lo sviluppo) già nel 2002. L’argomento che spesso si utilizza è quello delle incognite dell’islamismo politico. Ma non si considera che è molto meglio un islamismo politico (cioè partecipe del processo politico-istituzionale, con la connessa rinuncia ad ogni violenza ed integrismo) che un islamismo a-politico, preda di agitatori e demagoghi che utilizzano la religione ai loro fini di potere. In altri termini, meglio un Rachid Ghannouchi (Tunisia) che torna dall’esilio e appoggia il pluralismo o i Fratelli Musulmani (Egitto) che come partito possono finalmente presentarsi alle elezioni che un ostracismo contro forze che, se messe ai margini e perseguitate, rischiano di abbracciare un’agenda distruttiva. Per troppo tempo il mondo euro-atlantico ha creduto di favorire la stabilità appoggiando autocrati che hanno progressivamente perso ogni spinta riformista e ogni volontà di cambiamento. Si credeva che la stabilità coincidesse con la continuità. Se mai è stato vero, i fatti del nordafrica ci dicono che oggi non è più cosi.
Diritti solo per i cristiani?
L'eventuale creazione di un "Christian Rights Watch" proposta in particolare da "Il Foglio" è non solo ontologicamente sbagliata (i diritti umani sono universali, e non caratterizzati religiosamente, altrimenti ognuno potrebbe scrivere i propri e buttare a mare la Dichiarazione Universale; tra l'altro è quello che vogliono gli Islamisti quando vorrebbero far passare il concetto di diffamazione di una religione, non riferendola ai diritti individuali) ma anche assai pericolosa politicamente, perché farebbe esattamente il gioco dei terroristi, che colpiscono i Cristiani proprio perché vedono che c'è una enorme risonanza in Occidente, mentre quando fanno saltare intere Moschee (sunnite o sciite) c'è un agghiacciante silenzio. Con queste cose non si può scherzare, o si è coerenti oppure si fomenta allegramente ed irresponsabilmente lo scontro di civiltà. E dunque, in tal caso, il terrorismo qaedista avrebbe vinto alla grande.
Altra cosa è ovviamente auspicare la compilazione di un ulteriore rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. In questo caso ci sarebbero due problemi. Il primo di carattere pratico, perché, per evitare ripetizioni, occorrerebbe caratterizzarlo in un senso forse più specialistico rispetto a quelli che già circolano nel mondo, a cura di organismi diversi, sia in termini monografici sia come capitoli di rapporti sui diritti umani nel loro complesso. Ad esempio un aspetto poco evidenziato è la questione delle "pratiche" religiose, come la possibilità (ed ampliezza di essa) di manifestazione pubblica dei convincimenti religiosi, verificandone la coerenza con le disposizioni delle leggi interne. In secondo luogo, prima di lanciarsi in un esercizio simile, per evitare che diventi un boomerang, bisognerebbe avere i propri "conti" a posto, ad esempio sul tema della costruzione delle Moschee o dell'edificazione di Minareti, predisposizione dei luoghi di preghiera, e quant'altro.
Altra cosa è ovviamente auspicare la compilazione di un ulteriore rapporto sulla libertà religiosa nel mondo. In questo caso ci sarebbero due problemi. Il primo di carattere pratico, perché, per evitare ripetizioni, occorrerebbe caratterizzarlo in un senso forse più specialistico rispetto a quelli che già circolano nel mondo, a cura di organismi diversi, sia in termini monografici sia come capitoli di rapporti sui diritti umani nel loro complesso. Ad esempio un aspetto poco evidenziato è la questione delle "pratiche" religiose, come la possibilità (ed ampliezza di essa) di manifestazione pubblica dei convincimenti religiosi, verificandone la coerenza con le disposizioni delle leggi interne. In secondo luogo, prima di lanciarsi in un esercizio simile, per evitare che diventi un boomerang, bisognerebbe avere i propri "conti" a posto, ad esempio sul tema della costruzione delle Moschee o dell'edificazione di Minareti, predisposizione dei luoghi di preghiera, e quant'altro.
"Integrazione proiettiva" e "responsabilità equivalente"
Le nuove dimensioni del rapporto tra Europa e America Latina
Il dibattito politico-culturale sulla affinità tra Europa e America Latina e sulle potenzialità del rapporto tra le due regioni si è a lungo polarizzato tra i due estremi di una rappresentazione dell’America Latina come «estremo Occidente» oppure, in termini alternativi se non oppositivi, come «altro Occidente». Entrambi gli approcci appaiono fortemente condizionati da una visione eurocentrica, che definisce l’«altro» commisurandolo al «sé». L’America Latina è un contesto geo-politico e culturale con una propria originale identità, che non può essere svilita ad una replica o, all’opposto, ad una negazione della cultura occidentale dominante.
Se non si tiene conto di questa strutturale originalità, che è venuta consolidandosi a partire dall’epopea indipendentista ma che non può essere vista in netta discontinuità con l’eredità pre-colombiana, non si comprende appieno la svolta storica dinanzi alla quale si trova oggi il continente nel contesto globale.
Inoltre, occorre chiedersi se abbia davvero senso parlare di «America Latina» come di uno spazio unitario di derivazione bolivariana oppure se non sia il caso di riferirsi alle diverse «americhe latine». A differenza degli anni Novanta, quando, nonostante i diversi livelli di sviluppo, il subcontinente risultava sostanzialmente omogeneo dal punto di vista politico e delle politiche economiche, è infatti innegabile che vi sia oggi una crescente diversità dal punto di vista ideologico, politico ed economico tra i paesi dell’America Latina (con un’oscillazione tra la governance istituzionale e l’appello diretto alle masse tipico del populismo). Parallelamente, si è assistito ad un revival di fenomeni di nazionalismo e di riaffermazione della sovranità nazionale, in contrasto con le continue sollecitazioni ed iniziative per conseguire un’integrazione a livello regionale e subregionale.
Tale eterogeneità si traduce innanzitutto in una sorta di “microfisica del conflitto”, ovverosia un’acutizzazione della litigiosità tra paesi vicini e non solo (Venezuela e Colombia, Ecuador e Colombia, Argentina e Uruguay, Venezuela e Perù, Cile e Perù, Perù e Bolivia), fenomeno che spiega in parte anche l’aumento del 91% delle spese militari nel subcontinente americano durante gli ultimi quattro anni (anche se Stati Uniti e Europa non hanno proprio nulla da insegnare all’American Latina in fatto di spese militari, che continuano allegramente a lievitare nonostante la crisi economica abbia duramente colpito quasi tutti gli altri settori produttivi). Si tratta di confronti spesso collegati a vecchie e nuove dispute territoriali, o talvolta a conflitti ideologici più ampi (come quello che contrappone il Venezuela alla Colombia, presa di mira ritenuta caricaturalmente da Caracas quale “succedaneo” degli Stati Uniti, anche se al di là del folklore si palesa un più serio confronto simbolico tra concezioni neobolivariane e l‘idea olistica ed egemonica nord-americana di «emisfero occidentale»).
Per alcuni osservatori attenti, tuttavia, l’assenza di cooperazione tra i paesi latinoamericani sarebbe solo apparente. La nascita di numerose entità subregionali fortemente eterogenee non sarebbe che il segnale di un nuovo ciclo di integrazione regionale (estraneo dunque ad ogni spill over di europea memoria), caratterizzato da nuove agende di integrazione «post-liberali» che danno speciale enfasi a dimensione politica, sicurezza, difesa, coordinamento delle politiche energetiche e infrastrutturali e in generale a tematiche svincolate da quelle strettamente commerciali. Inoltre si starebbe affermando una cooperazione regionale che avanza grazie alla nascita di imprese «multilatine» e all’attuazione di progetti finanziari e infrastrutturali regionali.
L’Unione Europea, con un certo rassegnato realismo, ha mostrato negli ultimi anni, dinanzi alle divergenze continentali, di affiancare al tradizionale obiettivo di promuovere l’integrazione regionale (che rientra nell’ambiziosa prospettiva, annunciata in occasione del primo Vertice UE-LAC di Rio del 1999, di addivenire ad una “Partnership Strategica bi-regionale”) una pragmatica “bilateralizzazione” dei rapporti con i principali Paesi del continente. Dopo aver inutilmente tentato, infatti, di privilegiare il dialogo con i diversi raggruppamenti di paesi del Continente americano (Mercosur, Comunità andina), anche l’Unione Europea si è indirizzata verso un «bilateralismo selettivo», stabilendo anche in questo caso rapporti privilegiati innanzitutto con il Brasile e poi con il Messico (che appaiono, nel contesto regionale, come i «grandi attrattori» di iniziative e intese internazionali).
Al contempo, e grazie soprattutto all’attivismo di alcuni suoi Paesi, l’America Latina sta conoscendo un periodo di relativa espansione nello scenario mondiale. Il nuovo foro globale per le questioni economiche e finanziarie, il G20, vede la presenza di tre paesi latinoamericani (Argentina, Brasile, Messico). A differenza delle crisi economiche e finanziarie e mondiali degli ultimi trent’anni, che hanno sempre avuto i paesi dell’America Latina tra le principali vittime, la crisi corrente ha colpito il subcontinente solo a scoppio ritardato e la ripresa vi sta giungendo prima che altrove. Secondo le stime del FMI, alla fine del 2010 l’America Latina potrebbe far registrare un tasso di crescita del 3%, con picchi del 5% per il Brasile e del 4% per il Cile. Inoltre, se parlasse con una sola voce, l’America Latina potrebbe vantarsi di detenere un terzo del PIL degli Stati Uniti, il 40% dell’acqua potabile del mondo, la maggiore concentrazione di biodiversità nel mondo.
Nell’ambito della cooperazione tra aree emergenti, il ruolo più rilevante è svolto oggi dalla Cina, la cui presenza nel Subcontinente si è sviluppata molto velocemente negli ultimi anni, facendo di Pechino il secondo principale partner economico dopo gli Stati Uniti. Emblematicamente, il Governo cinese ha pubblicato per la prima volta nel 2008 un policy paper sull’America Latina. Oltre a diventare di recente il 48esimo membro della Banca Inter-Americana di Sviluppo, la Cina ha inoltre firmato una serie di accordi con vari paesi latinoamericani, in primis Brasile, Argentina, Venezuela.
La ridefinizione degli scenari globali impone dunque, sia all’Europa che all’American Latina, che non si possa vivere di rendita, confidando solo su fattori tradizionali e le affinità storiche e culturali. Se e’ vero che il nuovo contesto non produce un azzeramento dell’accumulazione del patrimonio politico tra l’Europa e l’America Latina, è anche vero che tale retaggio, se non «coltivato» e rilanciato su basi totalmente rinnovate, rischia di avvizzire e di restare un elemento nostalgico o di generica simpatia. E’ invece un rapporto che deve essere ripensato come una partnership strategica, fondata sulla comune consapevolezza dell’imprescindibilità di un’azione comune nel far fronte alle grandi sfide transnazionali.
Sarebbe tuttavia errato indicare oggi l’Unione Europea come modello «virtuoso» d’integrazione. E’ innegabile che, a differenza dei paesi europei, quelli latinoamericani dispongono (salvo nel caso del Brasile) di uno strumento di integrazione eccezionale, la lingua, vettore di un idem sentire. Ciononostante, i tentativi di esportazione della teoria funzionalista - evidenti nella creazione del Mercosur, le cui strutture si ispirano chiaramente a quelle europee - non hanno sinora prodotto risultati sostanziali e comunque gli effetti sono assai limitati.
L’America Latina potrebbe percorrere una strada diversa all’integrazione, in un certo senso invertendo i caratteri e le fasi dell’integrazione europea. L’Unione Europea si è costruita con una particolare «cura di sé», dando vita a politiche integrative come la politica agricola comune, il Mercato Interno, la Moneta Unica, la libera circolazione delle persone, delle merci, dei capitali e dei servizi. L’America Latina potrebbe scegliere di costruirsi attraverso la «cura del mondo», vale a dire la disponibilità ad assumere un ruolo centrale nella cosiddetta «governance globale». Mentre il processo europeo può essere descritto come una «integrazione introiettiva», l’America Latina potrebbe esplorare le nuove dimensioni della «integrazione proiettiva», vale a dire scoprire le ragioni profonde dell’unità del subcontinente attraverso l’apertura ad altre regioni del mondo e a politiche di cooperazione internazionale a tutto campo.
In ogni caso, nel perseguire un rilancio della cooperazione tra l’Europa e l’America Latina, l’approccio dovrebbe comunque essere basato sulla «responsabilità equivalente». La crescente autonomia dei paesi latinoamericani nella gestione delle problematiche strutturali (endogene ed esogene) e il ruolo sempre più rilevante di alcuni di loro quali attori emergenti nello scenario mondiale dovrebbero consentire di superare la logica degli impegni asimmetrici, per avviare relazioni «di qualità», fondate su una solida ed attualizzata piattaforma politico-strategica e sulla comune assunzione di responsabilità rispetto alle criticità globali.
(ringrazio Valeria Biagiotti per la collaborazione)
Nord Africa: ascoltare i popoli
Questa volta la metafora della polveriera non è eccessiva. Con l’abbandono (forzato) del potere da parte del Presidente tunisino Ben Ali (in carica ininterrottamente dal 1987) si aprono scenari inquietanti per tutto il Nord Africa. Gli analisti politici, negli anni ’80, avevano coniato un neologismo, e cioè “democradura” (una crasi tra democrazia e dittatura) per riferirisi alle democrazie più formali che sostanziali in molti Paesi latino-americani. C’è da chiedersi se questa definizione non riguardi, oggi, molti Paesi, e non solo nordafricani. Come che sia, il sostegno a questi governi “forti”) (per usare un eufemismo”) da parte del mondo euro-atlantico si era fondato sul convincimento che essi costituissero un baluardo contro l’islamismo violento. Come troppo spesso avvenuto dopo l’11 settembre 2001, la giustificazione risiedeva nella vaga e abusata retorica della “lotta al terrorismo globale”. Certamente vi sono forze che hanno tutto l’interesse a strumentalizzare la voglia di cambiamento ed il fortissimo disagio sociale in un’area dove la percentuale media della popolazione al di sotto dei 15 anni sfiora il 30%. Ed è altrettanto illusorio il programma di “esportazione della democrazia”, proprio perché molti profittatori politici ammantati di una patina pseudo-religiosa sono già pronti a sfruttare l’occasione. Ma pensare di “congelare” interi sistemi politici in una situazione di turbolenza sociale è semplicemente illusorio. E’ mancato un progetto di cooperazione autentica tra Europa e Nord Africa. Gli interessi legati alle furniture di energia (gas, petrolio) da una parte e le paure indotte da certa classe politica nei confronti della presunta “invasione” di immigrati non hanno fatto che alimentare il senso di sfruttamento e di esclusione in tutta la sponda sud del mediterraneo. E’ mancato un vero dialogo tra le società civili, che sono rimaste ostaggio di logiche governative e di interessi costituiti. Al di là di inefficaci progetti di Unioni e partenariati del Mediterraneo, bisognerebbe ascoltare di più i popoli mediterranei.
Tommaso d'Aquino e l'lslam
In un momento tragico per i rapporti tra musulmani e cristiani in Medio Oriente, un "pensoso" seme di speranza e di apertura viene dal passato, ma letto al presente e proiettato al futuro. E' stato
presentato martedì 11 gennaio 2011, presso la Libreria Internazionale Paolo VI (via di Propaganda, 4) “Tommaso d’Aquino e l’Islam”, primo numero dei Quaderni Aquinati, Collana di studi e documenti diretta da Tommaso Di Ruzza e co-edita dalla Libreria Editrice Vaticana e dal Circolo San Tommaso d’Aquino.
Hanno presentato il volume S.E. Jean-Louis Bruguès, Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, autore della Prefazione, e S.A.R Wijdân al-Hâshemi, Ambasciatore di Giordania.
Nel volume sono contenuti gli Atti del convegno “Tommaso d’Aquino e il dialogo con l’Islam”, tenutosi ad Aquino il 7 marzo 2009. L’indice del volume è di assoluto prestigio: i saluti introduttivi sono del cardinal Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, di S.E. Mons. Luca Brandolini, vescovo emerito della diocesi di Sora Aquino Pontecorvo, e di Tommaso Di Ruzza, Presidente del Circolo San Tommaso d’Aquino. La lectio magistralis è tenuta da p. Joseph Ellul, domenicano, esperto di dialogo con l’Islam. Il libro si conclude con gli interventi nel dibattito di Wijdân al-Hâshemi, del Mons. Lluís Clavell, Presidente della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e di p. Vincenzo Benetollo, presidente del Società Internazionale Tommaso d’Aquino, uno dei massimi esperti in Italia del pensiero dell’Aquinate. «I Quaderni Aquinati – afferma Tommaso Di Ruzza, Presidente del Circolo San Tommaso d’Aquino – sono un segno concreto dell’impegno che un gruppo di giovani di Aquino si è preso appena un anno fa: quello di raccogliere la sfida di Paolo VI, in visita ad Aquino 35 anni fa, e formare proprio ad Aquino un progetto culturale fondato sulla figura di Tommaso d’Aquino, fondato nella dottrina cristiana ed aperto ai nuovi linguaggi della cultura e dell’arte». Il Circolo San Tommaso d’Aquino è un circolo culturale fondato 2009. È riconosciuto dalla Diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo ed incluso nel Progetto culturale della Chiesa cattolica italiana. Nel 2010 ha istituito il Premio internazionale Tommaso d’Aquino, destinato ad una figura che si distingue nel mondo della cultura o dell’arte, ed il Concorso Veritas et Amor, rivolto a giovani studiosi ed artisti. Gli atti del convegno, ancorché risalenti a più di un anno fa, si presentano di grande attualità. P. Ellul, dopo aver analizzato gli scritti di Tommaso d’Aquino, conclude che «è vero che il linguaggio usato da Tommaso quando descrive la fede musulmana e l’operato di Maometto è durissimo e oggi sarebbe del tutto inaccettabile, ma, detto questo, si deve ammettere anche che tale posizione non escludeva la sua curiosità intellettuale e il suo vedere i sapienti musulmani (e ebrei) come compagni di viaggio nel lungo cammino verso la verità divina». Chiosa l’ambasciatore Al Hashemi: «Quello che è altrettanto straordinario è il modo in cui Tommaso sembra cambiare opinione sia sull’Islam che sull’Ebraismo e come sia stato disponibile ad imparare da entrambe le culture per sviluppare il suo pensiero». Il volume è disponibile in versione cartacea ed elettronica, e si può acquistare e scaricare on-line dal sito www.circolosantommaso.it.
presentato martedì 11 gennaio 2011, presso la Libreria Internazionale Paolo VI (via di Propaganda, 4) “Tommaso d’Aquino e l’Islam”, primo numero dei Quaderni Aquinati, Collana di studi e documenti diretta da Tommaso Di Ruzza e co-edita dalla Libreria Editrice Vaticana e dal Circolo San Tommaso d’Aquino.
Hanno presentato il volume S.E. Jean-Louis Bruguès, Segretario della Congregazione per l’Educazione Cattolica, autore della Prefazione, e S.A.R Wijdân al-Hâshemi, Ambasciatore di Giordania.
Nel volume sono contenuti gli Atti del convegno “Tommaso d’Aquino e il dialogo con l’Islam”, tenutosi ad Aquino il 7 marzo 2009. L’indice del volume è di assoluto prestigio: i saluti introduttivi sono del cardinal Jean-Louis Tauran, presidente del Pontificio Consiglio per il Dialogo Interreligioso, di S.E. Mons. Luca Brandolini, vescovo emerito della diocesi di Sora Aquino Pontecorvo, e di Tommaso Di Ruzza, Presidente del Circolo San Tommaso d’Aquino. La lectio magistralis è tenuta da p. Joseph Ellul, domenicano, esperto di dialogo con l’Islam. Il libro si conclude con gli interventi nel dibattito di Wijdân al-Hâshemi, del Mons. Lluís Clavell, Presidente della Pontificia Accademia di San Tommaso d’Aquino e di p. Vincenzo Benetollo, presidente del Società Internazionale Tommaso d’Aquino, uno dei massimi esperti in Italia del pensiero dell’Aquinate. «I Quaderni Aquinati – afferma Tommaso Di Ruzza, Presidente del Circolo San Tommaso d’Aquino – sono un segno concreto dell’impegno che un gruppo di giovani di Aquino si è preso appena un anno fa: quello di raccogliere la sfida di Paolo VI, in visita ad Aquino 35 anni fa, e formare proprio ad Aquino un progetto culturale fondato sulla figura di Tommaso d’Aquino, fondato nella dottrina cristiana ed aperto ai nuovi linguaggi della cultura e dell’arte». Il Circolo San Tommaso d’Aquino è un circolo culturale fondato 2009. È riconosciuto dalla Diocesi di Sora-Aquino-Pontecorvo ed incluso nel Progetto culturale della Chiesa cattolica italiana. Nel 2010 ha istituito il Premio internazionale Tommaso d’Aquino, destinato ad una figura che si distingue nel mondo della cultura o dell’arte, ed il Concorso Veritas et Amor, rivolto a giovani studiosi ed artisti. Gli atti del convegno, ancorché risalenti a più di un anno fa, si presentano di grande attualità. P. Ellul, dopo aver analizzato gli scritti di Tommaso d’Aquino, conclude che «è vero che il linguaggio usato da Tommaso quando descrive la fede musulmana e l’operato di Maometto è durissimo e oggi sarebbe del tutto inaccettabile, ma, detto questo, si deve ammettere anche che tale posizione non escludeva la sua curiosità intellettuale e il suo vedere i sapienti musulmani (e ebrei) come compagni di viaggio nel lungo cammino verso la verità divina». Chiosa l’ambasciatore Al Hashemi: «Quello che è altrettanto straordinario è il modo in cui Tommaso sembra cambiare opinione sia sull’Islam che sull’Ebraismo e come sia stato disponibile ad imparare da entrambe le culture per sviluppare il suo pensiero». Il volume è disponibile in versione cartacea ed elettronica, e si può acquistare e scaricare on-line dal sito www.circolosantommaso.it.
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