La guerra non scappa

di David Grossman

Stravincere non serve a nessuno stupiamo il mondo, fermiamoci ora.
Avremo sempre occasione di riaprire il fuoco. Lo aveva detto Barak pochi giorni fa: la guerra non scappa. Stringeremo i denti, come abbiamo fatto durante tutto l´ultimo periodo, e non ci lasceremo trascinare verso una reazione di forza. Invitiamo inoltre tutti i paesi interessati, vicini e lontani, a mediare fra noi e voi, al fine di stabilire nuovamente la calma. Se anche voi cesserete il fuoco, noi non lo riprenderemo. Se continuerete a sparare mentre noi ci imponiamo la moderazione, reagiremo allo scadere delle quarant´otto ore, ma anche allora lasceremo la porta aperta alle trattative per il rinnovo della calma, e persino per un accordo generale e più ampio". In questo momento, questa deve essere la mossa israeliana. E´ possibile, oppure siamo già prigionieri del noto e famigliare rituale di guerra? Fino a sabato, Israele - sotto la guida militare di Ehud Barak - si è comportato con un sangue freddo impressionante. Non dobbiamo permettere che tale sangue freddo vada perduto adesso, nel turbine della battaglia. Nemmeno per un momento dobbiamo dimenticare che gli abitanti della Striscia di Gaza continueranno ad essere i nostri vicini di casa più prossimi, e che prima o poi vorremo arrivare con loro a rapporti di buon vicinato. Dobbiamo guardarci dal colpirli in maniera tanto violenta, anche se Hamas ha per anni afflitto in modo insopportabile gli abitanti del sud del paese e per quanto i loro capi abbiano respinto ogni tentativo israeliano ed egiziano di arrivare al compromesso nello sforzo di evitare l´incendio. La moderazione e il dovere di difendere la vita degli abitanti di Gaza innocenti devono essere mantenuti anche adesso, proprio perché la potenza di Israele, in confronto alla loro, è praticamente illimitata. Israele ha il dovere di controllare senza sosta se la forza che sta applicando non travalichi il limite della reazione utile e legittima, il cui scopo è il deterrente e il ristabilimento della calma, e da quale momento in poi si trovi nuovamente intrappolato nella solita spirale di violenza. I leader israeliani sanno perfettamente che, nella situazione che regna nella Striscia di Gaza, è molto difficile arrivare ad una soluzione militare assoluta ed inequivocabile. Una conseguenza possibile di tale mancata soluzione potrebbe essere una situazione indefinita e continua, come quella in cui ci siamo già trovati: Israele colpisce Hamas, colpisce e subisce, subisce e colpisce e continua ad infilarsi suo malgrado in tutte le trappole connesse ad una situazione del genere, senza essere in grado di raggiungere i suoi obiettivi veri e vitali. Molto presto potrebbe scoprire di essersi lasciato trascinare - da una forza militare grande e tuttavia impotente a districarsi dalle complicazioni - in un´ondata irresistibile di violenza e distruzione. Quindi, fermiamoci. Tratteniamoci. Uno volta tanto proviamo ad agire contrariamente al solito riflesso condizionato. Contrariamente alla logica letale della aggressività. Avremo sempre un´occasione di aprire nuovamente il fuoco. La guerra - come ha detto Ehud Barak due settimane fa - non scappa. Anche l´appoggio internazionale ad Israele non ne sarà menomato, anzi crescerà, se mostreremo tale calcolata moderazione, invitando la comunità internazionale, e quella araba, ad intervenire e a mediare. E´ vero che in questo modo Hamas godrà di un intervallo in cui potrà riorganizzarsi, ma in ogni caso ha avuto lunghi anni per farlo, ed altri due giorni non cambieranno davvero la sua situazione. Per contro, una tregua calcolata di questo genere potrebbe cambiare il modo di reagire di Hamas alla nuova situazione. Potrebbe anche offrirgli una chiave onorevole per uscire dalla trappola in cui si è infilato. E ancora una riflessione, inevitabile: se avessimo adottato questo approccio nel luglio 2006, dopo il rapimento dei soldati da parte dii Hezbollah, se allora ci fossimo fermati, dopo la botta della nostra prima reazione, e avessimo dichiarato il cessate il fuoco per un giorno o due, al fine di consentire la mediazione ed il ritorno della calma, è molto probabile che la realtà oggi sarebbe completamente diversa.
Anche questa è una lezione che al governo israeliano conviene trarre da quella guerra. Di fatto, è forse la lezione più importante che deve imparare.

Accecati dal mito della guerra lampo


di Gad Lerner

"Tutto ciò che è improvviso è male, il bene arriva piano piano". Così pensava nella sua saggezza Mendel Singer, l`impareggiabile
"Giobbe" di Joseph Roth.Magari ne serbassero memoria gli sraeliani, esasperati da un assedio senza fine ma tuttora accecati dal mito della guerra-lampo risolutiva che nel 1967 parve durare sei giorni appena e invece li trascina, dopo oltre 41 anni, a illudersi nuovamente: bang, un colpo improvviso bene assestato, e pazienza se il mondo disapprova, l`importante è che il nemico torni a piegare le ginocchia. Solo che al posto dei fanti straccioni del panarabista Nasser ora c`è l`islamismo di Hamas e Hezbollah.
Al posto del generale Dayan e del capo di stato maggiore Rabin, c`è il ministro Barak, pluridecorato ma già politicamente logoro. E alla guida provvisoria del governo c`è un dimezzato Olmert che non crede fino in fondo in quel che fa, dopo aver condiviso negli ultimi anni l`autocritica strategica di Sharon. Il bene arriva piano piano. Tutto ciò che è improvviso è male. Non sono massime buone solo per deboli ebrei diasporici come quel Giobbe di un`Europa che non c`è più. É la sapienza antica d`Israele che ci ammonisce - da Davide e Golia in poi - come la superiorità militare non basti a dare sicurezza. Perché la forza non è tutto, anzi, può
trascinare alla sconfitta le buone ragioni. Tre minuti di bombardamento micidiale preparati da mesi di lavoro d`intelligente possono schiacciare l`apparato visibile di Hamas ma non disinnescano il suo potenziale offensivo clandestino. Così i minuti si prolungano in giorni, mesi, anni. Seminando un odio tale da rendere sempre meno probabile che tra i palestinesi recuperi legittimità la componente moderata dell`Anp, destinata a soccombere dopo Gaza anche in Cisgiordania. Il risultato sarà un Israele che riesce a mettersi dalla parte del torto e del disonore pur avendo ragione nel denunciare la sofferenza delle sue contrade meridionali bombardate e, di più, la ferocia del regime imposto dagli sceicchi fondamentalisti alla popolazione di Gaza che tengono in ostaggio con la scusa di proteggerla. La competizione elettorale israeliana del prossimo febbraio non offrirà più l`alternativa del 2005: di qua la coalizione che prospettava la pace in cambio di sacrifici territoriali, di là l`oltranzismo di chi considera gli arabi capaci d`intendere solo le bastonate. Ora tutti i contendenti gareggiano nel mostrarsi inflessibili, a costo di sacrificare le trattative con l`Anp e la Siria. L`opinione pubblica si rassegna all`inevitabilità della guerra, ma non per questo ritrova fiducia e combattività. All`indomani dell`attacco riaffiorano le divisioni. Gli stessi celebri scrittori, rappresentativi di un`intellighenzia minoritaria, dapprima hanno confidato che la rappresaglia di Tsahal rimanesse limitata, ma ora già chiedono un cessate il fuoco. Sono i primi ad avvertire, nel loro profetico distacco dalla politica, come il disonore possa trascendere nella perdizione d`Israele. Esprimono il malessere di una comunità frantumata cui riesce sempre più difficile riconoscersi in una cultura nazionale unitaria. L'affievolirsi della solidarietà esterna costringe Israele a guardarsi dentro, sottoponendo a autoanalisi pure le sofferenze indicibili, come il trauma della generazione ebraica sterminata. Si misurano i danni dell`ultimo lascito velenoso di Hitler, cioè il transfert nelle generazioni successive dei "sopravvissuti per procura". E il richiamo terribile con cui scuote Israele l`ex presidente del suo parlamento, Avraham Burg: non hai un futuro di nazione come "portavoce dei morti della Shoah"; noi dobbiamo diventare altro che un`insana, dubbia rappresentanza delle vittime. Il nostro futuro pensabile è di compenetrazione con l`Oriente nel quale di nuovo gli ebrei provenienti da regioni lontane si sono fra loro mescolati; è di relazione con le altre vittime di questa terra. Perfino l`unico obiettivo politico realistico - due popoli,due Stati - come notava ieri Bernardo Valli, viene rimesso in discussione da un orizzonte storico in cui si registra il declino parallelo dei due nazionalismi (sionismo e panarabismo)in lotta da un secolo. Quanto al rimpianto per le innumerevoli occasioni perdute, la guerra lo confina in un ambito letterario e cinemato grafico. Si legga il bel romanzo dell`ebreo irakeno Ali Amir, immigrato in Israele nel 1951, "Jasmine" (Einaudi). Racconta l'incapacità di trarre frutto dalla consuetudine con gli arabi degli ebrei orientali, che pure sarebbe stata preziosa quando
si cercava una soluzione per i territori occupati nella guerra-lampo. Invano zio Khezkel, reduce da una lunga detenzione per sionismo nelle prigioni di Bagdad, liberato dopo la vittoria del 1967, cerca di convincere una platea laburista di Gerusalemme: "Noi dobbiamo prestare ascolto al loro dolore, non ignorare la Nabka, la loro tragedia, ricordare che anche loro hanno una dignità. Dobbiamo
ricordare che il debole odia il forte e chi oggi è sull`altare
domani potrebbe ritrovarsi nellapolvere". La leadership ashkenazita non poteva intenderel`appello di zio Khezkel, i giovani gli danno del codardo. Mi ha fatto impressione domenica seravedere al telegiornale il migliaio di musulmani convenuti di fronte al Duomo di Milano per pregare Allah dopo il bombardamento di Gaza. Ho ricordato la notte del 1982 in cui, per protestare contro la strage di Sabra e Chatila, ci ritrovammo in quella piazza arabi ed ebrei insieme, laicamente, non certo a genufletterci verso la Mecca. Oggi pare impossibile, costretti ad appartenenze irriducibili da un fondamentalismo che inferocisce la guerra nei suoi connotati religiosi. Hamas all`epoca non esisteva. Nasceva in Israele il movimento "Pace adesso" che avrebbe spinto al dialogo con i palestinesi. La rivoluzione iraniana degli ayatollah, nei suoi primi tre anni di vita, non era ancora riuscita a contagiare d`odio (suicida) l`islam globale. Oggi viviamo il pericolo di un conflitto che si estende e si assolutizza dall` una all`altra sponda del Mediterraneo, bersagliando Israele come tumore da estirpare. Distruggere Hamas, cioè l`islam fondamentalista penetralo fino a immedesimarsi nella causa nazionale palestinese, appare obiettivo difficilissimo da conseguire. Dubito che il governo di Gerusalemme, dichiarandolo, creda davvero che sia questa, chissà perché, la volta buona. Il rischio, al contrario, è che si consegni all`obbligo di combattere una guerra senza fine. Solo qualche settimana fa Ehud Olmert, un leader che non ha più niente daperdere e quindi s`è preso la libertà di dire le verità scomode, raccomandava ben altro futuro agli israeliani. Dobbiamo ripensare ciò in cui abbiamo creduto per una vita, anche se è doloroso. Rinunce territoriali, un lembo di Gerusalemme capitale palestinese. Olmert ha usato perfino una parola terribile, "pogrom", per sanzionare le violenze messe in atto dai coloni contro i palesti neri di Hehron. Fra prossimo araggiungere un accordo con la Siria quando Harnas, rompendo la tregua e scatenando l`offensiva missilistica, ha trascinato l`establishment israeliano nella coazione a ripetere di questa guerra dei cent`anni. Spero di sbagliarmi, ma temo che i pio entusiasti sostenitori dell`operazione "Piombo Fuso" saranno i primi a squagliarsi, quando si avvicineranno le ore fatali d`Israele.

«Chiedo a tutti: cessate il fuoco»


di AMOS OZ
E' il momento per un urgente e immediato cessate il fuoco tra Israele e Hamas. Hamas deve subito bloccare i suoi attacchi insensati ai danni dei civili israeliani e Israele deve fermare le sue operazioni a Gaza. Ulteriori violenze non condurranno a nulla, se non all`inasprimento del circolo vizioso fatto di attacchi e contro-attacchi sempre più gravi e senza fine. L`unico obiettivo delle operazioni militari di Israele a Gaza è di raggiungere la fine degli attacchi contro i propri cittadini e la sua società civile. Va detto che non deve esistere alcun altro obiettivo che Israele possa raggiungere tramite il ricorso alla forza militare. D`altra parte, noi tutti dobbiamo adattarci all`evidenza della profonda divisione esistente all`interno del campo palestinese e prendere atto che oggi convivono due Palestine: una nella striscia di Gaza e l`altra in Cisgiordania. Gaza è stata sequestrata da una banda di estremisti islamici che si muovono sulla falsariga dei talebani e sono sostenuti dalll`Iràn, il quale a sua volta da tempo proclama la necessità di perpetrare un grande genocidio ai danni di Israele. La Cisgiordania è controllata dall`Autorità Palestinese, che si è dimostrata pragmatica e moderata. Detto ciò, va però anche ricordato che Gaza resta un luogo di immense povertà, disperazione e miseria. Ed appare dunque ancora più assurdo e tragico che questa comunità di profughi palestinesi sia controllata da un gruppo di cinici assetati di guerra dediti alla causa della distruzione di Israele e che considerano qualsiasi cittadino israeliano come una loro vittima più che legittima. Gaza merita molto meglio di Hamas. Se dunque è indispensabile che il governo dello Stato israeliano faccia del suo meglio per stipulare immediatamente il cessate il fuoco con Hamas a Gaza, resta anche prioritaria la ripresa dei negoziati di pace con l`Autorità Palestinese in Cisgiordania, e, anzi, proprio di questi tempi tali sforzi vanno raddoppiati. I termini delle intese sono ormai ben noti a tutti: tornare ai confini precedenti il conflitto del giugno 1967 con leggere reciproche modificazioni tracciate di comune accordo; due città-capitali a Gerusalemme; non deve esistere alcun insediamento ebraico all`interno del territorio del futuro Stato palestinese e va imposta un`autentica demilitarizzazione nelle regioni che Israele dovrà evacuare. Sarà di grande aiuto l`impegno della comunità internazionale nel favorire gli accordi tra Stato israeliano e dirigenti palestinesi in Cisgiordania. In particolare l`Europa potrebbe giocare un ruolo trainante incoraggiando, aiutando e rassicurando entrambi i contendenti chiamati comunque a fare reciprocamente gravose concessioni e ad assumersi una lunga serie di rischi. L`intesa tra Israele e l`Autorità palestinese sulla falsariga di questi principi è giusta e possibile. E io ritengo che, se Israele avrà il coraggio di concludere la pace con i responsabili palestinesi della Cisgiordania, alla fine seguirà anche quella con Gaza. Ma, lo ripeto, il primo passo deve essere un immediato cessate il fuoco con Hamas, accompagnato dal raddoppio degli sforzi per giungere all`intesa con l`Autorità palestinese. L`alternativa è semplicemente troppo orribile per essere presa in considerazione.
(Traduzione di Lorenzo Cremonesi)

© Corriere della Sera

Pronti per il Natale?

BERGAMO - In una chiesa di Bergamo il parroco si è rifiutato di mettere la statuetta di Gesù Bambino nel presepe (come accade, per tradizione, il 24 dicembre), perché la gente "non è pronta". E ora fa discutere la scelta di monsignor Attilio Bianchi, parroco della chiesa di Santa Lucia, il Tempio votivo di Bergamo, annunciata nel corso dell'omelia, alla Messa di Mezzanotte.
Il sacerdote, che durante le omelie domenicali invita i fedeli a curarsi dei poveri e degli emarginati, ha deciso di comportarsi di conseguenza. E durante l'omelia ha proclamato: "Questa notte non è Natale. Non siete pronti. Se non sapete accogliere lo straniero, il diverso, non potete accogliere il Bambin Gesù.
Perciò Gesù non nasce".
E quindi non ha fatto porre nel presepe della chiesa la statuetta (già pronta) del Bambinello. A chi ha chiesto spiegazioni ha poi detto che il presepe era basato sul racconto di Ezio del Favero 'Al chiaro delle stelle', in cui Gesù Bambino esce dalla culla per andare da un bimbo povero che non osava stargli vicino: "Il messaggio che abbiamo voluto dare è proprio questo: Gesù non ha paura di avvicinarsi agli emarginati, agli ultimi. E' ora che chi si dice cattolico metta in pratica gli insegnamenti di Cristo".

(27 dicembre 2008)

Il rischio della fede


(di Eugenio Scalfari)
Ho letto il libro del cardinale Carlo Maria Martini, 'Conversazioni notturne a Gerusalemme' qualche giorno prima che uscisse nelle librerie: un amico suo e mio me l'aveva fatto avere insieme ai saluti dell'autore. Quel libro ha un sottotitolo molto significativo: 'Sul rischio della fede'.
L'autore ne parla ad ogni pagina, si vede che è stato proprio quel rischio ad affascinarlo, la sua fede ha avuto in esso il suo nutrimento e il suo fondamento.
Per me non credente quest'approccio ha catturato la mia attenzione ed anche il mio affetto per l'autore che so molto ammalato e in costante dialogo con la morte. Si direbbe che quella prossimità abbia reso esplicita nei suoi pensieri e nelle sue parole una testimonianza di libertà e di giustizia così profonda da superare ogni steccato e ogni ortodossia. Il rischio della sua fede sta proprio in quella testimonianza che lo avvicina in nome del suo Gesù ad ogni altro testimone che sia altrettanto votato alla giustizia e alla libertà, quale che sia la religione che professa e la cultura che lo ispira.
Mi aspettavo che il libro stimolasse un dibattito ampio soprattutto nella comunità cattolica che ne è la principale destinataria, ma non mi pare che questo dibattito sia avvenuto o almeno non nello spazio pubblico. Molte recensioni al suo apparire, soprattutto sui giornali laici; ma anche quelle dedicate agli aspetti edificanti, all'amore per i giovani, alla speranza del bene e della contemplazione della morte. Sentimenti che abbondano in quelle pagine ma che non fanno trasalire chi le legge e non esprimono il rischio cui si richiama chi le ha scritte.
Voglio qui trascrivere i passi più significativi e più emozionanti delle 'Conversazioni notturne'. Riguardano la Chiesa, i cattolici, i giovani, le donne, l'ecumenismo, l'accoglienza e - prima d'ogni altro valore - la giustizia e la fratellanza.
Non omologate questa testimonianza d'un cardinale arcivescovo con frettolosa compunzione, voi uomini di Chiesa, voi politici che vi dichiarate devoti, voi che avete il Cristo sulle labbra con sospettabile frequenza. Queste pagine non sono rassicuranti ma drammatiche e scandalose nel senso evangelico del termine. Proprio per questo loro spessore sarà difficile omologarle e dimenticarle in qualche polveroso scaffale.
"Nella mia vita mi sono imbattuto in molte cose terribili, la guerra, il terrorismo, le difficoltà della Chiesa, la mia malattia, la mia debolezza. Ma la mia infelicità è poca cosa in confronto alla felicità. La felicità va condivisa. E soprattutto la felicità non è qualcosa che arriva e che dobbiamo solo aspettare. Dobbiamo cercarla".
"Chi ha imparato ad avere fiducia non trema, ha il coraggio di darsi da fare, di protestare quando viene detta qualcosa di spregevole, di cattivo, di distruttivo. E soprattutto ha il coraggio di dire 'sì' quando si ha bisogno di lui".
"Chi legge la Bibbia e ascolta Gesù scoprirà che lui si meraviglia della fede dei pagani. In un passo del Vangelo egli non propone come modello il sacerdote, ma l'eretico, il samaritano. Quando pende dalla croce accoglie in cielo il ladrone. Il migliore esempio è Caino: Dio segna Caino per proteggerlo. Nella Bibbia Dio ama gli stranieri, aiuta i deboli, vuole che soccorriamo e serviamo tutti gli uomini. Gli uomini invece e anche la Chiesa, corrono sempre il rischio di porsi come assoluti".
"Non si può rendere Dio cattolico. Dio è al di là dei limiti e delle definizioni che noi stabiliamo. Egli non si lascia dominare o addomesticare. Se esaltiamo Gesù e guardiamo i poveri, gli oppressi, i malati, andiamo verso di loro e li tocchiamo, Dio ci conduce fuori, nell'immensità. Ci insegna a pensare in modo aperto".
"Paura e indifferenza sono entrambi presenti nella Chiesa. Gesù risveglierà e scuoterà gli indifferenti e incoraggerà i timorosi. Oggi è difficile far parte della Chiesa ed esserne soltanto un membro passivo. Ma chi agisce e assume responsabilità può cambiare molte cose. Da giovane ed anche da Vescovo il lavoro con i giovani è stato quello che mi ha più aiutato ad essere cristiano. Cristo non ha oggi altre mani e altra bocca che la tua e la mia".
"La Chiesa parla molto di peccato. È forse interessata a far apparire gli uomini più cattivi di quanto non siano? Di peccato la Chiesa ha parlato molto, a volte troppo. Da Gesù può imparare che è meglio incoraggiare gli uomini e stimolarli a lottare contro il peccato del mondo. Con 'peccato del mondo' la Bibbia non si riferisce solo alle nostre colpe personali bensì a tutte le ingiustizie e ai pesi che ereditiamo. Gesù ci chiama a collaborare alla guarigione laddove l'ordine divino del mondo è stato violato".
"Io voglio una Chiesa aperta, porte aperte alla gioventù, alle donne, una Chiesa che guardi lontano. Non saranno né il conformismo né timide proposte a rendere la Chiesa interessante. Io confido nella radicalità della parola di Gesù, nella buona novella che Gesù vuole portare".
"La giustizia è l'attributo fondamentale di Dio. Nel giudizio universale Gesù formula come criterio di distinzione tra il bene e il male la giustizia, l'impegno a favore dei piccoli, degli affamati, degli ignudi, dei carcerati, degli infermi. Il giusto lotta contro le disuguaglianze sociali".
"Quando si conducono guerre di aggressione in nome di Dio, quando il cristianesimo viene usato in modo populistico in campagne elettorali, sento suonare campane di allarme. È repugnante parlare di Dio e non esser fedeli alla sua caratteristica principale: la giustizia. Ci unisce ai musulmani e agli ebrei la fede nel Dio unico. Se si parla di Dio bisogna farlo con serietà altrimenti è meglio non avere il suo nome sulle labbra".
Ci sono molti altri passi di 'Conversazioni notturne' che meriterebbero d'esser citati. Rileggendolo ho notato che la parola Cristo è usata raramente mentre il nome Gesù ricorre più volte in tutte le pagine. Si direbbe che il Figlio dell'Uomo per Martini sia molto più pregnante del Figlio di Dio.
Concludo con un'ultima frase dell'autore: "Con i giovani abbiamo vissuto una Chiesa aperta. Essi lottano contro l'ingiustizia e vogliono imparare l'amore. Danno speranza ad un mondo difficile".
(5 dicembre 2008)

La citta' rinnovata dal dialogo

Dionigi Tettamanzi, Arcivescovo di Milano, 5 dicembre 2008

Il dialogo non è uno tra i tanti atteggiamenti che l’uomo può assumere, ma è un tratto fondamentale, costitutivo, della sua umanità. Deve diventare un atteggiamento stabile, una virtù che l’uomo sapiente sa ricercare e coltivare, anche a prezzo di fatica.
Così sant’Ambrogio scrive, commentando il versetto biblico “Lo stolto cambia come la luna”: «Il sapiente non è abbattuto dal timore, non è mutato dal potere, non è esaltato dalla prosperità, non è sommerso dalla sventura. Dove c’è la sapienza, c’è la virtù dell’animo, ci sono la costanza e la fermezza. Il sapiente, dunque, (…) rimane perfetto in Cristo, “fondato nella carità”, “radicato” nella fede…».(...) Ripensando all’uomo sapiente e giusto descritto da Ambrogio, mi chiedo: “E’ ancora possibile un dialogo?”, anzi: “E’ ancora possibile il dialogo?”. E ancora: “Quanto oggi siamo disponibili a considerare il dialogo uno strumento importante per il nostro vivere personale e sociale?”. (...)Il mistero della reciprocità e la virtù della comprensione Ma a quali condizioni il dialogo è possibile? Il dialogo autentico esige l’attenzione all’altro, la propensione ad ascoltarlo e perfino a comprenderlo, anche quando non se ne condividono le vedute. Non è semplice dialogare. Mette in gioco tutto di noi stessi: l’identità, la storia, la persona. La relazione nel dialogo non può essere generica: ha bisogno di un “tu”, ma anche di un “io”, di una persona che, non avendo paura dell’altro, si lascia coinvolgere in questa esperienza che rende unico e contraddistingue l’essere umano dal resto del creato. Il libro della Genesi, al suo inizio, mostra come Adamo diventi pienamente uomo quando può entrare in dialogo con Eva, suo simile, e con Dio, il Creatore: l’uomo è costitutivamente un essere-in-dialogo. Il dialogo ci immette nel mistero della reciprocità e della prossimità. Così ciascuno, dialogando, mostra il proprio volto più autentico. Ci è chiesto un cammino ascetico personale. L’uomo infatti a dialogare impara. Impara cioè a comprendere l’altro. E per comprendere realmente è richiesta una disponibilità iniziale che ci fa lasciare alle spalle ogni egoismo ed ogni individualismo. Romano Guardini individuava l’inizio di ogni comprensione – e dunque del dialogo – nel riconoscimento e nel rispetto della libertà dell’altro, e dunque della sua dignità di persona. L’altro – scriveva – è da guardarsi “con l’occhio della libertà, la quale dice anzitutto: Sii quello che sei; e solo dopo: Ed ora vorrei sapere come sei e perché”. Per iniziare il dialogo occorre riconoscere la libertà dell’altro, consentirgli di essere se stesso, non ridurlo ad essere come lo vorremmo, su nostra misura, a nostra immagine e somiglianza. L’altro è invece da scoprire sempre nella sua unicità e irripetibilità, ad immagine e somiglianza di Dio, come afferma la fede cristiana.Il dialogo esige anche tempo, quel tempo che è sempre più scarso, pressati come siamo da mille cose e mille impegni. Ma concederci più tempo ci aiuterebbe a metterci di fronte a noi stessi, a fare chiarezza, a scorgere le nostre debolezze e ad assumerci le nostre responsabilità! Solo a queste condizioni il dialogo diventa possibile. Ovviamente ciò che vale per i singoli, vale anche, se pure con modalità differenti, per le diverse componenti sociali, per le diverse generazioni, per le parti politiche, per i popoli, i laici e i credenti, le diverse razze, nelle istituzioni, dentro la Chiesa…
(...)Conosciamo l’obiezione: dialogando, la nostra Città non corre il rischio di divenire un luogo senza identità precisa? No, personalmente sono convinto che il dialogo rafforza l’identità, la arricchisce, la rinnova, la proietta verso il futuro. La paura di indebolire o di perdere, nel dialogo, la nostra identità non è forse segno di un’identità già indebolita, se non addirittura estenuata? Siamo stati disposti ad un percorso debole nella storia occidentale, perché abbiamo ritenuto che questo ci permettesse di vivere meglio, più comodamente, senza problemi di confronto, consentendoci individualismo e separazione.
Adesso però la sfida, anzitutto culturale, portata alle nostre città dai popoli e dalle genti che domandano cittadinanza ci provoca a questo inevitabile confronto. E’ venuto il tempo, ed è questo, di rinnovare la disponibilità all’incontro e al dialogo, per scoprire e ricordarci “chi” veramente siamo.
Certo, ci vuole coraggio. Ma non mancano donne e uomini animati, anzi appassionati del dialogo autentico.
(...)Sto pensando (...) al rapporto con coloro che vengono da paesi lontani e all’impegno di tanti che, andando oltre la necessaria opera di assistenza, danno vita ad un approccio culturale nuovo: li considerano, cioè, non solo come individui o categoria, ma come persone, portatori di diritti e di doveri; in particolare, li considerano in possesso di un loro quadro di valori, di una visione del mondo, di uno stile di vita, in una parola di una “cultura”. In tal senso dialogare con gli immigrati significa entrare in contatto con la loro cultura, conoscerla, apprezzarla, valorizzarla perché essi, a loro volta, conoscano, apprezzino e valorizzino la nostra cultura. Così ci si augura di crescere insieme e di andare verso una nuova sintesi culturale (...) Sto pensando ancora ai passi compiuti e da compiersi nel dialogo tra le religioni, a cominciare dalla felice esperienza del Consiglio delle Chiese Cristiane, nato nella nostra città dieci anni fa e che è cresciuto fino ad abbracciare oggi 18 confessioni cristiane. Sto pensando, infine, ai fedeli dell’Islam. Spesso sentiamo dire che: “l’Islam disprezza le altre religioni ed i loro credenti, non ha il senso dello Stato tipico della tradizione occidentale, non accetta il principio della laicità, è fanatico, strumentalizza la fede per finalità distorte o criminose, non usa la ragione come mezzo nel confronto e nella discussione con i popoli, schiavizza le donne…”. Sì, ma intanto il dialogo, anzitutto culturale, va incominciato. Singoli gesti e atteggiamenti, per quanto gravi e da deprecare con forza, non siano occasione per guardare con sospetto ed accusare tutti gli appartenenti ad una religione. Si obietta che per un vero dialogo occorre una disponibilità reciproca. Ma è pur necessario che almeno uno inizi, cerchi l’incontro, stabilisca una relazione. Il tutto con pazienza, fiducia, onestà intellettuale, rispetto della libertà dell’altro, capacità di ascolto, e lasciando che il tempo faccia crescere quanto di buono è stato seminato. (...)Il frutto maturo del dialogo non è necessariamente la coincidenza delle idee. Il buon dialogo non è infatti mettersi l’uno di fronte all’altro e misurarsi per vedere chi ha ragione e chi ha torto; è piuttosto un mettersi l’uno accanto all’altro, dichiarandosi reciprocamente la volontà di guardare avanti, l’impegno di fare ciascuno la propria parte per il bene comune, la disponibilità anche a modificare il proprio punto di vista. Il dialogo domanda la coerenza del cammino fatto insieme, più che la stabilità della propria posizione. (...) Ricordo qui la prima enciclica di Paolo VI, Ecclesiam Suam, tutta incentrata sul tema del dialogo. In particolare, circa l’annuncio della verità, leggiamo: "Non si salva il mondo dal di fuori; occorre, come il Verbo di Dio che si è fatto uomo, immedesimarsi, in certa misura, nelle forme di vita di coloro a cui si vuole portare il messaggio di Cristo, occorre condividere, senza porre distanza…. Bisogna, ancor prima di parlare, ascoltare la voce, anzi il cuore dell'uomo; comprenderlo, e per quanto possibile rispettarlo e dove lo merita assecondarlo. (…) Il clima del dialogo è l'amicizia. Anzi il servizio. Tutto questo dovremo ricordare e studiarci di praticare secondo l'esempio e il precetto che Cristo ci lasciò". Come si vede, il dialogo per la Chiesa non è un semplice scambio di opinioni umane, perché nasce e muove dalla verità evangelica che il Signore Gesù le ha affidato perché sia annunciata con amore a tutti. Radicata in Cristo, sua pietra angolare, la Chiesa non teme di aprirsi al dialogo con tutti gli uomini e le donne: per essa il dialogo è grazia e responsabilità.(...) La politica merita attenzione e fiducia. Ma richiede partecipazione. Essa ha oggi bisogno di “un di più” di presenza. Se è compito della classe politica riavvicinare i cittadini, è compito anche dei cittadini non abbandonare il campo, riaprire una linea di credito alla politica, tornare al dialogo. É difficile, ma necessario. Questo ritrovato dialogo riaprirà anche un rapporto di maggior fiducia nelle e per le Istituzioni. La Città non esiste senza le sue Istituzioni. Il Paese intero non esisterebbe, non avrebbe identità e volto senza le sue Istituzioni. Ce lo hanno insegnato i padri costituenti.(...) Sono convinto che solo il dialogo costruisce e rende forte la Città, perché la sua convivenza sociale e civile poggia sulla relazione. E la trama di rapporti che animano la Città non può essere solo di tipo mercantile, ma deve diventare un evento in cui ogni interlocutore si mette in gioco con fiducia, si apre all’altro, lo ascolta, gli risponde senza pregiudizi, senza desiderio di asservirlo. É dalla qualità del dialogo che dipende il vero volto della Città, il suo essere aperta, accogliente, attenta ai suoi cittadini: ai piccoli, agli anziani, ai malati. (...) Prendo spunto, ancora una volta, da sant’Ambrogio: «Vuoi costruire una città come si conviene? É meglio il poco col timor di Dio che grandi tesori senza di esso. Le ricchezze dell’uomo devono giovare al riscatto della sua anima, non alla sua rovina. E il tesoro serve al riscatto, se uno ne fa buon uso…». Ambrogio ci parla di una città molto particolare, l’anima dell’uomo, ma la sua metafora prende spunto dalla città reale.

Abbiamo bisogno di luoghi di preghiera in tutti i quartieri della città. Ne hanno un bisogno ancora più urgente le persone che appartengono a religioni diverse da quella cristiana, in particolare l’Islam. Tettamanzi ha poi aggiunto altri spunti di riflessione: «Non tocca alla Chiesa trovare luoghi di culto per i musulmani, questo è un compito di cui si deve occupare l’amministrazione pubblica. Ma la libertà di religione e di preghiera sono diritti fondamentali dell’uomo, che vanno riconosciuti in un clima di convivenza civile».
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Lettera di Benedetto XVI a Marcello Pera


Caro Senatore Pera,
in questi giorni ho potuto leggere il Suo nuovo libro Perché dobbiamo dirci cristiani. Era per me una lettura affascinante. Con una conoscenza stupenda delle fonti e con una logica cogente Ella analizza l’essenza del liberalismo a partire dai suoi fondamenti, mostrando che all’essenza del liberalismo appartiene il suo radicamento nell’immagine cristiana di Dio: la sua relazione con Dio di cui l’uomo è immagine e da cui abbiamo ricevuto il dono della libertà. Con una logica inconfutabile Ella fa vedere che il liberalismo perde la sua base e distrugge se stesso se abbandona questo suo fondamento. Non meno impressionato sono stato dalla Sua analisi della libertà e dall’analisi della multiculturalità in cui Ella mostra la contraddittorietà interna di questo concetto e quindi la sua impossibilità politica e culturale. Di importanza fondamentale è la Sua analisi di ciò che possono essere l’Europa e una Costituzione europea in cui l’Europa non si trasformi in una realtà cosmopolita, ma trovi, a partire dal suo fondamento cristiano-liberale, la sua propria identità. Particolarmente significativa è per me anche la Sua analisi dei concetti di dialogo interreligioso e interculturale.
Ella spiega con grande chiarezza che un dialogo interreligioso nel senso stretto della parola non è possibile, mentre urge tanto più il dialogo interculturale che approfondisce le conseguenze culturali della decisione religiosa di fondo. Mentre su quest’ultima un vero dialogo non è possibile senza mettere fra parentesi la propria fede, occorre affrontare nel confronto pubblico le conseguenze culturali delle decisioni religiose di fondo. Qui il dialogo e una mutua correzione e un arricchimento vicendevole sono possibili e necessari. Del contributo circa il significato di tutto questo per la crisi contemporanea dell’etica trovo importante ciò che Ella dice sulla parabola dell’etica liberale. Ella mostra che il liberalismo, senza cessare di essere liberalismoma, al contrario, per essere fedele a se stesso, può collegarsi con una dottrina del bene, in particolare quella cristiana che gli è congenere, offrendo così veramente un contributo al superamento della crisi. Con la sua sobria razionalità, la sua ampia informazione filosofica e la forza della sua argomentazione, il presente libro è, a mio parere, di fondamentale importanza in quest’ora dell’Europa e del mondo. Spero che trovi larga accoglienza e aiuti a dare al dibattito politico, al di là dei problemi urgenti, quella profondità senza la quale non possiamo superare la sfida del nostro momento storico. Grato per la Sua opera Le auguro di cuore la benedizione di Dio.
Benedetto XVI

23 novembre 2008

Giovanni Sale, "Stati islamici e minoranze cristiane", Jaca Book, Milano 2008


(recensione di Michele Brignone, Centro Oasis, www.oasiscenter.eu.)
Già noto per i suoi lavori sulla Chiesa e sul cattolicesimo in età contemporanea, lo storico e gesuita Giovanni Sale prende in esame in questo volume la recente evoluzione degli stati islamici e la situazione delle minoranze cristiane. Lo fa a partire da una serie di casi studio (Impero ottomano e Turchia contemporanea, Egitto, Arabia Saudita, Iran, Pakistan, Afghanistan, Sudan, Africa Occidentale, Maghreb, Iraq, più un appendice sulla coabitazione nel Mediterraneo fra cristiani, musulmani ed ebrei), alcuni dei quali già precedentemente trattati e pubblicati nella rivista La Civiltà Cattolica e successivamente rivisti, ampliati e aggiornati. Dalla lista mancano alcune realtà tutt'altro che marginali, come la Palestina e il Libano, ma la loro assenza è giustificata dalla scelta dell'autore di non affrontare situazioni che «meriterebbero una trattazione a parte», e che «non rappresentano, almeno per il momento, modelli significativi di stato islamico».
Il filo rosso che attraversa e unisce la serie di saggi dedicati ai singoli stati è già tutta contenuta nel titolo del volume. Ogni contributo analizza infatti il processo, visibile in tutti gli stati musulmani, di radicalizzazione politico-religiosa e ne esamina le ricadute sulle minoranza cristiane. Certo, vista anche la sintesi imposta dai saggi che compongono il volume, l'autore non può entrare in maniera molto approfondita nel dibattito sulla politicizzazione dell'islam e si abbandona talvolta ad alcune affermazioni discutibili (per esempio considera il politico pakistano Ali Jinnah un musulmano moderato, giudizio forse corretto dal punto di vista culturale, ma non da quello religioso, visto che il personaggio in questione era agnostico se non ateo e stabilisce una troppo facile equazione tra islam sufi e militanza politica). Ma, nel complesso, il libro offre al lettore non specialista una buona chiave di lettura di un fenomeno che fa ormai parte delle cronache quotidiane.
Ne emerge un quadro piuttosto omogeneo a dispetto dei diversi contesti geografici, politici e sociali trattati. In quasi tutti i paesi presi in esame, infatti, alle garanzie formalmente presenti nei singoli ordinamenti giuridici non corrisponde una reale tutela delle minoranze religiose. Questo non solo perché l'avanzata del fondamentalismo islamico sta causando un progressivo peggioramento della condizione della vita della comunità cristiane presenti nel mondo islamico. Ma anche perché in molti paesi musulmani non è mai stata risolta la questione dello status giuridico delle minoranze non musulmane. In questa prospettiva si danno in generale due possibili situazioni. Da una parte vi sono i paesi che tradizionalmente non conoscono la presenza di minoranze cristiane e molto semplicemente considerano stranieri i fedeli cristiani. Dall'altra si trovano invece i paesi che facevano parte dell'Impero Ottomano e nei quali si registra una presenza storica di comunità cristiane. Sotto l'Impero, la vita di questa comunità era disciplinata dal regime dei millet, che, pur ponendole in una situazione di subordinazione giuridica rispetto ai musulmani, garantiva loro un'ampia autonomia. L'abolizione dei millet non si è tradotta in un miglioramento dello status delle minoranze, dal momento che l'equiparazione ottenuta con la nascita degli stati nazionali è rimasta un concetto puramente formale, lasciando aperta la questione di una effettiva co-cittadinanza.

I frutti malati delle radici cristiane (di Enzo Bianchi)


«Dai loro frutti li riconoscerete. Si raccoglie forse uva dalle spine, o fichi dai rovi?». A questa metafora contadina usata da Gesù mi capitava di tornare sovente nella recente stagione in cui appassionate discussioni ruotavano attorno all’inserimento o meno di un richiamo alle «radici cristiane» nella costituzione europea. Ero infatti perplesso di fronte a tanto zelo mostrato da paladini di recente arruolamento nelle file della cristianità, i quali però non apparivano altrettanto solerti nel cercare modalità per tradurre in comportamenti quotidiani, sia individuali che collettivi, la linfa che quelle radici avrebbero dovuto fornire all’albero della società civile europea.
Ora, che nel passato anche recente ci sia stata abbondanza di frutti, di segni visibili di una identità cristiana di tanti cittadini, associazioni e istituzioni italiane ed europee è un dato innegabile. Che si tratti di monumenti storici, di opere artistiche o di tesori letterari, di festività e calendari o di usi e consuetudini familiari, di orientamenti etici o di opzioni politiche, è tutto un patrimonio culturale che testimonia come il cristianesimo abbia saputo plasmare - anche nel confronto con la tradizione classica e, a volte in modo non sempre pacifico, con l’ebraismo, l’islam, la filosofia dei Lumi - il ricco e variegato mondo europeo nel quale oggi viviamo.
Secoli di presenza cristiana e di faticosa, sofferta dialettica con sistemi religiosi, istituzioni civili, pensieri filosofici, ideologie politiche diverse hanno sedimentato modi di pensare e di agire, sensibilità comuni, sentimenti condivisi. Ci sono addirittura figure di santi o brani evangelici che sono diventati paradigmatici anche per chi non condivide la fede cristiana: basterebbe pensare alle tante chiesette delle nostre campagne dedicate a san Martino - un santo «europeo» per le vicende della sua vita trascorsa tra Pannonia e Gallia - che dona il suo mantello a un mendicante. E chi non conosce la celebre scena del giudizio riportata dal Vangelo di Matteo, in cui viene chiesto conto a ciascuno di come si è comportato nei confronti di affamati e assetati, di stranieri, malati e carcerati, insomma degli ultimi identificati a Cristo stesso?
Il permanere di questo patrimonio di idee e di ideali che hanno saputo tradursi in azioni concrete e quotidiane, la solidità di queste «radici» che hanno alimentato piante rigogliose capaci di dare frutti mi paiono stridere tragicamente con sentimenti, ragionamenti, disposizioni amministrative o legislative che presentano un quadro palesemente in contrasto con un’identità cristiana proclamata verbalmente. Si assiste giorno dopo giorno a una progressiva criminalizzazione del diverso, dello straniero, del povero e del debole: impronte digitali prese a bambini di un’etnia minoritaria, classi speciali che ostacolano quell’integrazione che dicono di voler promuovere, schedatura di chi vive senza fissa dimora, allontanamento dei mendicanti dai luoghi dove la loro vista turberebbe chi non li degna nemmeno di uno sguardo, ronde private non necessariamente disarmate, introduzione del reato di «presenza» in Italia, messa in discussione della gratuità e universalità delle cure di pronto soccorso... Purtroppo l’elenco si allunga ogni giorno, e ogni nuova proposta discriminatoria suscita isolate reazioni, in particolare dal Pontificio Consiglio Iustitias et Pax, subito bollate di «buonismo» e viene poi digerita e assimilata, in attesa di un boccone ancor più amaro da trangugiare.
E intanto, grazie a questo clima, le cui dominanti non sono certo cristiane, un senzatetto viene arso vivo sulla panchina su cui dormiva, un nero viene picchiato e oltraggiato, un mendicante viene assalito e percosso, dei nomadi vengono inseguiti e cacciati... E l’odio, questo nefasto sentimento che sta accovacciato nel cuore dell’uomo e che un tempo assumeva connotazioni di classe focalizzandosi contro i ricchi, i potenti, gli oppressori, ora è rivolto verso quelli che sono semplicemente «altri» e che non si vogliono più vedere accanto a noi.
Ora, nessuno chiede che uno stato moderno trasponga le esigenze del vangelo in articoli di legge o in commi del codice civile, ma resta l’interrogativo di quali principi ispirino i comportamenti non solo dei singoli, ma delle istituzioni e dei corpi sociali. Quali valori troviamo oggi nel vissuto concreto e nella progettualità politica che possano essere ascritti alle «radici cristiane» di cui a ragione riteniamo di poterci gloriare? Quali frutti ha dato l’albero che per secoli abbiamo visto crescere e ramificare nutrito da quelle radici?
È miope la visione di chi crede di risolvere i problemi dandogli il nome di reato, è falsante l’opzione che trasforma il diverso in criminale, è distorta e controproducente l’identificazione dell’immigrato con l’invasore, del povero con il disturbatore della quiete, dell’emarginato con il sovversivo. No, abbiamo bisogno di un soprassalto di dignità umana prima ancora che cristiana, abbiamo urgente necessità di ritrovare in noi e attorno a noi il rispetto per la dignità di ogni essere umano, abbiamo un’esigenza vitale di riscoprire come il bisognoso è uno stimolo e non un intralcio a una società più giusta. Se continuiamo a confondere la sicurezza con l’esclusione di ogni diversità, se continuiamo a nutrire le nostre paure invece che ad affrontarle, se crediamo di poter uscire dalle difficoltà non assieme ma contro gli altri, in particolare i più deboli, ci prepariamo un futuro di cupa barbarie, ci incamminiamo in un vicolo cieco in cui l’uomo sarà sempre più lupo all’uomo.
Forse sta diventando tragicamente vera anche per noi la situazione icasticamente descritta dal famoso detto della sapienza indiana che sembra modellato sugli apoftegmi dei monaci del deserto: due lupi stanno lottando dentro ciascuno di noi e nella nostra società contemporanea, uno pieno di rabbia e rancore, di risentimento nei confronti del diverso, l’altro animato da compassione e amore intelligente. Anche questa volta preverrà il lupo che avremo saputo nutrire meglio nel nostro quotidiano.

Barack Obama and the Catholic Church (di Pasquale Ferrara)

Two guidelines could describe today the very core of Pope Benedict XVI mandate: on the one side, the strong assertion of the Catholic Church as the essential point of reference in terms of culture and values in modern societies; on the other side, the perception of a increasingly difficult situation of the Catholics as “strangers” or “minorities” both in Western countries and in other places, like Middle East or Asia.
Since the beginning of its mandate, Pope Benedict XVI has tried to reverse or contain what he considers the widespread “relativism” in countries where Christian faith traditionally used to have strong roots. He uses to refer to the perceived moral laxity of modern Western culture in terms of “dictatorship of relativism”. In fields like moral values and individual choices, Pope Benedict XVI advocates the principles of sanctity of life and the need for a more responsible personal conduct. He doesn’t refuse a rational debate with contemporary science and philosophy, but he strongly supports a comprehensive vision of the world where faith and reason can go hand in hand, and where “natural “ rights and values have to be considered as the secular outcome of Faith and should be regarded as universal and valuable for everybody and for every culture.
One focal point of this vision is the wide and complex field of the new frontiers of life, bioethics and individual lifestyles. For Benedict XVI, at the center of what he considers a “disorder” in this field is the emphasis put by contemporary civilization on individualism, consumerism and research for individual satisfaction. Dramatic dilemmas like abortion or the final phases of human existence, research on human genome and stem cells are dealt with in the overarching framework of the non-negotiability of life as absolute value, considered as a gift of God. Consequently, life should not be subject to any manipulation, especially in the field of reproduction and sexual behavior, and in the cases of vegetative survival due to serious diseases.
But Pope Benedict XVI has also a strong perspective in social ethics. In a speech to the United Nations, he touched upon several items of international import: “questions of security, the development goals, the reduction of inequalities, and the protection of the environment, of resources and of the climate.” This constitutes a pretty good list of distinctive social justice concerns for the new millennium. He also expressed special concern for “the most fragile regions of the planet, especially those countries in Africa and on other continents which are still excluded from authentic integral development and therefore at risk of experiencing only the negative effects of globalization.” Moreover, the Pope placed front and center “the principle of the responsibility to protect,” referring to the obligations of states to protect both their own domestic populations as well as other members of the international community, from “grave and sustained violations of human rights, as well as from the consequences of humanitarian crises, whether natural or man-made.” The Pope also put emphasis on collective security actions, making a case for more international cooperation, and on the need of managing international conflicts “by exploring every possible diplomatic avenue”, underlines his preference for reconciliation through dialogue rather than trying to solve international crisis through the precipitous use of force.

Finally, Benedict XVI acknowledges the need to balance individual human rights and concern for the life of the community. This reminder of the theme of solidarity is a “master concept” of the Catholic Church teachings on social relations. It should be acknowledged that in those cultures (such as in the USA) where crass individualism is a deep temptation, the Catholic community often constitutes a strong voice for communitarianism and high regard for the poor and vulnerable.
Pope Benedict XVI, addressing the United Nations, also stressed the important of religious freedom, not to be regarded only as an individual right. “The full guarantee of religious liberty cannot be limited to free exercise of worship, but has to give due consideration to the public dimension of religion.” For Pope Benedict XVI one face of the right to religious freedom is keeping open at least the “possibility of believers playing their part in building the social order”. In his very first encyclical, Deus Caritas Est (2006), Benedict had already insisted that “the Church not remain on the sidelines in the struggle for social justice”.
Starting from this analysis, it is possible to draw some conclusions and outline a strategy of relations with the Catholic Church.
From the political point of view, it should be stressed that the moral and social thought of today’s Catholicism, as a whole, cannot be “kidnapped” neither by the political right nor by the left. Both Republicans and Democrats can point out to elements of agreement with the Church’s stances on individual morality (Republicans) or social ethics (Democrats). For instance, while in topics as abortion or research on stem cells the political right can appear closer to the Catholicism, on other subjects, like peace, environment, international solidarity, the left is much more in agreement with the tradition of the Catholic social teaching.
This means that there is no Republican or Democratic monopoly in terms of “alliance” with the Catholic Church in the efforts to bring about a better world.
Moreover, the dramatic changes that are taking place on the global scenario make also the social agenda a matter of life and death, no more no less that the topics related to life as a moral issue. Global warming, food crisis, prospects of economic recession, proliferation of weapons of mass destruction are putting at risk the life of millions of people on the planet. On all this topics, the political agenda of the President elect appears in better shape than any Republican stance of the past. As a matter of fact, the President elect plans to double the annual investments in foreign aid to $50 billion by 2012 and to capitalize a $2 billion Global Education Fund in order to eliminate the global education deficit. These are significant efforts to pursue a global agenda for life and human dignity.
The President elect will also be instrumental to free religion from unfortunate embrace with policies aimed at confrontation with other cultures, war or “forcibly imposed regime change”. Respect and dialogue are deeply needed especially in regions like Middle East. It is ironic to stress that today in Iraq Catholics find themselves in a much worse shape today that in 2002. The President elect, instead of “lectures on democracy” will try to empower forces of moderation, “exporting opportunities”, like access to education and health care, trade and investment. All these actions will contribute to a climate of reciprocal recognition and tolerance. At the core of every religion lies the call for universal brotherhood. This is the starting point to build a new alliance of civilizations.

L’America e Benedetto XVI (di Pasquale Ferrara)

Le congratulazioni che il Presidente Bush aveva indirizzato a Sua Santita’ Benedetto XVI in occasione dell’elezione al Soglio Pontificio («un uomo di grande sapienza e cultura»), pur nella loro protocollare laconicita’, vanno lette nel solco di quell’azione di rilancio e consolidamento della «nuova alleanza» con la Chiesa cattolica dopo i dissapori scaturiti, in anni recenti, prima dallo scandalo degli abusi sessuali ai danni di minori da parte di esponenti del clero negli Stati Uniti, poi dall’opposizione del Papa Giovanni Paolo II all’intervento militare in Iraq. Una strategia culminata nella scelta dello stesso Presidente di partecipare ai solenni funerali di Giovanni Paolo II, significativo gesto di «riconciliazione» accompagnato dal «rincrescimento» di non aver avuto l’opportunita’ – nelle parole del Presidente – di “spiegare” a Giovanni Paolo II le “ragioni” di una “guerra giusta”. La scelta del Cardinale Ratzinger come successore di Giovanni Paolo II sembrava essere stata contemplata nelle valutazioni dell’Amministrazione Bush, come si e’ appreso da un discorso dell’ex-Ambasciatore presso la Santa Sede, Jim Nicholson, poi a capo del Dicastero per i reduci di guerra. Nicholson avrebbe “profetizzato” l’investitura di Ratzinger alla delegazione americana presente ai funerali di Giovanni Paolo II.

La marcia di riavvicinamento era in realta’ gia’ stata accelerata nei primi concitati mesi della crisi irachena nel 2003, su due fronti: da un lato, la “diplomazia pubblica” di teologici neo-conservatori come Michael Novak (American Enterprise Institute) e George Wiegel per illustrare nei cenacoli universitari cattolici romani un’interpretazione «aggiornata» della tradizionale teoria della guerra giusta; dall’altro, la valorizzazione di piste analitiche provenienti da autorevoli settori del Vaticano tese ad adattare alla situazione dei cattolici americani – specie di quelli chiamati a combattere in Iraq - la ferma presa di posizione di Giovanni Paolo II contraria all’intervento militare. In tale contesto, non erano mancati pronunciamenti forti, ad esempio contro il Cardinale Martino, Presidente del Pontificio Consiglio “Iustitia et Pax”, accusato in particolare da Novak di sostenere pregiudiziali posizioni «antiamericane». E’ estranea alla mentalita’ degli intellettuali cattolici che sono stati vicini all’Amministrazione Bush anche solo l’idea di una «Chiesa patriottica» americana analoga alla «Chiesa nazionalista» cinese; ben piu’ radicalmente, il loro intento e’ stato piuttosto quello di esercitare una forte influenza al centro, nei luoghi stessi della determinazione dei temi dottrinali.

La «svolta» nelle posizioni della maggioranza dei cattolici americani (storicamente elettori del partito democratico) avveniva in concomitanza con la campagna per le elezioni presidenziali del 2004, quando una nota dell’allora cardinale Ratzinger al Cardinale Theodore McCarrick di Washington poneva la questione di un eventuale “diniego” di somministrare la Comunione ai politici cattolici favorevoli all’aborto e/o all’eutanasia. Al di la’ della rilevanza pratica della questione per i cattolici americani (la Conferenza episcopale aveva poi demandato la decisione ai singoli Vescovi) e’ indubbio che essa assunse una chiara valenza politica anche per la piu’ ampia galassia dell’elettorato cristiano (ed in particolare evangelico). Su questi temi, comunque, la piattaforma elettorale di Bush – votato nel 2004 dal 56% dei cattolici - era assai piu’ vicina alle posizioni vaticane di quanto non lo fosse quella del cattolico Kerry, convinto che non si debba imporre per legge “un articolo di fede” (un atteggiamento che, in un altro documento firmato dal Cardinale Ratzinger nel 2002, la “Nota dottrinale circa alcune questioni riguardanti l’impegno e il comportamento dei cattolici nella vita politica”, e’ definito in termini di condiscendenza verso il «pluralismo etico»). Nella lettera indirizzata al Cardinale McCarrick si affermava esplicitamente che «non tutte le questioni morali hanno lo stesso peso morale dell´aborto e dell´eutanasia. Per esempio, se un cattolico fosse in disaccordo col Santo Padre sull´applicazione della pena capitale o sulla decisione di fare una guerra, egli non sarebbe da considerarsi, per questa ragione, indegno di presentarsi a ricevere la Santa Comunione».

La prudenza dell’Episcopato statunitense (salvo qualificate eccezioni) su questo argomento dimostra una certa costitutiva refrattarieta’ della professione religiosa in America (generalmente “anti-concordataria”, anche sulla base del I emendamento alla Costituzione) sia ad un eccessivo “centralismo” sia ad interventi sovraccarichi di motivazioni religiose da parte delle istituzioni politiche nelle questioni etiche e sociali. In occasione della campagna elettorale del 2004, nonostante le numerose “guide” messe in circolazione da “catoni” non certo politicamente neutrali, per orientare il voto cattolico centrate quasi esclusivamente sul tema della “vita” (inteso riduttivamente come aborto, eutanasia, ricerca sulle cellule staminali, clonazione, matrimonio omosessuale), la Conferenza Episcopale americana adotto’ un autorevole, articolato ed equilibrato documento, denominato “Faithful Citinzenship: A Catholic Call to Political Responsibility” nel quale si additava senz’altro, tra i criteri di scelta dei canditati, l’impegno per la protezione della vita, ma si includeva in esso la necessita’ di evitare la guerra e si sollevavano seri dubbi etici sulla questione della guerra preventiva, sulle armi nucleari, sulle mine anti-persona, sul commercio di armamenti e sulla pena di morte. Inoltre, a riprova di una concezione della religione come visione del mondo da professare nel foro interno e nella sfera pubblica, ma non necessariamente in quella politica, si considerino le reazioni maggioritariamente negative dell’opinione pubblica americana all’intervento del Congresso nella recente drammatica vicenda di Terri Schiavo, alle quali hanno peraltro contribuito anche radicate convinzioni sull’opportunita’ di evitare l’ingerenza delle autorita’ federali su temi “statali” e la concezione di preservare una rigida separazione di sfere di competenza tra i poteri esecutivo, legislativo e giudiziario. Inoltre, nel contesto americano, generalmente assai tollerante nei confronti delle pratiche religiose, considerate in un’ottica di sostanziale «parita’» (“One nation, under God” – secondo il “Pledge of Allegiance” o giuramento alla bandiera recitato quotidianamente da tutti gli alunni di tutte le scuole pubbliche di ogni ordine e grado in tutto il territorio americano), furono viste con qualche perplessita’ (anche nel vivace mondo accademico cattolico) le affermazioni sull’esclusivita’ della verita’ religiosa e dell’unicita’ della Chiesa contenute nella Dichiarazione “Dominus Iesus” scritta dal Cardinale Ratzinger nel 2000.

Fin qui la storia recente. Difficile valutare l’impatto che il Pontificato di Sua Santita’ Benedetto XVI ha sinora avuto non solo sull’evoluzione dei rapporti tra gli Stati Uniti e la Santa Sede, ma anche sulle posizioni dei cattolici americani in materia etica, sociale e politica. Sul primo punto, il gia’ menzionato Nicholson – facendo un esplicito ed azzardato riferimento alla “National Security Strategy” del 2002, o “dottrina Bush” - prospettava una convergenza tra la Santa Sede e l’Amministrazione sulla finalita’ principale verso la quale sarebbe asseritamente indirizzato l’esercizio della supremazia americana, e cioe’ la difesa e la promozione della dignita’ umana. Il «globalismo democratico» sarebbe cosi’ fondato – anche se Jacques Maritain non approverebbe la citazione in questo contesto – su un «umanesimo integrale». Nella stessa direzione puo’ essere letto lo scarno commento del portavoce del Dipartimento di Stato all’elezione del nuovo Pontefice, che sottolineava le relazioni bilaterali gia’ «eccellenti» e le prospettive di una collaborazione nel promuovere nel mondo il valore della dignita’ umana. Su un piano assai meno sobrio, anzi decisamente polemico e tutto sommato «casalingo», si collocano le prese di posizione (piuttosto marginali) delle associazioni delle famiglie dei minori vittime degli abusi sessuali compiuti dal clero in varie diocesi americane sull’atteggiamento tenuto dall’allora Cardinale Ratzinger (ritenuto non abbastanza incisivo e tendenzialmente “apologetico” rispetto alle responsabilita’ accertate).

Quanto al contesto interno americano, e’ interessante riferirsi alle opinioni degli intellettuali piu’ accreditati in virtu’ della loro conoscenza del mondo cattolico americano e per le loro «entrature» vaticane. Si tratta, significativamente, in maggioranza di commentatori appartenenti al cattolicesimo conservatore e neo-conservatore, desiderosi di marcare una presunta «contiguita’ culturale» con il nuovo Pontefice. George Weigel ha salutato l’elezione di Benedetto XVI come la scelta di un nuovo San Benedetto, in grado di rivitalizzare il “freddo e triste” clima culturale europeo ed occidentale, paragonato ad un “nuovo medioevo” (con riferimento alle pratiche eugenetiche immaginate da Aldous Huxley in “Brave New World”). Per Weigel, che simbolicamente contrappone la cultura laicista del «popolo del Cubo» (la “Grande Arche de la Défense” a Parigi, sorta di cattedrale «laica» ai diritti umani) a quella teologale del «popolo della cattedrale» (Notre Dame), la crisi della sfera pubblica in Europa sarebbe da addebitarsi alla secolarizzazione, che avrebbe reso l’Europa stessa un continente «post-cristiano». Weigel vede in questo sviluppo, nel lungo periodo, l’anticipazione di un possibile analogo esito per l’America. Ad un’Europa nella quale regnerebbe la «Cristofobia» Papa Ratzinger intenderebbe contrapporre, per Weigel, la «Cristocentralita’». Per il momento, sono gli Europei ad apparire un «popolo del Cubo» mentre gli Americani rimangono un «popolo della Cattedrale». Rimane tuttavia da verificare, anche tra i cattolici americani (specie tra i “Cafeteria Catholics”, i cattolici della domenica) se i temi piu’ ardui dell’etica sessuale (metodi contraccettivi e AIDS) e della bioetica (ricerca sulle cellule staminali) e dell’assetto del clero (possibilita’ del matrimonio per sacerdoti e suore, ipotesi di sacerdozio femminile) i fermi insegnamenti della dottrina cattolica possano trovare maggiore ascolto di quanto, nei fatti, non ne abbiano avuto sinora. In questo senso - secondo Philip Lawler, direttore del giornale telematico “Catholic World News” e gia’ membro della «Heritage Foundation», “think tank” conservatore – i cattolici «progressisti» dovrebbero prendere atto che «il Papa e’ cattolico», cioe’ strenuo difensore dei valori che la Chiesa considera fondamentali. Altra cosa e’ asserire – come si avventura a fare Lawler e come vorrebbero gli ambienti cattolici conservatori “militanti” - che il Papa abbia ingaggiato un vero e proprio «scontro ideologico» con il pensiero moderno (specie se laico e progressista): uno scontro nella civilta’ (occidentale) prima ancora di uno scontro tra le civilta’.

Da parte sua Michael Novak, nel dirsi convinto che il Santo Padre portera’ a compimento una riforma anche piu’ «radicale» della Chiesa rispetto a quella operata da Giovanni Paolo II (molto impegnato nella proiezione universale del messaggio cristiano), fondata piu’ sulla spiritualita’ che sulla revisione delle strutture, invita a uscire dallo stereotipo del «Prefetto della Congregazione per la Dottrina della Fede» divenuto Papa, sottolineando la discontinuita’ tra i due ruoli e le due fasi di Ratzinger. Novak ricorda, al riguardo, che il Cardinale Ratzinger ha coltivato una seria ed articolata dottrina della liberta’ matura e «disciplinata» (lontana dal soggettivismo) nel solco della tradizione del pensiero di Tocqueville, Madison, Lord Acton. Inoltre, mentre Giovanni Paolo II avrebbe concentrato la sua attenzione sulla degenerazione della politica e sul flagello degli autoritarismi e collettivismi, Benedetto XVI – nella lettura di Novak – considererebbe invece la cultura moderna come terreno privilegiato della sua missione. Quest’opinione e’ stata condivisa – ma in un’accezione decisamente piu’ “polemica” - anche dallo stesso Weigel, che sostiene che il nuovo Pontefice sarebbe persuaso che la grande battaglia in corso nel mondo sia soprattutto una battaglia di idee e per le idee.

Quanto allo scenario internazionale, un tema complesso, visto dall’America, riguarda il modo in cui il santo Padre sta interpretando l’universalita’ della Chiesa. Gli accenti posti da diversi commentatori sul suo supposto “eurocentrismo” (sia in termini di provenienza culturale che in quelli di propositi missionari per una ri-evangelizzazione del Vecchio Continente, come sembrerebbe programmaticamente indicare – secondo alcuni commentatori americani - il nome prescelto, piu’ legato alla riforma benedettina che al Pontificato di Benedetto XV) rivelano tra le righe una certa curiosita’ intellettuale per la posizione che l’America assume nella nuova «mappa» della Chiesa cattolica. Inoltre si richiamano le posizioni del Cardinale Ratzinger (per la verita’ espresse a titolo personale) sostanzialmente contrarie all’ingresso della Turchia nell’Unione Europea (invece fortemente incoraggiato da Washington). Il contesto e’ tuttavia radicalmente mutato dopo la straordinaria visita di Papa Benedetto XVI proprio in Turchia. E’ comunque un tema, questo, che ripropone il piu’ ampio problema del rapporto con il mondo islamico, divenuto di importanza strategica per gli Stati Uniti e per tutto il mondo occidentale dopo l’11 settembre, sia in termini di «Global War on Terrorism» che con riferimento al lancio dell’iniziativa (sostanzialmente fallimentare) per la democratizzazione dei Paesi del Medio Oriente e del Nord Africa.

In sintesi, gran parte degli intellettuali americani che si sono esposti con commenti sul Pontificato di Papa Benedetto XVI hanno supposto di essere in grado di prospettare la direzione di marcia del suo Pontificato sulla base del percorso intellettuale e teologico del Cardinale Ratzinger. Molti di essi pensavano – e forse tuttora lo pensano - che le fattezze del Pontificato di Papa Benedetto XVI sarebbe state funzionali alle immediate, riduttive e strumentali priorita’ americane.