Il "duplice viaggio" di Francesco

Ci sono eventi che, per la loro densità, sono destinati a produrre i loro effetti sul medio e lungo termine. Ci sono gesti che, per la loro intensità, continuano a produrre e riprodurre senza posa il loro significato simbolico. È presto per sapere se la visita di Papa Francesco in Terra Santa (24-26 Maggio 2014)  e il successivo incontro tra Abu Mazen e Shimon Peres in Vaticano (8 Giugno 2014) si iscrivano nella categoria dei cosiddetti "game changer", degli snodi della storia che segnano una discontinuità sul piano politico-diplomatico. È certo però che il primo impegno realmente internazionale (e non solo pastorale) di Papa Francesco è dello stesso spessore, ad esempio, della preghiera universale di Assisi per la pace, convocata da Giovanni Paolo II nel 1986. La prospettiva profetica e la prospettiva simbolica non sono affatto estranee alla politica, al contrario. È proprio quella che gli analisti politici chiamano la "vision", la visione, cioè il disegno complessivo che permette di comprendere anche il presente per poterlo trasformare, unitamente alle componenti evocative (e non semplicemente emotive) dell'agire politico a rappresentare la miscela per innescare il cambiamento e demolire paradigmi rocciosi, come quello della prevalenza (illusoria e instabile nel tempo) delle soluzioni di forza su quelle negoziate, del dominio della paura sulla fiducia. Immettere nel circuito politico internazionale una narrazione radicalmente diversa, e cioè che i conflitti, anche quelli più intrattabili, sono in fondo fenomeni umani e sociali e in quanto tali risolvibili, non significa rifugiarsi nella prospettiva dell’utopia; al contrario, implica un esercizio di realismo che paradossalmente la realpolitik, prigioniera com’è del mito della violenza, non riesce a compiere.  Tutto questo ha evidenziato il viaggio mediorientale-vaticano di Francesco, al di là delle esaltazioni idealistiche o metafisiche, da una parte, o delle stroncature, pur benevole, degli “specialisti”, cultori della strategia e della geopolitica.  Le interpretazioni di quello che potremmo definire nei termini di un “duplice viaggio”, considerando in modo unitario e inscindibile sia quello di Francesco in Terra Santa come pellegrino che quello dei suoi illustri ospiti alla Santa Sede, oscillano tra dimensione essenzialmente politica e quella esclusivamente religiosa, come se fosse davvero possibile, in un mondo in cui le identità si compongono di appartenenze multiple, territoriali, politiche, spirituali, culturali, distinguere in modo netto o anche solo approssimato i due ambiti. D’altra parte, il conflitto israelo-palestinese non ha mai assunto in modo caratterizzante – se non a tratti e in alcuni segmenti delle rispettive società - la dimensione dello scontro religioso, trattandosi piuttosto di ripartizione o condivisione di territori. Al tempo stesso, la stessa natura dei luoghi contesi, per il loro significato esplicito, ancestrale e identitario, rimette continuamente il gioco la questione religiosa, che rimanda ai fondamenti di antiche civiltà mediterranee, che hanno però definitivamente proiettato il loro orizzonte di senso su scala universale, ben oltre i confini politici, etnici, linguistici di un minuscolo lembo del Vicino Oriente. Dinanzi a tale complessità di rimandi e di implicazioni, Francesco ha scelto la strada più diretta, più semplice (anche se tutt’altro che semplicistica): ritrovarsi assieme, attorno a questo misterioso groviglio storico-politico e al contempo spiritualmente fondativo, per un’anamnesi possibilmente condivisa, nella consapevolezza, tuttavia, che ciò non possa giustificare alcuna amnesia.
Il momento storico in cui si colloca questo gesto inclusivo, senza pretese di essere conclusivo, è quello che nella migliore delle ipotesi si potrebbe definire come stallo diplomatico, e nella peggiore come conservazione (armata) dello status quo. Sembra estremamente difficile che le parti – Israeliani e Palestinesi – possano trovare una soluzione concordata sulla base delle varie formule sinora escogitate, a cominciare da quella “due popoli, due stati”, che dovrebbe affrontare la questione, grande come un macigno, dei confini realistici di un nuovo Stato palestinese indipendente, fornendo al contempo solide garanzie di sicurezza ad Israele. L’esaurirsi, ormai prossimo, delle ipotesi ancora praticabili richiede un profondo mutamento di prospettiva, e di immaginare soluzioni forse originali e inesplorate, a cominciare da quel vero e proprio intricato reticolo di micro-governance civile, religiosa, securitaria e comunitaria e di fratture e ricomposizioni intersecantesi e sovrapposte che è Gerusalemme. La profezia, spesso ripetuta dal Cardinale Martini, che la pace a Gerusalemme condurrà alla pace su tutta la terra ha un risvolto forse di minore portata, ma non meno rilevante, e che cioè una riconfigurazione degli spazi vitali e sociali di Gerusalemme appare una pre-condizione o comunque un elemento imprescindibile della soluzione complessiva del conflitto israelo-palestinese e in cui la comune radice delle religioni del Libro ha senza dubbio ancora molto da offrire.
Inoltre, il panorama complessivo del Medio Oriente e del Nordafrica è cambiato radicalmente in pochi anni, e in particolare a partire dal 2011 con le transizioni politiche nel mondo arabo-islamico (tutt’altro che concluse, e con preoccupanti segnali di involuzione, tranne forse per la Tunisia), con il virtuale disfacimento di un attore importante come la Siria, la contrapposizione faziosa in Libia, il sorgere di una entità pseudo-statale e dagli inquietanti tratti neo-imperiali come l’ISIS e la sua ossessione antistorica del Califfato. Mentre i confini tra Israele e (futuro) stato palestinese non sono stati ancora definiti, e quelli derivanti dalla guerra arabo-israeliana del 1967 profondamente contestati, sono di fatto messi in discussione per la prima volta altri confini esistenti, tracciati frettolosamente già alla fine della prima guerra mondiale con l’accordo Sykes-Picot del 1916 tra Gran Bretagna e Francia che sancirono divisioni arbitrarie, di matrice coloniale, in Medio Oriente e la successiva nascita di numerosi stati indipendenti dopo il secondo conflitto mondiale. A ciò si aggiunga la mobilitazione degli attori regionali nel conflitto siriano, con l’interventismo indiretto, di opposta matrice, degli stati del Golfo (in particolare i due “giganti” dell’Arabia Saudita e dell’Iran).
In questo ribollire di tensioni antiche e nuove, il “segno” di Francesco, così compiutamente, pazientemente e saggiamente ricostruito, descritto e contestualizzato in questo scritto di Paolo Loriga, appare molto più che un messaggio di speranza; è piuttosto un appello “proattivo”, un’irruzione, ma in punta di piedi, una voce orante e ragionante dal deserto più che una voce che grida nel deserto, e che interpreta il disagio profondo dell’umanità periferica proprio nel cuore di un conflitto così centrale e così lacerante come quello mediorientale.

Sicurezza, democrazia, partecipazione. Intervista a Pasquale Ferrara

(di Aldo Liga - 5.7.2012)
Pasquale Ferrara, diplomatico di carriera e professore universitario, dirige dal luglio del 2011 lo European University Institute di Fiesole. Il nostro incontro prende spunto dalla lettura del libro “Lo stato preventivo. Democrazia securitaria e sicurezza democratica” (Rubbettino, 2010). In questo testo Ferrara si concentra sull’analisi della reazione delle democrazie alle minacce esterne. Ad essere indagata è la relazione fra libertà e sicurezza, fra democrazia e terrore. Fondamentale per la nascita del volume l’esperienza del Segretario a Washington come Primo Consigliere nel settore politico presso l’Ambasciata d’Italia.
Nel descrivere la relazione fra civiltà e barbarie all’indomani dell’11 settembre Lei utilizza l’interessante immagine di San Giorgio che combatte il drago: “la giostra agonale assume ritmi sempre più incalzanti ed incontrollabili, tanto che il profilo del santo e del drago si mostrano sfuggenti e difficilmente distinguibili, fino al paradosso di divenire addirittura intercambiabili”.
È una riflessione basata sugli archetipi della civiltà occidentale, il bene contro il male. Non è solo una figura mitologica, ma ha anche una certa attualità politica, penso a Reagan, che definiva l’URSS “impero del male”, o a George W. Bush, che ha parlato di “asse del male”. Il libro si riferisce alla cosidetta “Global War on Terror”, che, definendo distintamente San Giorgio e il drago, trasmetteva l’illusione che si potesse derivarne una polarità. Oggi al contrario le figure non so no più così distinte. La perdita di credibilità dell’Occidente nella lotta al terrorismo avviene nel momento stesso in cui esso nega i suoi valori fondamentali. Tale operazione, veicolata anche dal mito della paura globale, panica, in un mondo in cui non si comprendono da dove provengono le minacce ha avuto una forte premialità politica. Il libro nasce dall’esperienza presso l’Ambasciata italiana a Washington, fra il 2002 e il 2006. Durante questa esperienza ho avuto modo di vivere sul campo la rielezione di Bush proprio intorno al tema della difesa dell’America. In quel caso il termine “terror” non era riferito soltanto al terrorismo ma anche alla globalizzazione, alla migrazione… Una sorta di passepartout che veicolava significati diversi. Oggi la situazione è molto cambiata, mi trovo concorde con Ulrich Beck quando parla di “società globale del rischio”: tutti i rischi vengono declinati dal potere secondo le convenienze del momento. L’insicurezza globale viene “sequestrata” dal potere per scopi puramente strumentali. La partecipazione politica oggi si gioca sulla capacità di riuscire a distinguere le caratteristiche funzionali del potere dal tema dell’insicurezza globale. La politica non può dare sicurezza, è anzi il principale fattore di insicurezza. Oggi lo stesso stato westfaliano è fonte di insicurezza, la sua permanenza crea insicurezza: oggi in Europa, ad esempio, gli investitori non credono più nello stato nazionale.
In particolare Lei parla di “deinocrazia”, governo del terrificante, condizione di precarietà assoluta, di pericolo permanente, di minaccia persistente ed incombente. Molti regimi occidentali si sono quindi progressivamente trasformati in “democrazie securitarie”.
Il terrore ha assunto il ruolo di formula politica per ridurre la complessità, per ricondurre le società ad un modello standard. Ha assunto la funzione di programma politico, di normalizzatore. Il “terrificante” è un fenomeno diverso. La nozione stessa di insicurezza indistinta è stata incorporata negli assetti del potere, è l’azione stessa che è improntata sul terrore che rimane sullo sfondo, non è palese, si intravede in controluce. Al contempo, è come se lo Stato, in antitesi rispetto al pensiero di Hobbes, fosse divenuto una sorta di “agenzia delle assicurazioni” da cui devono arrivare tutte le certezze che la società civile vuole. Viene delegata al potere la prospettiva del futuro. Questo è un problema che più che i sistemi politici in sé riguarda le società stesse che hanno abdicato e appaltato allo stato le proprie prerogative. Con i regimi di welfare si è parlato di overload di domande nei confronti degli stati. Ora si è giunti a richieste di sicurezza esistenziale. I governi non riescono a tenere il passo: l’antipolitica nasce anche da questa disillusione. Va pertanto ripensato il rapporto fra società e politica.
Un’esperienza di società minacciata dal suo stesso governo è quella da Lei vissuta personalmente in Cile, durante la fase di transizione dei primi anni ’90.
Tramite l’impiego di strumenti tecnologici lo stato era effettivamente il principale elemento di insicurezza. Nei regimi dittatoriali sudamericani esistevano meccanismi di difesa preventiva messi in atto allo scopo di esercitare un potere pervasivo. Nel Cile di Pinochet vennero adottati decreti-legge segreti e leggi segrete, trascritte in una sorta di gazzetta ufficiale, anch’essa segreta. Queste leggi nascondevano che il regime si appropriava di grosse fette del reddito per finanziare la repressione interna.
Per circa un decennio il terrorismo è stato percepito dalla maggioranza degli europei come un rischio presente, reale, imminente. Oggi sembra che il tema sia passato in secondo piano, o almeno sia stato ridimensionato. In che modo viene percepito oggi il terrorismo?
La “Global War on Terror” è un triste capitolo della sudditanza dell’Europa agli Stati Uniti. Per circa un decennio alla lotta contro il terrorismo è stato dato un posto centrale e fondamentale in quasi tutti i vertici internazionali, anche quando le delegazioni statunitensi non erano presenti. Ma il terrorismo era “il” problema  fondamentale dell’umanità? E le malattie endemiche? Il cambiamento climatico? La sicurezza alimentare? Ora la situazione sembra mutata, anche perché l’amministrazione Obama si è focalizzata su tematiche interne: un ripiegamento sostanzialmente giustificato dall’insostenibilità di gestire in termini securitari l’assetto globale. Con Obama si è assistito ad una virata: al centro vi è oggi il multilateralismo efficace, quindi una maggiore apertura alle organizzazioni internazionali. Questo non è ancora però segno di una svolta radicale, ma è sintomo eloquente di un’insostenibilità del ruolo globale degli USA e quindi, conseguentemente, di debolezza.
La caratteristica principale della reazione delle democrazie all’11 settembre 2001 è stato l’aver reso intermittente e condizionale la validità dei codici. La creazione quindi di uno spazio politico privo di legge tramite l’imposizione di uno stato di eccezione o di un regime emergenziale. Lei critica fortemente l’abdicazione dei principi democratici per l’autodifesa degli stessi. La ritiene un’involuzione della democrazia. Alle luce delle sue considerazioni vorrei però un commento su episodi eticamente riprovevoli ma in parte efficaci: mi riferisco alle azioni del BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais), i cui interventi sono stati particolarmente incisivi nel contrasto alla criminalità all’interno delle favelas brasiliane. Ne “Lo Stato preventivo” Lei cita la teoria del “male minore” (lesser evil) di Ignatieff, ovvero “l’ammissibilità di eccezioni mirate e temporanee al principio di legalità”.
La deinocrazia prevede uno stato di eccezione non dichiarato, non identificabile come tale, insidioso, ubiquo. Per rispondere alla sua domanda vanno prese in considerazione due dimensioni. La prima: vi sono punti non negoziabili. Il rispetto della dignità umana – violarlo compromette la stessa sicurezza dello stato nel lungo periodo. Utilizzando l’opposizione fra il pensiero di Bentham (l’azione eticamente giusta è quella che massimizza la felicità totale aggregata) e quello di Kant (l’uomo come fine, mai come mezzo), credo che in caso di dubbio e conflitto debba prevalere quello kantiano. Mi definisco un realista etico: conseguire risultati sì, ma non a qualsiasi costo. Bisogna chiedersi se gli effetti di breve periodo possono essere visibili, ma anche cosa questa azione produce strutturalmente nel lungo periodo. La seconda dimensione è quella della pubblicità degli atti: qualsiasi misura può essere adottata ma va sottoposta a controllo democratico tramite il Parlamento o gli organi giudiziari.
Sintomo dello stato di eccezione e della “riduzione dell’universalità dei diritti” sono le cosiddette “consegne extragiudiziarie”. In Italia il caso Abu Omar è stato seguito con notevole interesse dall’opinione pubblica e su di esso è stato posto il segreto di stato. Fra “democrazia securitaria” e “sicurezza democratica”, dove si colloca tale istituto?
Il segreto di stato è più congeniale alla democrazia securitaria ed è un istituto che va rivisitato. In Italia è in corso una corposa revisione dei meccanismi per la verifica dei requisiti di sussistenza della necessità di imporre il segreto. La vera sicurezza comunitaria non ha bisogno del segreto di stato. La paura viene dal fatto che viviamo isolati nel mondo, costituiamo una “folla solitaria”. La sicurezza comunitaria si fonda sul rafforzamento del vincolo comunitario per non sentirsi schiacciati dalla globalizzazione. Ad esempio, nel caso dell’insicurezza dei cittadini dovuta alla percezione di crescente criminalità, la riappropriazione degli spazi urbani è più efficace dell’istituzione di ronde.
Proprio nella sicurezza comunitaria Lei intravede una via d’uscita.
La vera via d’uscita da uno stato di eccezione non dichiarato si potrà avere soltanto ripartendo dalla quotidianità, dal confronto, dal dialogo sulle scelte della politica. La via d’uscita non si trova in nuove richieste allo stato ma nel riappropriarsi della dimensione comunitaria, del futuro, del territorio in una dimensione partecipativa. Solo su questo processo di inclusione e corresponsabilizzazione può basarsi la sicurezza democratica.

La nuova Commissione Europea tra ambizioni ed emergenze

Le sfide della nuova Commissione Europea, che avvia concretamente il suo mandato in Novembre, sono fondamentalmente di due tipi. Da una parte, l’assetto interno, non privo di conseguenze sulle modalità di operare del nuovo Collegio e anche sulla sua capacità di ottenere risultati tangibili; dall'altra, il varo di politiche rese necessarie e urgenti da un contesto europeo e mondiale che si presenta con caratteri che non pare esagerato definire emergenziali.
Jean-Claude Juncker è certamente un europeista, ma è anche e soprattutto un politico pragmatico e di grande esperienza. A parte le circostanze particolarmente innovative che lo hanno portato a essere designato Presidente della Commissione a seguito di una sorta di investitura “elettorale” al contempo informale e indiretta, Juncker ha sin dall’inizio dedicato una speciale attenzione al funzionamento della Commissione, un organo collegiale di 28 membri che nel tempo, anche in ragione della frammentazione interna, ha perso di mordente rispetto al processo integrativo e soprattutto nei confronti della “rivincita” dei governi nazionali sulle istituzioni comuni. La struttura della nuova Commissione cerca di rimediare, in qualche modo, alla dispersione delle competenze, istituendo nei fatti una sorta di inner cabinet formato, oltre che dal Presidente, da sette commissari con forti funzioni di coordinamento rispetto ai portafogli distribuiti agli altri Commissari. Sarà – ha detto Juncker – una Commissione certamente “politica”, ma non “politicizzata”. I commissari-coordinatori provengono, comprendendo anche lo stesso Presidente, da tre delle famiglie politiche europee: quattro popolari (Juncker, Georgieva, Katainen, Dombrovskis), tre socialisti (Timmermans, Sefcovic e Mogherini), un liberale (Ansip). Tuttavia, nella visione di Juncker, la Commissione deve anche rimanere un’istituzione di garanzia, in grado di rappresentare l’interesse dell’Unione in quanto tale e non divenire né una cassa di risonanza dei gruppi del Parlamento Europeo, né una replica delle delegazioni nazionali al Consiglio; compito, quest’ultimo, divenuto assai complesso, da quando è stato cancellato il principio, affermatosi nel corso del negoziato che portò al Trattato di Nizza, che il numero dei Commissari dovesse essere inferiore al numero degli Stati membri dell’Unione.
Nella ristrutturazione della Commissione, operata senza introdurre riforme epocali e sfruttando il principio della libertà di auto-organizzazione delle istituzioni, spicca la novità della creazione della carica di un primo Vice-Presidente unico, assegnata all’olandese Frans Timmermans. Il suo portafoglio comprende questioni “orizzontali” di grande rilievo, come le relazioni inter-istituzionali (con il Parlamento e con il Consiglio), la Carta dei diritti fondamentali, e soprattutto il tema strategico dei negoziati per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) nei suoi risvolti per le competenze nazionali in materia di contenziosi con investitori esteri. In pratica, la nomina di Timmermans crea, si direbbe, una categoria di Commissario a parte, con funzioni reali di deputy rispetto allo stesso Juncker, e in posizione chiaramente differenziata rispetto agli altri sei Vice-Presidenti. Resta da capire se questa disseminazione di ruoli integrativi delle diverse politiche si rivelerà un ridimensionamento della funzione di indirizzo politico del Presidente della Commissione (“sono troppo anziano per iniziare una nuova carriera come dittatore”, come ha detto Juncker, tra il serio e il faceto), oppure, al contrario, rafforzerà i caratteri più marcatamente strategici della sua missione.
Nel complesso, si tratta di un riaggiustamento di competenze a seguito delle audizioni dei Commissari da parte del Parlamento Europeo, che hanno portato, tra l’altro, a un “rimpasto” complesso e dagli esiti non scontati. In primo luogo, la sostituzione della Commissaria slovena (auto-nominatasi!), l’ex Primo Ministro Alenka Bratušek, con Violeta Bulc e la conseguente riconfigurazione del corrispondente portafoglio (trasporti). In secondo luogo, la conferma sofferta (a causa delle politiche del governo di Budapest in materia di libertà di espressione e pluralismo, fortemente contestate da buona parte del Parlamento Europeo) del Commissario ungherese Tibor Navracsics dopo la sottrazione delle questioni della cittadinanza europea alle sue responsabilità originarie (istruzione, cultura, gioventù). Si è avuta poi la riassegnazione della gestione della stessa cittadinanza al greco Dimitris Avramopoulos nel contesto di un ampio e sensibilissimo dossier, che comprende migrazioni e affari interni. 
Tutta la vicenda della nomina della Commissione e della sua approvazione da parte del Parlamento Europeo si è svolta con una spiccata (per taluni, velleitaria) caratterizzazione politico-parlamentare, quasi a voler segnare, almeno nell’intenzione dell’Assemblea di Strasburgo, una nuova fase nell’equilibrio inter-istituzionale. L’ex Premier belga e europarlamentare Guy Verhofstadt ha non a caso evocato in chiave critica il ruolo della Commissione nell’ultimo quinquennio, accusata di essersi ridotta a un “Segretariato del Consiglio”.
Oltre agli aspetti strutturali del nuovo Esecutivo dell’Unione, ben più impegnative si prospettano le sfide delle politiche, quasi tutte legate, direttamente o indirettamente, alla capacità (o incapacità) dell’Unione di trovare un nuovo passo rispetto alla riconfigurazione del potere mondiale e all’emergere non solo di crisi, ma di veri e propri conflitti ai suoi confini (Ucraina, ISIS, Libia). Lo stesso obiettivo di Juncker di ottenere una “tripla A” per l’Europa non solo nel campo finanziario ed economico, ma anche in quello delle politiche sociali, dipende da come l’Unione riuscirà ad attrezzarsi per far fronte a quella che potrebbe essere considerata come una nuova fase della globalizzazione, meno cosmopolita e più conflittuale. Il neo-Presidente della Commissione ha utilizzato toni per molti versi drammatici, caratterizzando questa legislatura europea come una sorta di “ultima spiaggia” per risollevare le sorti dell’Europa.
Come la Commissione, anche e soprattutto il Consiglio dovrà compiere uno sforzo di integrazione delle politiche, anche se sinora i segnali continuano ad andare nella direzione della frammentazione e della ri-nazionalizzazione (in termini persino rivendicativi della sovranità “ceduta”) del discorso politico sull’Unione e dell’Unione. Da questo punto di vista, la nuova Commissione si troverà nel bel mezzo della frattura tra le diverse e talvolta incompatibili concezioni di Europa, a cominciare dal Patto di stabilità (e le sue interpretazioni “flessibili” invocate da Francia e Italia) per finire alla questione sociale, politica ed economica - ancor prima che umanitaria - delle migrazioni. Senza trascurare, ovviamente, il peso del “fronte interno”, in un momento in cui l’euro-scetticismo (o, meglio, un vero e proprio anti-europeismo) diviene una forza politica più o meno coesa e organizzata, ma in ogni caso espressa da almeno un quarto dei componenti del nuovo Parlamento Europeo. Si capisce, a questo riguardo, come in questo ambiente tendenzialmente ostile sia difficile persino pronunciare la parola “allargamento” dell’Unione a nuovi Stati, a cominciare dai Balcani ma anche rispetto alla deriva di disimpegno assunta, purtroppo, dall’Europa nei rapporti con la Turchia, e viceversa. Tuttavia, prima o poi, come tragicamente insegna il centenario della prima guerra mondiale commemorato nel 2014, i conti con la storia e con il futuro bisognerà farli. O l’Unione pensa in questi termini strategici, oppure si trasformerà in un’area ininfluente, basata sulla gestione tecnica di questioni tecniche: un destino a cui la condannerebbe l’asfittica pseudo-politica nazional-europea, condotta (si fa per dire) da 28 governi.

Non guerre di religione, ma la religione della guerra

A metà della seconda decade del 21º secolo si fa fatica a identificare i caratteriprecisi di un sistema internazionale che è ben lontano dalle fattezze dell'ordine. Quello che è certo è che la lunga transizione iniziata con la fine della guerra fredda non solo non è ancora giunta a maturazione, ma sta assumendo i tratti della confusione globale. 
Diventa sempre più evidente che le forze economiche della globalizzazione si confrontano con quelle ben più antiche e profonde delle culture e delle identità. La globalizzazione, infatti, non ha nulla a che vedere con l’universalità; è unilaterale, caratterizzata in senso geo-culturale come emanazione dell’era (e dell’area) euro-atlantica, e in quanto tale strutturalmente egemonica. 
In alcune aree del mondo, ed in particolare in Medio Oriente, si manifestano fattori di instabilità che vanno ben oltre il concetto di scontro di civiltà. In molti casi, un rozzo radicalismo si unisce a pratiche di violenza e di intolleranza che sembravano essere relegate negli archivi della storia. 
In questo contesto già di per sé critico, l'errore più grave che potremmo compiere sarebbe quello di cadere nella trappola tesa da pseudo-islamisti sanguinari, che hanno tutto l'interesse a radicalizzare l'opposizione all'occidente in termini di guerra di religione. 
Purtroppo, prestigiosi intellettuali ed editorialisti italiani e stranieri hanno esortato l'opinione pubblica europea a prendere atto di questa situazione di belligeranza a sfondo religioso e hanno sostenuto che non si tratterebbe di una novità, in quanto guerre di religione costellano l'intera storia dell'umanità. 
In realtà, è proprio la storia ad insegnarci che le guerre più devastanti e i conflitti più cruenti hanno avuto luogo per ragioni che non hanno nulla a che fare con la religione. Basterebbe ricordare, ad esempio, che la prima guerra mondiale - che nel 2014 viene tristemente ricordata a un secolo dal suo inizio - non aveva certo motivazioni di carattere religioso (era uno scontro tra nazioni “cristiane”), né le aveva la seconda guerra mondiale. Persino il conflitto israelo-palestinese non nasce da radici religiose, essendo essenzialmente - fino a tempi recenti - una questione di territori e di sovranità. Le famose “guerre di religione” che, secondo la narrazione liberal-democratica, imperversarono in Europa nel 17º secolo, erano in realtà causate da mire espansionistiche,questioni dinastiche e dallo stesso processo di formazione dello stato moderno,il quale, lungi dall'averci salvato dalla guerra, al contrario l’ha resa più assoluta e devastante. Non è stata la religione a inventare l’arma atomica, ma la politica contemporanea.
Il militarismo, l'egemonia economica, l'intolleranza a tutti i livelli sono cause di conflitto unitamente a tanti altri fattori sociali e culturali di cui la religione costituisce solo una componente. Persino gli aguzzini dell'ISIS perseguono non tanto il trionfo dell'Islam in quanto tale (o una concezione falsificata e strumentale di tale religione) ma la formazione di un’entità politica di natura statuale o addirittura dei tratti vagamente imperiali come il califfato. Paradossalmente la loro assoluta e dogmatica opposizione all'occidente si fonda sull’accettazione distorta di una delle istituzioni politiche inventate proprio nel mondo euro-atlantico, e cioè lo stato moderno e il connesso apparato di potere, per non parlare degli strumenti tradizionali di tutti “i troni e le dominazioni” in ogni tempo e in ogni angolo del mondo, come il genocidio, la propaganda e persino l'uso cinico degli strumenti della comunicazione visiva e della rete globale. 
Tutto ciò ha molto poco a che fare con la religione e invece ha molto a che vedere con le consuete ricette del dominio di oligarchie e della prevalenza di strutture improntate alla cultura bellica. Persino il meccanismo volutamente terrorizzate delle raccapriccianti esecuzioni di innocenti risponde a una logica di controllo sociale e dell’opinione, come ha dimostrato Foucault in “Sorvegliare e punire”: chi usa tali meccanismi di psicologia sociale ricerca l’altrui sottomissione e un governo basato sull’intimidazione e la minaccia.
Da ogni punto di vista, nel caso dell'ISIS e di tutte le altre organizzazioni assimilabili si dovrebbe parlare non tanto di guerre di religione ma, più concretamente, realisticamente e prosaicamente, di religione della guerra. Sono infatti la politica di potenza, la sete di conquiste territoriali e l’esercizio del potere senza scrupoli le motivazioni delle presunte guerre di religione! 
Tantomeno ha senso parlare di scontro di civiltà (spesso mescolate in un minestrone indigesto con le culture e le religioni, che sono ben altra cosa); in realtà si dovrebbe riconoscere l'esistenza di uno scontro all'interno delle civiltà tra coloro che intendono l'identità in senso esclusivista e aggressivo e quanti invece considerano che essa è sempre il risultato di incontri, confronti,interazioni, scambi e reciproche “contaminazioni”. L'intellettuale di origine libanese Amin Maalouf scrisse qualche anno fa un libro il cui argomento fondamentale erano le cosiddette “identità assassine”, proprio a sottolineare la deriva violenta che i riferimenti alle tradizioni, alle culture e alle religioni possono assumere se non mediate in un contesto di pluralismo e di dialogo tra le differenze.
Gli attentati, i bombardamenti, le distruzioni che colpiscono Chiese cristiane di ogni denominazione, Sinagoghe, Moschee sunnite e sciite, Templi buddisti e sikh, dovunque siano situati, sono la riprova che si tratta non di guerre di religione, ma dell’anti-religione per eccellenza, visto che le vere religioni hanno a cuore, piuttosto, l’unità dell’umanità e l’armonia con il creato. 
In definitiva, continuare a parlare di guerre di religione come un fenomeno riprovevole sembrerebbe assolvere implicitamente altre tipologie di guerre, che invece sarebbero razionali e in linea con la modernità, come se la guerra in quanto tale non fosse, di per sé, senza alcuna aggettivazione, un relitto della storia, una pratica barbara da abbandonare, una “istituzione” che ha dimostrato di essere fallimentare se pensata come un “praticabile” strumento politico o sociale. 
Chiara Lubich affermava con grande lucidità e saggezza, indicando un cammino di unità pur pienamente consapevole delle criticità mondiali, che “è finito il tempo delle ‘guerre sante’. La guerra non è mai santa, e non lo è mai stata. Dio non la vuole. Solo la pace è veramente santa, perché Dio stesso è la pace.”

Ancora l'Iraq


Stavolta, la colpa non è degli Americani. Se l'Iraq sembra essere giunto al limite della disintegrazione ció si deve in primo luogo al settarismo politico interno. Il premier al-Maliki, dopo aver guidato il Paese durante la difficile fase del disimpegno militare degli Stati Uniti, non ha voluto tener conto del frammentato panorama politico, culturale e religioso interno. In particolare, non ha adottato, come pure sarebbe stato necessario, una politica di inclusione nelle responsabilità di governo anche dei sunniti, presenti nell'area centrale del Paese, mentre il sud rimane sotto l'egida degli sciiti e il nord sotto quella dei curdi. Su questo sfondo si è innestata l'offensiva armata del cosiddetto "Stato islamico dell'Iraq e del Levante", il cui obiettivo è sfruttare l'instabilità irachena e la guerra civile in Siria per dar vita a una sorta di "Grande Siria" (più che Califfato) islamista e turbolenta. Tuttavia la posta in gioco è ben più ampia. È in atto in Medio Oriente una ristrutturazione degli equilibri regionali pari solamente a quella seguita alla disintegrazione dell'Impero Ottomano dopo la Prima Guerra Mondiale. La fonte di tale cambiamento, stavolta, si rinviene principalmente nel rimescolamento delle carte della politica interna in molti Paesi arabo-islamici, creando un intreccio difficile da districare tra questioni "domestiche" e questioni internazionali che tirano in ballo attori esterni come Stati Uniti, Russia, Turchia. L'Iraq, come la Siria, dimostra - purtroppo con effetti negativi - la potenza di fattori trans-nazionali, come l'identità araba, ma anche la religione, coinvolgendo un Paese che arabo non è, ma che è oggi il centro dell'Islam sciita: l'Iran. Un Paese che, piaccia o no, è oggi tra i più stabili dell'intera area medio-orientale. Antagonista di Washington in Siria e per gli attriti dovuti al programma nucleare, nel caso iracheno ha interessi e un'influenza che possono risultare decisivi per risolvere questa ennesima crisi in Mesopotamia. Quello che è certo è che è ormai ora che le crisi medio-orientali siano risolte dagli Stati dell'area. Gli Stati Uniti non hanno più nessuna voglia di farsi trascinare in conflitti irrisolvibili, mentre Russia e Europa non sembrano avere né la volontà politica né i mezzi per farsene carico. È maturo il tempo per un'organizzazione mediorientale per la pace e la sicurezza.

Sergio Romano e il declino dell'impero americano

Quando si scriverà la storia dei primi decenni del XXI secolo, una data sarà probabilmente considerata dirimente. Solitamente si pensa all'11 settembre 2011, e cioè all'attacco alle Torri Gemelle a New York e al Pentagono a Washington da parte dell'organizzazione terroristica di Al Qaeda. Tuttavia l'evento veramente caratterizzante delle vicende internazionali degli ultimi anni è l'invasione americana dell'Iraq nel 2003. Considerata l'apoteosi dell'egemonia statunitense, quell’avventura bellica, i cui effetti - come testimoniano i fatti delle ultime settimane in Iraq - sono tutt'altro che esauriti, segnò invece l'inizio del declino americano sulla scena globale.
Tale scelta sconsiderata segna la negazione, nella pratica, dell'immagine del "Leviatano liberale", che per il politologo Ikenberry rappresenta la principale funzione degli Stati Uniti nel mondo, in quanto creatori di un ordine basato sulle istituzioni internazionali e sull’influenza positiva nel sistema internazionale delle democrazie liberali. 
Per Sergio Romano (Il declino dell'impero americano, Longanesi, Milano 2014) la crisi dell'ordine mondiale americano è cominciata a Kabul nel 2001 e a Baghdad nel 2003, "ma diviene ancora più evidente quando i più vecchi e fedeli alleati degli Stati Uniti - l'Arabia Saudita, Israele, la Turchia, il Giappone, alcuni Paesi europei e latinoamericani - lanciano segnali di fastidio e cominciano a fare scelte politiche che danno per scontato il declino della potenza americana". 
Romano traccia con grande nitore analitico le grandi linee della politica estera americana a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Romano propone un'interpretazione della proiezione internazionale degli Stati Uniti attraverso la categoria dell'impero, depurata però sia delle caratterizzazioni più rozzamente "imperialistiche", sia di quelle ingenuamente "provvidenzialistiche". Gli Stati Uniti non appaiono né come i dominatori del mondo, né come i suoi salvatori. Se è vero che gli Stati Uniti si sono fatti promotori in alcuni casi della giustizia mondiale, è anche vero che non hanno ratificato, ad esempio, il Tribunale penale internazionale, "perché ciò che è utile e desiderabile per gli altri - scrive Romano con un giudizio forse troppo severo - non è utile e desiderabile per sé stessa". 
Molto più realisticamente, Romano sostiene che gli Stati Uniti abbiano coltivato, sin dalla loro origine, la convinzione di possedere uno standard etico-politico più avanzato rispetto al resto del mondo e che tale circostanza li obbligasse ad assumere, anche da soli, la guida del mondo occidentale o "libero". In tal senso, per seguire Romano, la parola "isolazionismo" fa rima con unilateralismo. Le vicende dell’ultimo quarto di secolo dopo al fine della Guerra fredda mostrano, per la verità, un’immagine complessa del ruolo degli Stati Uniti: basti pensare alla ricerca del consenso internazionale nel caso dell’intervento per liberare il Kuwait invaso da Saddam Hussein nel 1991, o all’intervento nella ex-Jugoslavia dinanzi all’ignavia europea, alla apertura di credito offerta alle Primavere arabe dal 2010. 
In ogni caso, Romano descrive con grande lucidità la fine (a volte convulsa) della cosiddetta pax americana, cioè al ruolo degli Stati Uniti come garante di ultima istanza dell’ordine mondiale. Questo esito è in parte deliberato, ma sostanzialmente costituisce una conseguenza necessaria della riduzione delle capacità di intervento, sia a motivo della insostenibilità economica (specie dopo la crisi finanziaria del 2008) sia in ragione della insostenibilità politica (un’opinione pubblica americana assai oggi più preoccupata del fronte interno che di quello internazionale). Sullo sfondo, si svolge una transizione ben più importante persino della traslazione di potere verso l’Asia, ed è di tipo concettuale: gli Stati Uniti dovranno rendersi conto che, se essi sono la “nazione indispensabile”, come disse Madeleine Albright, oggi tutte le nazioni sono “indispensabili” per affrontare insieme le sfide globali. E’ sintomatico che un libro sul declino americano si concluda con una sorta di appello all’Europa, affinché si decida a presentarsi al mondo con “un governo comune”. Altrimenti – prevede Romano - l’era post-americana si popolerà solo di nuove potenze, tutte extraeuropee. Un limite di quest’analisi? Troppo centrata sulla nozione di potere, sia militare che economico, nella tradizione del pensiero “realista” delle relazioni internazionali. Non è detto che questo “realismo” serva davvero, oggi, a comprendere la complessità del mondo.

Apollo in Gaza

A word of warning: do not trust the captivating expression “cultural diplomacy”, it embodies a fundamental misunderstanding. Diplomats à la page and policy makers use to wrap all sort of things not directly connected to the exercise of “hard power” (military might, economic strength) in a “gift box” to partners and media to foster the idea that power and art, government and creativity are not necessarily opposite concepts. On the contrary, diplomacy – according to such a narrative - is more and more about “soft power”, articulated abroad through exhibitions, concerts, lectures, scientific joint ventures, even pop music and cartoons. 
However, our thesis is that cultural diplomacy - as a sub-set of so-called “public diplomacy” - has little to do with these promotional activities related to projecting the image of a country beyond its borders. Cultural diplomacy is a much more concrete and a much less Arcadian concept. It relates to diplomacy, but in a rather traditional way, since it regards a dispute, if not a confrontation, between one or more countries implying the possession or preservation of an artistic object or artefact of symbolic value in term of sovereignty, search for recognition, national identity and dignity. Put in this way, cultural diplomacy is mainly an exercise of negotiation and a diplomatic challenge to the status quo. Cultural diplomacy, therefore, in most cases is more an ugly crisis to solve than an elegant solution to an on-going crisis. 
A recent episode, regarding two countries “friends and allies”, Italy and the U.S., is a good exemplification of this. The case regards the fight for the restitution of a famous Greek statue, “the Venus of Morgantina”, 2.2 meters tall, from the eponymous archaeological site in Sicily (sculpted between 425 and 400 BC). The statue was stolen from Morgantina in the second half of the twentieth century, and then sold in 1986 to the Paul Getty Museum, after various events, for 10 million dollars. At the end of a complicated and somewhat fierce legal and diplomatic struggle, the Venus was returned to Sicily on 18 March 2011 after a long exile in the United States. The “Chase for Aphrodite”- as journalists Jason Felch and Ralph Frammolin put it in a fine book on this emblematic case – finally succeed. 
Other cases are not so easy to solve, like the removal of the sculptures of the Parthenon (now part of the collection of the British Museum) by Lord Elgin, the British ambassador to the Ottoman Empire in the early 19th century. Whereas the legal basis for returning the “Elgin Marbles” to Greece is weak, the historical, archaeological and even political arguments are strong. The issue there is not about the property of the marbles, but rather on where they would be best displayed to the public. With the inauguration of the new Acropolis Museum in Athens in 2010, much of the motives for keeping the marbles in London have objectively been weakened. Recently, the UNESCO – intervening on demand of the Greek government - urged the United Kingdom to take part in a "mediation procedure" with Greece in a renewed effort to solve a 200-years old dispute. Even two Hollywood famous actors, George Clooney and Bill Murray, asked Britain to repatriate the Elgin Marbles. 
The dramatic financial crisis that hit Greece in the last years triggered also a surrealistic polemics on the supposed lack of capacity of Greece to take care of the Elgin Marbles once returned to their country of origin, in consideration of the poor condition of the public budget and the disarray of the public sector. The argument implies a degree of judgement on the political, economic and social stability of the country, and it is used also for legitimating the British Museum in keeping the Rosetta Stone instead of returning it to Egypt. 
An “epic” restitution was that of the obelisk of Axum to Ethiopia by Italy. The obelisk, removed from the site and taken to Rome as a war trophy and a symbol of the re-birth of the “Roman Empire” during the Italian occupation, was returned to Axum in 2005 – after the first commitment taken by Italy already in 1947 - and re-erected in in 2008. To perform the restitution, the obelisk was removed one more time from its Roman place in front of the Headquarters of the United Nations' Food and Agriculture Organization. The operation (with a cost of almost eight million dollar for Italy) resulted much more complex than expected, and even required upgrading the runway at Axum airport to allow the landing of an airplane Antonov An-124, bearing the central piece of the obelisk (the second and third pieces were sent later that month). Returning the obelisk to Ethiopia meant healing the wound of the colonization of the land in 1936, symbolically ending all controversies of the past between Rome and Addis Ababa. 
At times, cultural diplomacy takes the form a cultural war in the real meaning of the expression. This was the destiny of the Buddhas of Bamiyan, in Afghanistan, two 6th century monumental statues of standing Buddha carved into the side of a cliff. The Buddhas were destroyed in March 2001 by the Talibans, following orders from their leader Mullah Mohammed Omar, after declaring them “idols”. The destruction caused a wave of condemnation on a global scale. The UNESCO, waiting for the improbable very costly reconstruction of the statues, launched a project worth 1.3 million dollars sorting out the pieces—weighing from several tons to fragments the size of baseball balls — and protecting them from extreme weather and other hazards. The Buddhas, to some extent, were “innocent victims” of a proxy war between the Talibans and the West, accusing each other, respectively, of intolerance and imperialism. 
The stories of restitution, request, destruction and restoration of artefacts narrated above embrace all level of effectiveness of power from consolidated state with an imperial past to countries in transition, not to mention failed or rogue states like in the case of Taliban’s Afghanistan. However, a new model recently arose after the occasional recovery of an ancient bronze statue of Apollo in the coast in front of the Gaza Strip, part of a state at the same time under construction and under occupation (the Palestinian State), ruled by a de facto local government, in a part of the world where conflict, violence and injustice unfortunately are usual features of social life, and where culture is neglected while being, at the same time, perhaps one of the most promising path to rebuild a sense of community, a shared identity and the awareness of a common destiny.
Ever since an ancient 2,500 year old and extremely rare bronze statue of Apollo was found in Gaza last summer, Gaza came under an unfamiliar media spotlight. Although cases of captivity are not new to Gaza, a statue of the god of love and poetry being held hostage to unsettled politics is quite unique. The statue, of which the discovery details remain disputed, is extremely rare, since very few statues of the time were made in metal/bronze. It is also beautifully impeccable, judging only from the few photos that were shared with the world, as the statue remains 'hidden' somewhere in the Strip of Gaza. While details of the whereabouts of the statue are almost nonexistent, one thing is for sure: the whole world is all eyes and ears. To this day, representatives of Italian, Swiss, French, and Greek museums, archaeological missions, and even governments have tried, to no avail, to seek the statue. In this case, the fact that the statue is hidden in an undisclosed location is the simplest problem, given the severe geographic and physical embargo of Gaza. While this embargo could mean that the statue will at least not be illegally smuggled outside Gaza (UNESCO’s Interpol is on alert), there is nothing to guarantee the actual wellbeing of the statue.
This historic discovery is not the first in Gaza, but due to a long queue of news related to the conflict and its different implications, little has ever been said about the city's impressive history, or previous discoveries. For example, in 1879, Palestinians living in Tell Ajjul, about 20 km south of Gaza, stumbled upon a 4x1x0.7 meters yellow sandstone structure, which turned out to be the largest known statue of Zeus in the world (since the destruction of "Zeus of Olympia" in 5th Century AD in Greece). The statue was seized by the Ottoman authorities that were ruling Gaza at the time and sent to Istanbul. Ever since, the statue has been displayed in the Istanbul Archaeology Museum as "Zeus of Gaza." Zeus's left arm has probably drowned in the deep sands of Gaza. 
In 1917, during the third Battle of Gaza, the Australian Anzac forces discovered the Shellal Mosaic, a Byzantine mosaic chapel floor that was built under the reign of Emperor Justinian. The troops removed the mosaic from the site and took it back to Australia, where it has been on display in the Australian War Memorial since 1941. Several debates have sprung on whether Australia’s looting of the mosaic could be considered as a war crime, and whether it has any right to keep it to this day. Unfortunately, while little has been said, nothing was done. With the fall of the Ottoman Empire in 1917 and the seizure of Palestine by the British Mandate, more archaeological discoveries were made. In 1934, Sir Flinders Petrie excavated the ancient site of Tell Ajjul, a Bronze Age site south of Gaza dating to 2100 BC. The priceless and extremely rare treasures that he unearthed, numbering to 12,000, have been on display in the British Museum and other exhibitions in Britain ever since. 
The archaeological treasures that were not looted by foreign armies outnumber those that found home in museums around the world. However, the current situation in Palestine leaves no space for archaeological discoveries and conservation. Gaza, one of the most densely populated areas in the world, is a true testament to that: with an expanding population and a shrinking territory, archaeological sites are no priority. 
It may fairly be said that Apollo’s story received more international media coverage than local coverage. Save the authorities and a few interested individuals, the majority of people in Gaza are too busy trying to lead normal lives as opposed to worrying about Apollo. It’s a harsh reality, which has overshadowed the general populations’ interest in their own history and ancient ancestry. Historically, Gaza was one of the most important cities in the Mediterranean given its strategic location between West Asia and Africa, which means that important archaeological findings are no surprise to the city. Yet, all is under the threat of loss. 
On a lighter note, a number of initiatives by locals and internationals are aimed at preserving what is left of the history of Gaza. These include the efforts of private collectors, amongst them Jawdat Khoudary, who has been collecting and preserving artefacts from Gaza since 1987. Khoudary opened the city’s first Museum of Archaeology in 2008, Almathaf, exhibiting 300 pieces that represent different historical eras. Other important pieces of the collection, including a marble statue of Aphrodite, that was found in the sea, were sent to Geneva for an exhibition on Gaza’s history that was hosted by Germany and Sweden as well. “Gaza from Sand and Sea” is the title that was given to the first volume of books on the collection, with a second volume now being drafted on numismatics of Gaza. 
In an ideal world, the statue of Apollo would be examined, studied and conserved by Palestinian experts, and would be displayed in the national museum of Palestine and labelled as part of the region’s common cultural heritage. However, in the Gaza’s austere reality, none of that exists. Gazans are left to hope for the best; that the statue will not be decaying now as you read these words, that no illegal plans are being plotted, and that a peaceful, and prompt, solution could be reached for saving Apollo. Greed could also make local inhabitants hope that the international community might regard Gaza with a different eye once Apollo is rescued; who knew that a 2,500 year old Gazan could hold the key to Gaza’s ancient gate to the world?


(Pasquale Ferrara and Yasmeen J. El Khoudary)

11 tesi sull'anti-Europa


 1. L’esaltazione delle identità locali/nazionali riporta in auge il concetto di sovranità, e da questo punto di vista concepisce la politica in modo “moderno”, come esercizio esclusivo del potere su un popolo e su un territorio. Si tratta pertanto della rivincita dell’ideologia sovranista/assolutista (lo stato come “superiorem non recognoscens”) che ha i suoi riferimenti in Hobbes e Bodin. Lungi dall’essere una liberazione dai presunti “potentati sovra-nazionali”, è la teorizzazione del dominio incontrastato di élite locali e nazionali su enclaves territoriali che concepiscono le relazioni con il “resto del mondo” in termini di difesa, conflitto e confronto più che di cooperazione e condivisione. Una sorta di comunitarismo aggressivo, che nulla ha a che fare con il veto federalismo, che è invece fondato sulla pace strutturale, come evidenziato dal premio Nobel per la pace assegnato all'Unione Europea. 

2. L’Europa non è né un progetto kantiano (una lega di stati, realizzato, piuttosto, dalle Nazioni Unite), né un progetto saint-simoniano (tecnocratico, realizzato, piuttosto, dalle burocrazie nazionali gelose delle proprie prerogative); in origine, è un progetto “madisoniano”, nel senso che la “costituzione” dell’Europa non è stata concepita né in termini nazionali né in termini federali, ma come una commistione di entrambe le dimensioni. 
3. L’argomento che la democrazia può meglio funzionare a piccola scala piuttosto che a livello europeo trova una precisa confutazione in James Madison (“The Federalist Papers”, n.10). Nelle repubbliche meno numerose la possibilità che fazioni e gruppi di interesse con una precisa agenda possano condizionale l’intera popolazione è assai più elevata che nelle repubbliche più estese e popolose, dove il pluralismo ha più possibilità di articolarsi in proposte politiche alternative e dove, in definitiva, il controllo del popolo sull’élite di governo è paradossalmente più incisivo. 
4. L’enfasi sulle identità nazionali e culturali si fonda su una visione “pseudo-hegeliana” della storia europea e mondiale. Si tratta di una fenomenologia dello spirito che assegna allo stato nazionale la dimensione dell’eticità; è una concezione organicistica alla quale guardano con favore tutti i movimenti anti-europei, dimenticando che tale concezione è stata la base ideologica degli assolutismi e autoritarismi del XX secolo. Le tesi dei teorici anti-euro ricordano gli argomenti di Fichte ne "Lo Stato commerciale chiuso", in cui si sostiene che lo Stato deve essere indipendente economicamente dagli altri mediante una rigida autarchia, in modo che si sviluppino, in una sorta di pericoloso laboratorio politico-economico sigillato verso l'estero, le presunte energie spirituali e produttive della nazione. 
5. La rappresentazione dell’Unione Europea come “Leviatano” centralista e imperialista non trova riscontro nei poteri delle istituzioni di Bruxelles; l’Europa non è affetta da “eccesso di potere”, ma, al contrario, da una drammatica carenza di strumenti di governo, in quanto nelle materie strategiche (politica economica, fiscalità, politica estera, difesa, migrazioni) gli stati nazionali detengono tuttora non solo il diritto di veto, ma le competenze sostanziali. 
6. La demonizzazione dell’Euro come causa di tutti i mali dell’Europa nasconde in realtà l’incapacità delle classi politiche nazionali di elaborare risposte convincenti ai cambiamenti strutturali in corso sul piano globale, che configurano un mondo sempre più post-europeo e post-occidentale. Si tratta, a ben guardare, di una volontà di potenza statalista che si manifesta nella persistenza di una mentalità “imperialista”, nel rifiuto di affrontare in modo maturo le sfide economiche e sociali che derivano dal mutamento globale. È una rappresentazione del mondo che, in fondo, vorrebbe cristallizzare le asimmetrie globali ed è nostalgica della dipendenza (degli altri), rifiutando in pratica la realtà dell'interdipendenza mondiale.
7. La rappresentazione dell’UE come una realizzazione del liberismo imperante nel modello economico globale e del dominio della finanza transnazionale dovrebbe rendere ragione della circostanza che il principale “agente” della deregolamentazione e della finanziarizzazione dell’economia, vale a dire la Gran Bretagna della City, non è parte dell’Euro proprio perché intende avere mano libera nel creare le migliori condizioni ambientali per i capitali e gli investimenti finanziari. In realtà, pur con i suoi limiti, l’Eurozona costituisce un primo tentativo, per quanto insufficiente e sbilanciato, di governare i capitali più che accettare supinamente di essere governati da essi. Al momento dell’esplosione della crisi del debito dell’Eurozona la competenza delle istituzioni europee in materia finanziaria era nulla, essendo in realtà nella totale responsabilità degli stati nazionali, mentre oggi sono state assegnate funzioni di controllo alla Commissione (che opera una supervisione previa sui bilanci nazionali) e alla banca Centrale Europea (che opera una supervisione sulle banche). 
8. L’argomento del cosiddetto “recupero della sovranità monetaria” che si realizzerebbe con l’uscita dall’Euro è totalmente infondato. In definitiva, i regolamenti finanziari internazionali devono assumere una valuta di riferimento, che da Bretton Woods in poi è stata costituita dal dollaro, fino allo sganciamento della moneta americana dal valore dell’oro, nel 1971. Da quel momento gli Europei hanno tentato di recuperare una sovranità monetaria collettiva, che ha portato all’adozione dell’Euro. Le svalutazioni competitive, che hanno caratterizzato la politica valutaria italiana negli ultimi decenni del XX secolo, hanno rappresentato la totale sottomissione coloniale del Paese all’inflazione importata e a una politica dei tassi d’interesse dettata ben al di fuori dei confini nazionali. Inoltre, si omette deliberatamente di dire che la crisi finanziaria ha poco a che vedere con l'introduzione dell'Euro, tanto è vero che nasce negli USA e colpisce in modo grave Paesi con non fanno parte né dell'Unione Europea, né tantomeno dell'Eurozona, come l'Islanda. Non è un caso, inoltre, che le fosche previsioni di una “uscita dall’Euro” della Grecia non si sono affatto avverate, mentre l’Estonia ha adottato l’Euro dal 1^ gennaio 2011 e la Croazia ha aderito all’Unione il 1^ luglio 2013. 
9. Gli slogan contrapposti “più Italia in Europa” e “più Europa in Italia” sono egualmente fuorvianti. Da una parte, l’Italia è pienamente rappresentata in tutte le istituzioni di Bruxelles al pari di Germania, Francia e Gran Bretagna, ed è perfettamente in grado di influire sulla presa di decisioni; dall’altra, in Italia si applicano già – sia pure con ritardi e inefficienze - le direttive e i regolamenti dell’Unione alla cui adozione l’Italia contribuisce, come detto, per la sua quota-parte nel processo decisionale. Uno slogan più convincente dovrebbe essere “più Unione Europea in Europa”, per evitare il riemergere di nazionalismi e di mire egemoniche fondate sugli interessi nazionali e localistici. 
10.La rappresentazione delle politiche europee come imposizioni di una burocrazia anonima e irresponsabile è un comodo alibi per élite nazionali realmente irresponsabili e refrattarie a dar conto del loro operato. Le politiche europee più importanti devono essere approvate dal Parlamento Europeo, composto da rappresentanti eletti democraticamente e non certo da burocrati; il Consiglio è formato da Ministri facenti parti di governi nazionali formati secondo procedure democratiche e non certo da burocrati; la Commissione è formata da commissari designati dai governi nazionali e approvati secondo procedure di scrutinio democratico dal Parlamento Europeo, e non certo da burocrati. Da questo punto di vista, l’Unione Europea non soffre affatto di una “crisi di legittimità”, quanto di una più fisiologica “crisi di consenso” non verso presunte politiche economiche europee che purtroppo non esistono, quanto verso l’assenza di politiche economiche realmente comuni che invece sarebbero assolutamente necessarie, e che presuppongono non lo “smontaggio” dell’Unione, quanto una sua maggiore integrazione.  
11. L’intento della costruzione europea è strutturalmente pluralista, giacché nei trattati si afferma che l’obiettivo è costituire un’unione sempre più stretta tra i popoli europei, non, come nel caso degli Stati Uniti d’America, di dar vita “un’unione più perfetta”. Non a caso, mentre il motto degli Stati Uniti è "e pluribus unum", quello dell’Unione Europea è “in varietate concordia”.

Più Unione Europea in Europa!

In un certo senso, le elezioni europee del prossimo maggio saranno le prime vere elezioni "politiche" europee. Da quando abbiamo il Parlamento europeo elettivo, la percentuale dei votanti è andata scemando: si era partiti da più del 60% del 1979 per arrivare a poco più del 40% del 2009. L'intensità - e talvolta l'animosità - del dibattito sull'Europa al quale oggi stiamo assistendo, e che non ha precedenti nella storia dell'integrazione europea, potrà produrre una più elevata partecipazione al voto? È possibile, ma non è chiaro il senso che tale partecipazione assumerebbe: sembrerebbero prevalere, infatti, i giudizi critici sull'Europa attuale, e quindi è possibile l'ingresso nell'Europarlamento non solo di euroscettici, ma anche di veri e propri "eurodemolitori". Cerchiamo però di mantenere un minimo di lucidità, anche nella gravità della crisi che sconvolge il tessuto sociale europeo, e che coinvolge anzitutto i giovani senza lavoro. Il problema, a ben guardare, non è l'Unione Europea in quanto tale, ma le sue politiche in campo economico-monetario; anzi, direi che il vero nodo è l'assenza di una vera politica economica europea. L'Europa non soffre di una crisi di legittimità - le sue deboli istituzioni non costituiscono certo una sorta di Leviatano continentale - ma di una crisi di consenso.  Si sente dire che l'Europa è solo un'unione economica e non politica: magari! L'unione economica implicherebbe, ad esempio, un unico ministro dell'economia, e non 18 (come nell'Eurozona) o 28 (come nel Consiglio economia e finanza). Abbiamo, oltre alla moneta unica, un mercato unico, le quattro libertà di circolazione (senz'altro delle merci e dei capitali, meno delle persone - specie nel caso dei lavoratori - e dei servizi). Ma dov'è la politica economica unica? In situazioni di crisi, occorrerebbe mettere insieme le risorse per rilanciare su nuove basi lo sviluppo, non - ad esempio - farsi concorrenza con sistemi fiscali nazionali differenziati.  Paradossalmente, tutte le risposte alle questioni più stringenti - come una politica europea dell'energia, dell'immigrazione, della ricerca -  verrebbero da una maggiore integrazione, non dalla disintegrazione di ciò che abbiamo faticosamente costruito. I movimenti anti-europeisti fanno balenare come un toccasana il ritorno alle piccole patrie, l'uscita dall'euro. Ma già adesso l'Unione Europea fa fatica a stare decentemente in un mondo di paesi emergenti: e non parliamo solo di Brasile, India, Russia, Cina e Sudafrica ma, in prospettiva, anche di Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia. Senza parlare delle crisi alle sue frontiere (Siria, Ucraina). Ed è un'ironia della storia che molte aree del pianeta guardino proprio all'Unione Europea come a un superamento di distruttive e ataviche rivalità nazionali proprio quando noi siamo tentati di disfarci di un'Europa integrata o di fermare il processo di condivisione di sovranità. Perché di questo si tratta, non di "perdere" i brandelli di sovranità nazionale che ancora restano in piedi in un mondo globalizzato. Come afferma Bauman, il problema è che oggi il potere (Macht) si è "liberato" della politica (Politik): lo dimostra, ad esempio, lo strapotere dei mercati finanziari, che si farebbero beffe delle scozie, delle catalogne, delle repubbliche venete o genovesi ancor più di quanto già ora prescindano dagli staterelli pseudo-nazionali europei. Le prossime elezioni europee saranno cruciali perchè permetteranno di mettere in campo, finalmente, la "politica", e non solo le "politiche" settoriali europee. Qualunque cosa si pensi dell'Europa, vale la pena dibatterne, confrontarsi civilmente, anche da posizioni opposte; ma non commettiamo errori di cui la storia, ma soprattutto le donne e gli uomini del nostro continente, potrebbe un domani chiedeci di pagare il conto. Non mi esalta particolarmente lo slogan "più Italia in Europa"; sarebbe invece il caso, ora, di più "Unione Europea" in Europa! 

Dal globale all'universale

Cercando un’immagine adatta per rappresentare le relazioni internazionali nel mondo contemporaneo, la scelta spesso si impone tra  quella della torre e quella del ponte.
La torre è un elemento architettonico di tipo essenzialmente militare, ed esemplifica una percezione di minaccia, che provoca un atteggiamento di allerta e di allarme. La torre è la quintessenza del riflesso difensivo, dell’«arroccamento», del senso dell’assedio e del timore dell’invasione.
Il ponte, al contrario, per definizione unisce due territori che in sua assenza rimarrebbero divisi, delimitati da un fiume o da un fossato che altrimenti sarebbe ben arduo varcare. Il ponte, a suo modo, è un invito alla comunicazione, al contatto diretto, al dialogo.
Guardando alla complessità che costituisce la cifra distintiva del mondo in cui viviamo, c’è da chiedersi se queste due immagini – la torre e il ponte -  siano ancora due alternative adeguate. Siamo entrati in un’era in cui le relazioni diventano in gran parte immateriali e non hanno necessariamente bisogno di «ponti» per realizzarsi ed in cui è divenuto fin troppo semplice diroccare o abbattere «torri» militari o «civili».
Per restare nella metafora architettonica, il mondo contemporaneo – senza indulgere affatto nelle semplificazioni falsificanti sulla presunta «piattezza» del globo - assomiglia sempre più a una struttura aperta, un’agorà, una piazza: il luogo dell’incontro, il luogo dell’uguaglianza.
Ma è anche il luogo ove si forgiano una nuova identità comune, un nuovo senso di mutua appartenenza planetaria?  Non sempre, anzi. La verità è che c’è bisogno di un nuovo progetto politico internazionale, un «new deal» globale, una nuova alleanza più inclusiva, pluralista,  paritaria, che vada ben oltre le alleanze militari ed economiche esistenti (oltre la «torre» ed il «ponte»).
Non è per nulla un progetto utopico; basti guardare allo stato del mondo per comprendere che non solo è realistico, ma anche urgente e necessario. La nuova «governance globale» di cui tanto si parla, ma di cui sinora poco si è visto, se non progetti neo-egemonici, può rappresentare un’occasione unica. Purché passi dalla dimensione globale a quella davvero mondiale o universale. L’United World Project, con il suo valore altamente simbolico, con la sua freschezza ideale e realizzativa, è uno di quelle “sentinelle dell’alba” che annunciano un nuovo giorno, un nuovo inizio. Nel nostro mondo abbondano le idee “grandiose”; ma mancano le idee davvero “grandi”, anche se si presentano con le dimensioni di un piccolo seme. Coltivare questo seme, farlo germogliare e crescere, è il compito – quotidiano e paziente, ma non per questo meno “strategico” – di giovani dalla vista lunga, che vogliono vivere per e in un mondo unito, non solo in un mondo globalizzato.  

Le prime elezioni politiche europee

In un certo senso, le elezioni europee del prossimo maggio saranno le prime vere elezioni "politiche" europee. Da quando abbiamo il Parlamento europeo elettivo, la percentuale dei votanti è andata scemando: si era partiti da più del 60% del 1979 per arrivare a poco più del 40% del 2009. L'intensità - e talvolta l'animosità - del dibattito sull'Europa al quale oggi stiamo assistendo, e che non ha precedenti nella storia dell'integrazione europea, potrà produrre una più elevata partecipazione al voto? È possibile, ma non è chiaro il senso che tale partecipazione assumerebbe: sembrerebbero prevalere, infatti, i giudizi critici sull'Europa attuale, e quindi è possibile l'ingresso nell'Europarlamento non solo di euroscettici, ma anche di veri e propri "eurodemolitori". Cerchiamo però di mantenere un minimo di lucidità, anche nella gravità della crisi che sconvolge il tessuto sociale europeo, e che coinvolge anzitutto i giovani senza lavoro. Il problema, a ben guardare, non è l'Unione Europea in quanto tale, ma le sue politiche in campo economico-monetario; anzi, direi che il vero nodo è l'assenza di una vera politica economica europea. L'Europa non soffre di una crisi di legittimità - le sue deboli istituzioni non costituiscono certo una sorta di Leviatano continentale - ma di una crisi di consenso.  Si sente dire che l'Europa è solo un'unione economica e non politica: magari! L'unione economica implicherebbe, ad esempio, un unico ministro dell'economia, e non 18 (come nell'Eurozona) o 28 (come nel Consiglio economia e finanza). Abbiamo, oltre alla moneta unica, un mercato unico, le quattro libertà di circolazione (senz'altro delle merci e dei capitali, meno delle persone - specie nel caso dei lavoratori - e dei servizi). Ma dov'è la politica economica unica? In situazioni di crisi, occorrerebbe mettere insieme le risorse per rilanciare su nuove basi lo sviluppo, non - ad esempio - farsi concorrenza con sistemi fiscali nazionali differenziati.  Paradossalmente, tutte le risposte alle questioni più stringenti - come una politica europea dell'energia, dell'immigrazione, della ricerca -  verrebbero da una maggiore integrazione, non dalla disintegrazione di ciò che abbiamo faticosamente costruito. I movimenti anti-europeisti fanno balenare come un toccasana il ritorno alle piccole patrie, l'uscita dall'euro. Ma già adesso l'Unione Europea fa fatica a stare decentemente in un mondo di paesi emergenti: e non parliamo solo di Brasile, India, Russia, Cina e Sudafrica ma, in prospettiva, anche di Messico, Indonesia, Nigeria, Turchia. Senza parlare delle crisi alle sue frontiere (Siria, Ucraina). Ed è un'ironia della storia che molte aree del pianeta guardino proprio all'Unione Europea come a un superamento di distruttive e ataviche rivalità nazionali proprio quando noi siamo tentati di disfarci di un'Europa integrata o di fermare il processo di condivisione di sovranità. Perché di questo si tratta, non di "perdere" i brandelli di sovranità nazionale che ancora restano in piedi in un mondo globalizzato. Come afferma Bauman, il problema è che oggi il potere (Macht) si è "liberato" della politica (Politik): lo dimostra, ad esempio, lo strapotere dei mercati finanziari, che si farebbero beffe delle scozie, delle catalogne, delle repubbliche venete o genovesi ancor più di quanto già ora prescindano dagli staterelli pseudo-nazionali europei. Le prossime elezioni europee saranno cruciali perchè permetteranno di mettere in campo, finalmente, la "politica", e non solo le "politiche" settoriali europee. Qualunque cosa si pensi dell'Europa, vale la pena dibatterne, confrontarsi civilmente, anche da posizioni opposte; ma non commettiamo errori di cui la storia, ma soprattutto le donne e gli uomini del nostro continente, potrebbe un domani chiedeci di pagare il conto. Non mi esalta particolarmente lo slogan "più Italia in Europa"; sarebbe invece il caso, ora, di più "Unione Europea" in Europa! 

Il G7, la Crimea e l'anti-storia

Il recente vertice del G7, nonostante l'atteggiamento russo teso a minimizzarne il significato, costituisce, in realtà, un momento di ri-definizione della cosiddetta "governance globale". In quanto gruppo informale, e non vera "istituzione internazionale", il G8 è costituito, in fondo, da "auto-nominati" e se ne diventa membri in base a cooptazione. Proprio questo suo carattere destrutturato aveva consentito, con la fine della Guerra Fredda, di invitare la Russia a farne parte, senza troppe complicazioni. Tuttavia, nella sostanza, la Russia non si era mai fino in fondo integrata in un gruppo che –  ricordiamolo – è nato per favorire il coordinamento tra le principali potenze industriali che adottano sistemi economici e politici di tipo occidentale. Dopo gli entusiasmi iniziali, ben presto si era dovuto prendere atto che su molte questioni di politica internazionale, e in particolare nell'ambito della sicurezza, la Russia andava per conto suo. Da questo punto di vista, il G7 non è mai diventato davvero G8.  Tuttavia la partecipazione della Russia era legata alla prospettiva di una ripartenza nella collaborazione tra Mosca e Washington dopo la caduta del Muro di Berlino. Da questo punto di vista, la trasformazione del G7 in G8 aveva assunto un valore politico e simbolico importante. Per questo motivo, benché il Ministro degli esteri russo Lavrov abbia dichiarato che “non è una tragedia” per la Russia non far più parte del gruppo, ciononostante si tratta di un’involuzione rilevante, che ha anch’essa un valore altamente simbolico. Inoltre, dopo l’annessione della Crimea la percezione della Russia sul piano internazionale non sarà più la stessa; in qualche modo, l’effetto negativo in termini di “legittimità” internazionale della mossa di Mosca è paragonabile, per le conseguenze a lungo termine, all’intervento americano in Iraq nel 2003. L’onda lunga di quella decisione unilaterale presa dall’Amministrazione Bush cambiò per oltre un decennio la “reputazione” degli USA non solo nel mondo arabo-islamico, ma su scala globale. Allo stesso modo, le ripercussioni dell’annessione della Crimea si faranno sentire non solo in Europa Orientale, ma in tutta l’Eurasia (compreso il Caucaso) e a livello mondiale. Nel mondo contemporaneo non contano più solo il potere militare o economico; conta altrettanto, e in modo strutturale, l’identità di un Paese in quanto membro responsabile e affidabile della comunità internazionale. Non è un caso che Europa e Stati Uniti abbiano avviato una riflessione concreta sulla riduzione della dipendenza da Mosca per le risorse energetiche (che è reciproca: l’ottanta percento delle forniture russe è acquistata dall’Europa!). In prospettiva, la questione della Crimea costringerà gli Stati Uniti a ri-focalizzarsi sull’Europa, e non solo sull’Asia come area di interesse strategico ed economico per Washington. Una prova di questo rinnovato interesse è data dal rilancio del negoziato per la conclusione di un grande accordo di libero scambio e cooperazione economica tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti (il TTIP - Transatlantic Trade and Investment Partnership). E’ presto, forse, per parlare di una nuova Guerra Fredda; siamo piuttosto in una fase di “transizione di potere” a livello mondiale, e in questo riallineamento la Russia non appare come una vera e propria “potenza emergente”, nonostante faccia parte del gruppo dei BRICS (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica). Come avvenuto per Washington, anche Mosca dovrà fare i conti con cambiamenti strutturali; le ambizioni egemoniche, come sempre, non possono prescindere dalle reali capacità e soprattutto con dalla loro sostenibilità pratica e politica. Nel merito, l’annessione della Crimea rappresenta un residuo della decrepita idea che a ogni stato debba corrispondere una ed una sola nazione, e cioè una popolazione omogenea in quanto a lingua, etnia, tradizioni, ecc. Dal Trattato di Versailles in poi, si tratta di un’illusione – quella della perfetta coincidenza tra “stati” e “nazioni” – che ha provocato solo tragedie umane e politiche. Se vogliamo, era più moderna, paradossalmente, la struttura multinazionale dell’Impero Romano o la Respublica Christiana del Medioevo. Leggere un buon libro di storia internazionale, a Mosca come a Washington, non farebbe male.

Iparchi elpida

“Iparchi elpida!” – C’è speranza! Questo lo slogan che mi accoglie ad Atene, nella centralissima piazza Syntagma, ove si svolge un’ordinata e colorata manifestazione di un movimento evangelico. La mobilitazione provocata dalla crisi ha anche queste dimensioni, se vogliamo un po’ millenariste, oltre a quelle della protesta violenta o dei cortei organizzati. Molto meglio, ovviamente, delle ronde razziste di Alba Dorata, la formazione di estrema destra che continua a compiere incursioni di stampo in perfetto stile squadrista, complendo prevalentemente gli immigrati in nome della “purezza” etnica e di un nazionalismo aberrante.
Torno ad Atene a vent’anni di distanza da un’esperienza professionale quadriennale, e trovo una città molto cambiata. Paradossalmente, il cambiamento è avvenuto nella direzione del miglioramento: un nuovo e moderno aeroporto, grandi arterie stradali, una efficientissima e ramificata metropolitana, nuove infrastrutture sportive e di accoglienza. Il risultato degli ingenti investimenti compiuti per l’organizzazione dei Giochi Olimpici di Atene del 2004. Si tratta, lo so, di un’impressione superficiale. Nella città c’è un clima dimesso, molti negozi hanno chiuso nonostante l’industria del turismo, che rappresenta ancora oggi una fonte di reddito per molte aree del Paese. C’è poi una desolante e eloquente proliferazione dell’accattonaggio, che colpisce persone di tutte le età e etnie, compresi molti giovani greci. L’argomento del giorno è la chiusura della televisione nazionale greca, la ERT (2656 posti di lavoro a rischio): una controversa decisione assunta dal governo di coalizione che ha provocato l’uscita dalla maggioranza del partito della “sinistra democratica” (DIMAR) e portato alla formazione di un esecutivo sostenuto solo da Nuova Democrazia (centro-destra) e PASOK (centro-sinistra). Una maggioranza a forte rischio, visto che i due partiti hanno solo 153 parlamentari su 300. Come in tutti i Paesi che hanno subito l’impatto dell’austerità, c’è una sostanziale sfiducia nella politica. “Dexià” e “aristerà”, destra e sinistra, “sono tutti uguali” è la risposta standard alla richiesta di un parere sul governo e sui partiti.

Vista da Atene, la crisi greca e la tormentata vicenda della “troika” (Fondo Monetario Internazionale, Commissione Europea e Banca Centrale Europea) sembrano il risultato di una colossale miopia. La disoccupazione ha raggiunto in Grecia la cifra record del 27%, mentre quella giovanile viaggia intorno al 64%; ciononostante, come condizione per assegnare una nuova tranche di aiuti da più di 8 miliardi di euro, si è chiesto alla Grecia di mettere in mobilità (in sostanza, fuori del mercato del lavoro) ben 12.500 impiegati del settore pubblico, senza che vengano offerte prospettive di ricollocazione.  D’altra parte, il senso dell’appartenenza alla storia europea è molto forte; il restauro in corso del Partenone, sull’Acropoli, è il simbolo di questo legame e anche della voglia di riscatto del popolo greco. Come è stato possibile, viene da chiedersi, anche solo ipotizzare di “perdere la Grecia”? Quali meccanismi inesorabili dell’economia e della tecnocrazia hanno reso plausibile l’impensabile, e cioè un’Unione Europea che decide di abbandonare la Grecia al suo destino? Ironia della sorte, la Grecia gestisce nel primo semestre del 2014 la presidenza di turno del Consiglio dell’Unione Europea. Mentre visito il nuovo e modernissimo museo dell’Acropoli, con le sue meraviglie, mi viene in mente che l’Europa ha un debito con la Grecia. Il fregio del Partenone si trova, per vicende storiche, al British Musuem. Sarebbe un gesto di immenso valore restituirlo alla Grecia; un gesto simbolico di una solidarietà europea che sembra essere svanita con la logica dei mercati finanziari e l’assillo dello spread.