Sergio Romano e il declino dell'impero americano

Quando si scriverà la storia dei primi decenni del XXI secolo, una data sarà probabilmente considerata dirimente. Solitamente si pensa all'11 settembre 2011, e cioè all'attacco alle Torri Gemelle a New York e al Pentagono a Washington da parte dell'organizzazione terroristica di Al Qaeda. Tuttavia l'evento veramente caratterizzante delle vicende internazionali degli ultimi anni è l'invasione americana dell'Iraq nel 2003. Considerata l'apoteosi dell'egemonia statunitense, quell’avventura bellica, i cui effetti - come testimoniano i fatti delle ultime settimane in Iraq - sono tutt'altro che esauriti, segnò invece l'inizio del declino americano sulla scena globale.
Tale scelta sconsiderata segna la negazione, nella pratica, dell'immagine del "Leviatano liberale", che per il politologo Ikenberry rappresenta la principale funzione degli Stati Uniti nel mondo, in quanto creatori di un ordine basato sulle istituzioni internazionali e sull’influenza positiva nel sistema internazionale delle democrazie liberali. 
Per Sergio Romano (Il declino dell'impero americano, Longanesi, Milano 2014) la crisi dell'ordine mondiale americano è cominciata a Kabul nel 2001 e a Baghdad nel 2003, "ma diviene ancora più evidente quando i più vecchi e fedeli alleati degli Stati Uniti - l'Arabia Saudita, Israele, la Turchia, il Giappone, alcuni Paesi europei e latinoamericani - lanciano segnali di fastidio e cominciano a fare scelte politiche che danno per scontato il declino della potenza americana". 
Romano traccia con grande nitore analitico le grandi linee della politica estera americana a partire dalla Seconda Guerra Mondiale. Romano propone un'interpretazione della proiezione internazionale degli Stati Uniti attraverso la categoria dell'impero, depurata però sia delle caratterizzazioni più rozzamente "imperialistiche", sia di quelle ingenuamente "provvidenzialistiche". Gli Stati Uniti non appaiono né come i dominatori del mondo, né come i suoi salvatori. Se è vero che gli Stati Uniti si sono fatti promotori in alcuni casi della giustizia mondiale, è anche vero che non hanno ratificato, ad esempio, il Tribunale penale internazionale, "perché ciò che è utile e desiderabile per gli altri - scrive Romano con un giudizio forse troppo severo - non è utile e desiderabile per sé stessa". 
Molto più realisticamente, Romano sostiene che gli Stati Uniti abbiano coltivato, sin dalla loro origine, la convinzione di possedere uno standard etico-politico più avanzato rispetto al resto del mondo e che tale circostanza li obbligasse ad assumere, anche da soli, la guida del mondo occidentale o "libero". In tal senso, per seguire Romano, la parola "isolazionismo" fa rima con unilateralismo. Le vicende dell’ultimo quarto di secolo dopo al fine della Guerra fredda mostrano, per la verità, un’immagine complessa del ruolo degli Stati Uniti: basti pensare alla ricerca del consenso internazionale nel caso dell’intervento per liberare il Kuwait invaso da Saddam Hussein nel 1991, o all’intervento nella ex-Jugoslavia dinanzi all’ignavia europea, alla apertura di credito offerta alle Primavere arabe dal 2010. 
In ogni caso, Romano descrive con grande lucidità la fine (a volte convulsa) della cosiddetta pax americana, cioè al ruolo degli Stati Uniti come garante di ultima istanza dell’ordine mondiale. Questo esito è in parte deliberato, ma sostanzialmente costituisce una conseguenza necessaria della riduzione delle capacità di intervento, sia a motivo della insostenibilità economica (specie dopo la crisi finanziaria del 2008) sia in ragione della insostenibilità politica (un’opinione pubblica americana assai oggi più preoccupata del fronte interno che di quello internazionale). Sullo sfondo, si svolge una transizione ben più importante persino della traslazione di potere verso l’Asia, ed è di tipo concettuale: gli Stati Uniti dovranno rendersi conto che, se essi sono la “nazione indispensabile”, come disse Madeleine Albright, oggi tutte le nazioni sono “indispensabili” per affrontare insieme le sfide globali. E’ sintomatico che un libro sul declino americano si concluda con una sorta di appello all’Europa, affinché si decida a presentarsi al mondo con “un governo comune”. Altrimenti – prevede Romano - l’era post-americana si popolerà solo di nuove potenze, tutte extraeuropee. Un limite di quest’analisi? Troppo centrata sulla nozione di potere, sia militare che economico, nella tradizione del pensiero “realista” delle relazioni internazionali. Non è detto che questo “realismo” serva davvero, oggi, a comprendere la complessità del mondo.