Kant e il "diritto di visita"

Gilbert Achcar, politologo francese di origine libanese, nonche' professore di politica e relazioni internazionali in Francia, ha pubblicato sul "Manifesto" del 29.3.2009 un articolo che, nella tradizione della "filosofia pubblica" (come direbbe Bobbio) affronta in un'ottica kantiana il complesso tema delle migrazioni e della "risposta" dei Paesi occidentali a un fenomeno che, senza retorica, e' davvero epocale. Nel suo scritto Per la pace perpetua, Kant inserisce il "diritto di visita" di altri Paesi a favore di tutti gli stranieri, in una prospettiva cosmopolita ed universalista. Tuttavia Kant, nel proporre una sorta di versione ante litteram e mondializzata del sistema Schengen (che ha caratterizzato una delle conquiste piu' significative dei Paesi europei, legata alla libera circolazione delle persone) riflette su un fenomeno che solo gli andamenti demografici della fine del XX secolo e dell'inizio del XXI hanno rivelato in tutta la sua problematicita' e direi persino nella sua drammaticita'. E' importante notare che Kant non parla del "diritto di accoglienza" ne' di un "diritto di residenza" a cui lo straniero possa appellarsi, che comportano invece una serie di regole e prescrizioni. Nelle parole di Kant, il "diritto di accoglienza" a favore dello straniero richiederebbe "un particolare e benevolo accordo per farlo diventare per un certo periodo un abitante della stessa casa". E' da osservare inoltre che - precisa Kant - in questo caso "non e' in discussione la filantropia, ma il diritto, e allora ospitalita' significa il diritto che uno straniero ha di non essere trattato come un nemico a causa del suo arrivo sulla terra di un altro". Ancora - continua il nostro contemporaneo Immanuel Kant - il diritto di visita spetta a tutti gli uomini "in virtu' del diritto della proprieta' comune della superficie terrestre". Il diritto di visita non puo' essere rifiutato, secondo Kant, qualora un simile rifiuto comporti la distruzione (untergang)dello straniero. Dunque, e' il dilemma etico-politico non solo rispetto ai richiedenti asilo, ma anche rispetto a quanti fuggono da condizioni di vita disperate, suscettibili di portarli alla morte. Inoltre, oggi i diversi aspetti della mobilita' su scala globale si vanno ricongiungedo nella misura in cui, ad esempio, l'opposizione all'immigrazione (talvolta anche a quella "legale") coinvolge il regime dei controlli preventivi, dei visti e di una precisa categorizzazione delle nazionalita' sulla base della loro "affidabilita'" proprio in relazione alle intenzioni di "stabilimento" in un altro Paese. La questione e' materia di riflessione filosofica sin da quando lo stesso Kant introdusse un sistema giuridico-politico a tre livelli: lo ius civitatis (nazionale), lo ius gentium (internazionale) e lo ius cosmopoliticum (transnazionale). Quello che accade oggi e' l'intrecciarsi ed il sovrapporsi di queste tre dimensioni della vita pubblica sul pianeta. Nell'acuta analisi di Seyla Benhabib (Cittadini globali) il diritto di ospitalita' "e' situato ai confini della comunita' politica: delimita lo spazio civico regolando le relazioni tra i suoi membri, gli stranieri e le comunita' circoscritte. Occupa quello spazio che sta tra i diritti umani e i diritti politici e civili, tra i diritti di umanita' che risiedono nella nostra persona e i diritti che ci spettano in quanto cittadini di Stati particolari". In particolare, le migrazioni transnazionali "concernono - scrive la Benhabib -i diritti degli individui non in quanto membri di concrete comunita' circoscritte, ma simpliciter in quanto esseri umani, che entrano in contatto con comunita' territorialmente delimitate, cercano di entrarvi o ambiscono a diventarne membri". E' un tema talmente cruciale che la Benhabib non esita ad effermare che il sistema degli Stati moderni e' intrappolato tra la sovranita' e l'ospitalita'. Un invito alla lettura di Kant, quindi; nel frattempo, ecco il testo di Achcar, che, come abbiamo visto, puo' avviare una riflessione ben piu' ampia che non spicciole polemiche d'attualita' sul tema serissimo delle migrazioni. In particolare, Achcar propone l'adozione di un vero (e non "mediatico" e virtuale) Piano Marshall per creare nei Paesi di provenienza dei piu' ingenti flussi migratori condizioni di vita degne della persona umana, tali da non costringere milioni di uomini e donne ad abbandonare la propria terra alla ricerca di un mondo migliore, che tuttavia spesso si rivela deludente se non addirittura tragico. Come sempre, vale per tutti noi la regola che prima di avviare campagne politiche (o, peggio, securitarie e persino militari) sarebbe bene leggere prima qualche buon libro.
Il centro di identificazione ed espulsione di immigranti «illegali» a Lampedusa è diventato il simbolo del trattamento riservato ai «boat people» del continente africano da parte della fortezza Europa. Questa «illegalità» degli immigranti non è ciò che viene proclamato o fatto passare attraverso formule come «stranieri in situazione irregolare». E’ un`illegalità decretata in virtù di una categorizzazione frutto di un`Europa che ha quasi abolito l`immigrazione «legale» delle persone provenienti dal continente africano. Non si tratta della violazione da parte di persone internate di una legalità rispettosa dei diritti umani. Si tratta piuttosto della conseguenza di una negazione dei diritti umani da parte della potenza sovrana. Le persone «trattenute» a Lampedusa, come negli altri centri di detenzione europei, vengono private fin dall`arrivo del «diritto di ospitalità», elemento centrale del diritto cosmopolita, quello che Emmanuel Kant definiva «il diritto dello straniero, una volta arrivato in un territorio di altri, a non essere trattato come un nemico». Il «diritto di visita», ossia il diritto alla libera circolazione, che l`Europa riconosce ai cittadini dei paesi ricchi accolti senza bisogno di visto, viene negato ai cittadini dei paesi poveri - quegli stessi paesi che aveva annesso come colonie, solo qualche decennio fa, assoggettandone le popolazioni. Certo, il diritto di visita non equivale a un diritto d`accoglienza, come spiegava Kant, cioè il visitatore non può invocare il diritto di stabilirsi nel paese visitato e di beneficiare dei vantaggi riservati agli autoctoni. Notiamo tuttavia che quanti sono contrari al diritto all`immigrazione in virtù di questa distinzione non fanno in generale nulla affinché sia effettivamente riconosciuto il diritto di visita, o «il diritto di ospitalità». Inoltre, per i cittadini di paesi africani non si tratta di un diritto d`accoglienza generico - che pure viene riconosciuto de facto ai cittadini dei paesi ricchi. Per questi ultimi, lo fa con il pretesto di una reciprocità che pure non viene accettata come condizione sufficiente nel caso dei paesi poveri, che accorderebbero volentieri un diritto d`accoglienza reciproco agli europei. Si tratta piuttosto di un diritto alla riparazione, in compensazione del saccheggio del continente africano da parte degli europei, tanto sottoforma del saccheggio diretto esercitato durante il lungo calvario coloniale che sotto forma del saccheggio indiretto per mezzo dello scambio ineguale a partire dalla decolonizzazione Un saccheggio e una soggiogazione che hanno creato il «sotto-sviluppo», come condizione durevole di cui l`Africa, come il resto del mondo già colonizzato, possono difficilmente uscire attraverso i loro soli sforzi nel quadro di un sistema mondiale di essenza gerarchica. In riparazione del lungo saccheggio e dei crimini contro l`umanità che l`Europa e le sue propaggini nelle Americhe hanno commesso nei confronti dei paesi e delle popolazioni dei continenti colonizzati, la giustizia elementare esige la combinazione di due azioni: un diritto di visita senza restrizioni per i cittadini dei continenti più poveri (oltre che il rigido rispetto del diritto d`asilo per i perseguitati) e un piano massiccio di finanziamento dello sviluppo e di trasferimento di tecnologia agli ex paesi colonizzati, accompagnato dalla formazione massiccia dei loro cittadini, sia all`interno dei paesi interessati che in Europa. Non potendo riconoscere un diritto d`accoglienza agli ex colonizzati, ossia l`obbligo di fornire loro un lavoro o un reddito minimo, l`Europa ha il dovere di fornire a questi paesi un aiuto massiccio, e non le misere briciole che concede loro oggi per farli uscire dal sottosviluppo. Ponendo come uniche condizioni a questo aiuto massiccio il rispetto dei diritti umani e la democrazia, l`Europa finirebbe per realizzare quella «missione civilizzatrice» che si era ipocritamente attribuita quando imponeva il suo barbaro giogo alle colonie. Lo sviluppo delle ex colonie è l`unico modo, giusto ed efficace, di ridurre l`emorragia umana di questi paesi - un`emorragia tanto più grave in quanto coloro che emigrano sono in maggioranza persone utili allo sviluppo locale. Un Piano Marshall perle ex colonie sarebbe nello stesso interesse dell`Europa e dell`umanità tutta. In questi tempi di grave crisi dell`economia mondiale - una crisi che molti ritengono tanto profonda, se non di più, della Grande depressione tra la prima e la seconda guerra mondiale ci sono due vie certe d`uscita: o una nuova guerra mondiale come quella che ha messo fine alla depressione degli anni Trenta, strada fortunatamente impossibile perché annienterebbe l`umanità; oppure «una guerra contro la povertà» su scala mondiale, uno sforzo della stessa ampiezza di una guerra mondiale, e non la buffonata così battezzata da Tony Blair e dai suoi pari - una «guerra» molto particolare, dal momento che dovrebbe cominciare dalla riduzione massiccia delle spese militari e dalla loro riconversione per lo sviluppo mondiale. Un`Europa che ritrovasse gli antichi livelli di crescita potrebbe poi accogliere di nuovo le masse di immigrati del terzo mondo che la sua demografia rende indispensabili al suo sviluppo.

Dialogare con il nemico? (parte seconda)

Nel dibattito in corso sulla questione dell'approccio da avere nei confronti del nemico "politico", mi sono ricordato del post del 14 gennaio del blog di Enrico Franceschini, giornalista di "Repubblica", nel quale riferiva di un ipotetico parallelo ("cum grano salis") che Jonathan Freedland, uno dei commentari più validi del "Guardian", ha proposto tra la tattica usata verso l'I.R.A. ("Irish Republican Army", l’esercito clandestino degli indipendentisti cattolici in Irlanda del Nord) e quella che dovrebbe essere adottata nel caso di Hamas. La questione è divenuta attuale a seguito della pubblica esortazione che Gerry Adams, leader dello Sinn Fein, il braccio politico dell’Ira (che non è più un esercito, avendo deposto e in parte smantellato le sue armi), ha rivolto a Israele e ai palestinesi, inclusi quelli di Hamas, ad iniziare un dialogo per la pace, sull’esempio di quanto fatto da cattolici e protestanti in Irlanda del Nord. Dove dopo trent’anni di guerra e migliaia di morti - osservava Franceschini - oggi le due parti governano insieme e il conflitto, sebbene non ancora del tutto risolto (i cattolici sperano un giorno di riunificarsi con il resto dell’Irlanda, i protestanti vogliono rimanere parte della Gran Bretagna) è finito dal punto di vista militare e della violenza. Personalmente nutro parecchi dubbi che le due situazioni siano persino comparabili, men che meno che si possa applicare lo stesso metodo. Ma la prospettiva merita un'attenta valutazione. L'articolo comunque dà correttamente conto dell'impostazione di Freedland, che è problematica più che superficialmente risolutiva, ed in ogni caso inserisce un ulteriore elemento di riflessione, perché nei conflitti e nei percorsi per uscirne non bisogna dare nulla per scontato né basarsi sui luoghi comuni o sullo scetticismo sistematico (che talvolta è tutto, fuorché "realistico", come pretende invece presuntuosamente di essere):
Naturalmente, scrive Freedland, i due conflitti non sono uguali. Per dirne una, osserva, per quante azioni militari la Gran Bretagna abbia lanciato contro l’Ira, non ha mai bombardato Belfast con l’aviazione o distrutto un intero edificio perchè nelle fondamenta potevano nascondersi dei combattenti nemici. Ma hanno anche parecchie somiglianze: un territorio conteso, la questione religiosa, quella demografica. Ciò detto, quali lezioni trarre per il Medio Oriente dal negoziato di pace concluso positivamente, con la mediazione di Tony Blair, nel 1999 in Irlanda del Nord?
1) Israele - scrive Freedland - dovrebbe fare, come prima mossa, una solenne dichiarazione d’intenti, analoga a quella con cui il governo britannico nel 1990 annunciò di non avere interessi strategici o economici per mantenere il possesso dell’Ulster, l’altro nome con cui viene identificata l’Irlanda del Nord. In fondo basterebbe che un premier israeliano ripetesse quello che l’attuale premier Olmert ha detto in settembre in un’intervista, ma in modo formale e ufficiale in un messaggio ai palestinesi: la pace avverà solo con la restituzione delle terre occupate nel ‘67.
2) La seconda mossa, continua il columnist del Guardian, dovrebbe essere la reciproca ammissione delle due parti che non esiste una soluzione militare al conflitto. La strada verso la pace in Ulster cominciò quando Londra riconobbe che combattere contro l’Ira poteva portare al massimo a un “onorevole pareggio”, e quando l’Ira comprese che a forza di bombe non avrebbe costretto le truppe britanniche al ritiro. In Medio Oriente, allo stesso modo, Hamas deve riconoscere che attacchi suicidi e razzi ritarderanno la fine dell’occupazione, anzichè accelerarla, e Israele deve capire che un movimento popolare come Hamas non può essere sconfitto con la sola forza.
3) Terzo: Israele dovrebbe citare il precedente dell’Ira, dicendo che non può negoziare con Hamas finchè Hamas non cessa la violenza. I cattolici repubblicani irlandesi infatti non ottennero un posto al tavolo delle trattative finchè non accettarono di perseguire i propri scopi unicamente con mezzi pacifici. Ma quale è il consiglio, rivela Freedland, dato dai membri dell’Ira che hanno incontrato dirigenti di Hamas? “Mantenete unito il movimento”. Ossia non dividetevi tra chi è pronto a riconoscere Israele e chi no, altrimenti nascerebbe soltanto una nuova Hamas. Essi ritengono che l’intero movimento vada lentamente sospinto verso la trattativa, dapprima attraverso un dialopgo indiretto con coloro al suo interno che sono più favorevoli ad avviarla: in questo modo, se e quando Hamas accetterà i metodi pacifici, tutto il movimento sarà costretto a rispettare l’accordo.
4) La quarta regola da ricordare è che ogni compromesso, lungo la strada della pace, deve ricevere un premio. Questo è sempre accaduto nei confronti dell’Ira da parte britannica, e se non accadrà con i palestinesi e/o con Hamas, i fautori della pace perderanno la faccia. In tal senso è stato un grave errore da parte israeliana, conclude il commentatore del Guardian, ritirarsi unilaterlamente da Gaza tre anni fa: se ci fosse stato un ufficiale passaggio delle consegne da Israele ad Al Fatah, il partito del presidente Abu Mazen avrebbe potuto incassare agli occhi della popolazione il merito della liberazione. Così invece al Fatah non ha potuto incassare niente, e il merito se lo sono avocato Hamas e i suoi kamikaze.

Hamas tra politica e violenza


L'amica Paola Caridi, che vive a Gerusalemme, ha presentato ieri, 23marzo, all'Universita' di Roma Tre, il suo libro Hamas. Che cos'e' e cosa vuole il movimento radicale palestinese, edito da Feltrinelli. Paola ha compiuto un meticoloso lavoro di ricerca, con molte fonti documentali dirette. Si tratta, come lei stessa spiega, di un lavoro svolto con lo spirito di chi studia - senza pregiudizi e senza simpatie - la storia di un movimento politico, secondo il metodo di Paolo Spriano, alla cui scuola Paola si e' formata. Un contributo essenziale per dissipare la cortina fumogena che circonda un movimento, gia' di per se' opaco, nel quale si combinano il ricorso alla violenza sotto forma di atti terroristici ed un dibattito politico interno insospettabile e indecifrabile se ci si limita a navigare sulla superficie delle poche informazioni che trapelano su Hamas. Una storia per molti versi paradossale e inquietante, con sviluppi che spesso violano il principio di non-contraddizione, perche' al contempo inevitabili e determinati, e indotti o accelerati dall'esterno. Una storia che rivela pero' anche - che ci piaccia o no - un radicamento sociale e un'articolazione politica che sorprendono e inquietano. Insomma, in ogni caso, un libro che vale la pena di leggere. Ne riporto i brani finali, che mi sembrano rivelatori di quest'approccio che tiene conto sia della pericolosa ambivalenza che della complessita' del fenomeno Hamas. La tesi di fondo di Paola e' che l'accesso al potere di Hamas, dopo le elezioni del gennaio 2006 ed il successivo "colpo di stato" a Gaza, non rimane senza infuenza e conseguenze sulle fattezze del movimento, la cui evoluzione o involuzione futura dipendera' proprio dal prevalere o dall'arenarsi di questo coinvolgimento nell'agone politico, come avvenuto nel caso di altre formazioni che hanno progressivamente abbandonato l'opzione terroristica e accettato il confronto sul terreno negoziale ed in termini realistici. C'e' da augurarselo.
Ha ragione, insomma, chi sostiene che i movimenti radicali delle aree di crisi, quelle che hanno insito nella ragione della propria nascita il dualismo resistenza-politica, rivoluzione-politica, non possano non entrare - prima o poi - nella cornice negoziale, nell'alveo di una dialettica sostenibile con le istituzioni. E’ successo nella realta’ irlandese, dove la completa politicizzazione del binomio Sinn Fein-Ira non è stato un percorso semplice, anche se nel ricordo il tempo ha reso piu’ tenui e morbidi i colori di quella storia, invero molto dura e per nulla lineare ne scevra da difficolta’ che allora sembrarono insormontabili. E’ successo, dunque, nel cuore di un'Europa che, invece, era tutto sommato pacificata, ed è avvenuto in contesti decisamente piu’ complessi, come il teatro africano. Dal percorso verso il potere seguito dall'Anc sudafricano, alla cooptazione della Renamo, la resistenza conservatrice mozambicana, spinta nell'alveo politico dai negoziati di pace condotti dalla Comunita’ di Sant'Egidio, quando le armi ancora parlavano e la questione del riconoscimento della Renamo era tabu’ per alcune cancellerie. La totale politicizzazione di un movimento che usa le armi e ricorre al terrorismo non segue mai una linea retta, né è privo di fasi nelle quali si torna indietro alla scelta armata. Il definitivo salto al di qua della barricata è responsabilita’ prima dei diretti protagonisti, ma non è mai ininfluente il contesto, in questo caso il conflitto. Ne' è ininfluente il peso di chi è gia’ presente sulla scena, attorno ai principali contendenti. Dalle differenti anime del mondo arabo, e del Medio Oriente nella definizione piu’ ampia. All'Unione europea, ancora opaca nella sua abilita’ di attore della politica mediterranea. Sino agli Stati Uniti che si affacciano alla regione con un nuovo segno e una nuova immagine, quella obamiana. Gli ultimi anni di Hamas hanno insomma dimostrato che la discussione sulla partecipazione politica e' stata troppo intensa e diffusa per poter essere considerata solo una parentesi. L’ingresso nel potere ha, con la forza della realta’, cambiato qualcosa dentro Hamas, anche se non e' ancora possibile delineare con precisione quanto, in quali termini, per quanto tempo. Perche la storia del movimento islamista non si puo’ ritagliare, come una figurina, e incollarla su Gaza, come se la Striscia fosse veramente il luogo entro il quale l'esistenza di Hamas si conchiude. La storia del movimento islamista e’ dentro Gaza e dentro la Cisgiordania, ed e’ per questo che non la si puo’ staccare da un processo ancora in atto nella politica palestinese, e dove la transizione del dopo-Arafat e la comparsa, sulla scena istituzionale, di élite diverse da quelle che avevano gestito il processo di Oslo. Quelle élite sono tutte dentro una dimensione nazionale, e per "nazionale" si intende proprio quella Palestina entro i confini della Linea verde, formata da Cisgiordania, Gaza e Gerusalemme Est. Una dimensione nazionale che potrebbe sembrare in contraddizione con la presenza, a Damasco, di una dirigenza islamista cosi’ influente sulla Hamas che si trova all'interno dei Territori occupati e cosi’ legata al mondo dei profughi del 1948 e del 1967. Eppure, anche quella leadership dell'estero fonda la sua dimensione nazionale sulla Palestina dell'Anp, come un dato di fatto consolidato, ed è di quella Palestina dell'Anp - con tutto cio’ che comporta anche dal punto di vista dei programmi politici - che non puo’ piu’ fare a meno. Né prescindere.

Fortezze o Siepi?


Il Financial Times pubblica oggi un fondo nel quale si affronta con grande serietà ed equilibrio il tema degli immigrati irregolari, della crisi economica globale e delle tendenze verso una progressiva chiusura (sia nel senso dei mercati che dei flussi migratori) che si manifestano in molti Paesi sviluppati. In particolare, si afferma (citando l'esempio spagnolo) che la legalizzazione degli immigrati irregolari fà si che sia possibile intervenire successivamente con incentivi per favorirne il libero e volontario ritorno in patria nei momenti di crisi economica (specie per quanto riguarda i lavoratori non-specializzati), per poi poterli far rientrare quanto la domanda di lavoro riprende a livelli elevati. Dopo tutto - scrive il Financial Times - i lavoratori immigrati sono stati accolti quando l'economia era in fase di espansione; non si può ora addossare solo su di loro il peso della crisi, e provocare ulteriore sofferenza umana.
Nel riportare l'articolo qui di seguito, segnalo anche che il Parlamento di Strasburgo ha lanciato una campagna per invitare gli elettori europei a partecipare ("usa il tuo voto") alle elezioni europee del 6-7 giugno. Interessante uno dei manifesti che saranno utilizzati (riportato in alto), che ci pone l'alternativa tra un'Europa difesa da fortezze ed un'Europa dai confini precisi ma non asserragliata nelle sue paure.
Menaced migrants
The countries at the heart of the boom, such as the US, the UK and Spain, attracted not just capital but also people from around the globe. The good times ended abruptly – leaving governments with the challenge of managing people who came for jobs that were once plentiful but that locals are now desperate to secure.
The boom pulled in workers at all levels, from finance experts to manual workers, to the benefit of all. Mexicans filled the ranks of a US construction sector in breakneck expansion. In Spain, rural Andalucians found better jobs in the city, leaving harvesting behind for Ecuadoreans, Moroccans and Romanians. Remittances flowed back to immigrants’ home countries.Today immigrants are blamed for vanishing jobs and falling incomes. As frustrations mount, tensions are becoming explosive. Politicians must therefore tread very carefully. They have no choice but to take seriously the social troubles that can arise between locals and immigrants, but must not pour petrol on the fire of anti-immigrant attitudes. Governments should be honest when there is little they can do. The European Union requires open borders with only limited delay. Even where the law limits immigration, restrictions are not fully enforceable. US nativists dream of an impenetrable border fence along the Rio Grande – a delusion when Mexicans prefer the perils of illegal immigration to continued misery at home. But politicians seem compelled to conjure an illusion of control. As the FT reported this week, Congress slipped into US bank rescue laws a limit on banks’ access to visas for skilled foreign staff – discouraging companies from participating in the policies intended to end the crisis. Such pandering to nationalism helps no one. It deprives the US of talent, extinguishes some people’s dreams and fosters an illusion that the world is a zero-sum game. It may also provoke retaliation.Collapsed labour markets flooded by unskilled migrants should be addressed with encouragement rather than force. With jobs scarcer, fewer will immigrate and more will go home; governments can support this process. Spain has offered monetary incentives for migrants to depart, for example. Letting illegal immigrants formalise their status makes it easier to give them incentives to leave, especially if they are allowed to return when labour demand is again high. This would also be in the interests of host countries, which after all welcomed the immigrants in boom times. They should not now push the pain of the bust on to them in ways that cause suffering.

Una Regione senza "clandestini"


Il Presidente della Regione Toscana, Claudio Martini, ha condiviso l'idea, lanciata tempo fa dal "Gruppo giornalisti contro il razzismo", di bandire la parola "clandestino". Sembrerebbe che l'impegno si estenda anche alla Regione in quanto Ente pubblico e quindi a tutti gli atti legislativi ed amministrativi. Ma vedremo. Martini ha evocato il tema a Firenze, a margine del convegno organizzato dalla Regione Toscana sul tema "Immigrati, una risorsa scoperta", all'Istituto degli Innocenti. Per Martini, occorre adottare una sorta di "ecologia del linguaggio", ed eliminare un termine palesemente inappropriato. Sono persone - ha spiegato Martini -che vivono e lavorano alla luce del sole. Clandestino si riferisce a qualcosa di nascosto, ad un'attivita' che si compie in segreto. Il termine e' molto usato nei mass media ed evoca un concetto negativo, segretezza, vivere nell'ombra, avere legami con criminalita'. In Toscana le persone che hanno fatto domanda di regolarizzazione con l'ultima apertura delle quote per Paesi di provenienza sono state quasi 47mila; soltanto 13mila hanno avuto una risposta positiva. Cio' significa - ha aggiunto Martini - che 34mila sarebbero virtualmente "clandestini", quando invece si tratta di tante persone che [trovandosi già in Italia] lavorano come badanti, nell'edilizia, nelle concerie. Sono persone che, in fondo, si sono "autodenunciate" ma che, a causa delle quote limitate, non possono sperare in una regolarizzazione.

La saggezza di Concepción


Ho conosciuto anch’io, durante gli anni di Washington (2002-2006), l’attivista politica più tenace degli Stati Uniti, di cui oggi riferisce anche la France Presse. Sarò un ingenuo, ma ammetto che ogni volta che le passavo accanto ne ricevevo una dosa di ottimismo, nonostante la sua condizione difficile. Mi trasmetteva fiducia nell’umanità, anche in un momento in cui imperversava la guerra in Iraq e il terrorismo colpiva a tutte le latitudini. E’ la vicina più prossima di Barack Obama e lo è stata anche dei quattro presidenti che lo hanno preceduto (Reagan, Bush padre, Clinton, Bush figlio). Da 28 anni, Concepción Picciotto, una “pacifista di strada”, protesta davanti alla Casa Bianca contro le armi nucleari e la guerra, accompagnata per un lungo periodo anche dal suo “collega”, William Thomas, scomparso di recente, il 23 gennaio 2009. I suoi scarni dati biografici sono riportati da Wikipedia. Nata nel 1945, nota anche come Conchita, Connie e persino Concetta, vive in Lafayette Square, sul lato opposto alla Casa Bianca, all’altezza del numero 1600 di Pennsylvania Avenue a Washington, dal primo agosto 1981. Nata Concepción Martín in Spagna, a Vigo, a 18 anni emigrò negli Stati Uniti, ed ha lavorato presso istituzioni spagnole a New York. Si innamorò di un uomo d’affari italiano, sposandolo quando aveva 21 anni. Successivamente, a seguito di una causa di separazione, perse la casa, il lavoro e la custodia di sua figlia. La Picciotto appare brevemente anche nel film di Michael Moore Fahrenheit 9/11.(2004). Ammette con realismo ma senza demordere di avere poche speranze di cambiamento radicale rispetto alla lotta di tutta una vita: la fine di ogni guerra e l’interdizione delle armi atomiche. Tuttavia non ci pensa nemmeno di mollare. Per inciso, ha anche vinto una causa contro gli Stati Uniti: i dettagli, per i curiosi, al seguente indirizzo internet: http://cases.justia.com/us-court-of-appeals/F2/875/345/179993/. Mentre alcuni la considerano poco piu’ di un fenomeno folcloristico, una sorta di attrazione turistica, altri la prendono molto piu’ sul serio, ritenendola un simbolo vivente di resistenza ai poteri forti ed al militarismo, un esempio di democrazia popolare. Su dei grandi cartoni Concepción scrive i suoi messaggi per la pace.
Uno mi pare particolarmente attuale, nel momento in cui ci si appresta, nei circoli diplomatici, a lanciare una revisione del trattato per la non proliferazione nucleare, e prendono corpo tesi che ritengono necessario anche una graduale riduzione degli arsenali nucleari, che oltretutto diventano sempre più pericolosi, anche per il rischio che possano cadere nelle mani di malintenzionati e di formazioni terroriste. “Mettete al bando tutte le armi nucleari oppure...buona fine del mondo!”

Dialogare con il nemico? (parte prima)

Mi ha molto interessato l'articolo di Bernardo Valli, pubblicato oggi da "Repubblica". Al di là dell'analisi puntuale della nuova politica americana nei confronti di interlocutori "ostici" nel "Medio Oriente allargato", Valli solleva un tema di grande complessità, e cioè il dilemma se "parlare" o meno con il nemico, ed i connessi rischi di una "legittimazione", per quanto involontaria. Il problema riguarda soprattutto - ma non solo - le organizzazioni terroristiche (o definite tali) e quelle che a loro volta non "riconoscono" l'interlocutore, sia nel senso della sua legittimità che in quello della sua stessa esistenza. Si tratta di un argomento vivacemente dibattuto non solo negli ambienti politico-diplomatici, ma che rappresenta anche un filone di approfondimento politico-filosofico ed etico sul quale mi riprometto di tornare in altre successive note.
L’offensiva diplomatica americana si precisa, e si concretizza, in tutto il Medio Oriente, secondo il razionale, generoso principio espresso da Barack Obama nel discorso inaugurale. "Noi vi tenderemo la mano se aprirete il vostro pugno". In altre parole: se si dimostrano disponibili, noi offriamo agli avversari la possibilità di trattare. Pochi, tra i vecchi nemici non ancora amici, sono esclusi dall`offerta. Il passato non è cancellato, puo` essere archiviato. L`offensiva si muove in direzioni fin o a ieri improbabili, se non proprio impensabili: i Taliban in Afghanistan, il regime siriano, l`Iran khomeinista, Hamas in Palestina, e naturalmente l`Iraq, che gli americani vorrebbero abbandonare o dove vorrebbero ridurre al più presto il loro intervento militare. Un tempo, nell`epoca Bush, quasi tutti questi soggetti meritavano soltanto maledizioni, scomuniche, minacce, interventi armati. Non sempre immeritati. Il nuovo e (ripeto) razionale principio si riassume in un interrogativo: con chi si tratta, se non con gli avversari? Ovviamente Al Qaeda resta fuori da questo panorama: Bin Laden e i suoi devono rispondere dell`11 settembre e di tanti altri delitti. I loro misfatti non possono essere archiviati. Si tratta anche col demonio. Ok! Ma c`è demonio e demonio. L`offensiva diplomatica abbraccia l`intera regione, tra l`Asia centrale e il Vicino Oriente, perché le crisi, alimentate dall`odio e della violenza, sia pure distinte, hanno tanti punti in comune. L`Iran aiuta i Taliban che operano in Afghanistan e gli uomini di Hamas che governano a Gaza; è inoltre il padrino degli Hezbollah libanesi, i quali sono sciiti come gli iraniani; ed esercita una forte influenza sul governo, in larga parte sciita, di Bagdad, alleato sempre meno docile degli americani. La Siria è un alleato storico dell`Iran e ospita i capi di Hamas in esilio. II dramma palestinese tiene vivo il rancore del mondo arabo e in generale musulmano nei confronti dell`Occidente, dei quale Israele sarebbe per loro un`emanazione. Comincio da Hamas, il movimento islamico che controlla Gaza, e con il quale nessun occidentale, e ancor meno Israele, si dichiara disposto a negoziare direttamente, perché non ha rinunciato al terrorismo e rifiuta di riconoscere lo Stato di Israele. Nonostante questi vistosi ostacoli, è già iniziata un`operazione diplomatica di aggiramento, con l`obiettivo di recuperare Hamas, sempre nella speranza di rinsavirlo. Di condurlo alla ragione. Non possono essere interpretate altrimentì le dimissioni di Salam Fayyad da primo ministro del governo dell`Autorità palestinese a Ramallah, opposto a quello di Gaza controllato da Hamas. Rifiutato da Hamas e considerato un uomo vicino agli americani (che tra l`altro addestrano le forze di sicurezza dell`Autorità palestinese) Salam Fayyad era considerato uno dei principali ostacoli a una riconciliazione con Gaza e alla formazione di un esecutivo di unione nazionale. Il ritiro volontario (ancora da precisare) di Fayyad dovrebbe aiutare le discussioni in corso, cui partecipano gli egiziani e su cui gli americani contano per ridar vita a seri negoziati tra israeliani e palestinesi. La diplomazia americana punta dunque su un recupero di Hamas, e, stando tra le quinte, favorisce le trattative, al punto da sacrificare Fayyad. Se queste trattative prendessero una piega positiva, si potrebbero tra l`altro sbloccare gli aiuti per la ricostruzione di Gaza, che, stando alla politica d`oggi, non possono essere affidati soltanto a Hamas. Mentre è in corso questa operazione, i rapporti tra l`amministrazione Obama e Israele conoscono alcune difficoltà. Si tratta di screzi che non mettono in discussione la salda, irrinunciabile alleanza tra la superpotenza e lo Stato ebraico, ma essendo nuovi, direi inediti, preannunciano rapporti meno facili che nel passato. Durante la sua visita a Ramallah, Hillary Clinton ha detto che la demolizione di case arabe a Gerusalemme Est «non aiuta il processo di pace». La frase del neosegretario di Stato ha indispettito il sindaco di Gerusalemme, Nir Barkat, il quale l`ha definita «aria fritta» e l`ha attribuita all`atteggiamento della nuova amministrazione di Washington. L`ambasciata americana ha protestato definendo le parole del sindaco «un insulto» al capo della diplomazia degli Stati Uniti. Il governo di Gerusalemme si è scusato. L`incidente, insolito, anzi unico, unito alle pressioni diplomatiche affinché gli israeliani non espandano le loro colonie nei territori occupati (quattro passi ufficiali sarebbero stati compiuti in questo senso dall`ambasciata Usa), rivela appunto rapporti meno facili tra Washington e Gerusalemme. Un tempo Washington si adeguava alle volontà di Gerusalemme. Ora Gerusalemme dovrà tener conto della politica di Washington. E questo accade ancora prima che si installi il nuovo governo di destra, il cui primo ministro per ora incaricato, Benjamin Netanyahu, non prevede la nascita di uno Stato palestinese. Nascita invece ufficialmente auspicata dagli Stati Uniti. Anche un dialogo con i Taliban sembrava un insormontabile tabù. Adesso Barak Obama non lo esclude. Il generale David Petraeus, oggi responsabile militare della regione, forté della sua esperienza in Iraq, aveva già suggerito di prendere contatti coni Taliban «moderati». A Bagdad, Petraeus era riuscito a separare gli insorti saddamisti, ossia laici e nazionalisti, superstiti del vecchio esercito dissolto dagli americani, dalle organizzazioni islamiche integraliste, collegate ad Al Qaeda e composte da molti stranieri, provenienti dai paesi arabi. La scissione è in gran parte riuscita ed è stata decisiva. Nonostante gli attentati continuino, come dimostra la strage di ieri, il governo di Bagdad dispone adesso di truppe abbastanza efficaci da sostituire gli americani in molti settori. E questo consente agli Stati Uniti di alleggerire, sia pur non senza rischi, la loro presenza militare. In Afghanistan fu commesso un errore. L`intervento americano del 2001 non sconfisse del tutto i taliban, molti dei quali, rifugiatisi in Pakistan, hanno avuto il tempo di rafforzarsi e di ritornare poi in patria. In un conflitto osi distrugge definitivamente il nemico o si tratta con lui. In Afghanistan non avvenne niente dí questo Fu adottata una strategia perdente. Ora si cercherà, forse già lo si tenta, di agganciare i Taliban moderati. Esistono? Soltanto nel deserto non esiste destra e sinistra. E l`Afghanistan non è soltanto deserto. Lo stesso vale nel molto più sofisticato Iran, dove integralisti e riformisti si scontrano politicamente, nella lotta per il potere, e si differenziano nel linguaggio. Non tutti gli ayatollah ripetono le bestemmie, le insensatezze, del loro presidente contro Israele. O vogliono sfidare il mondo costruendo armi atomiche. Con la pazienza del saggio, che saprà essere intransigente, duro, se il pugno iraniano non si aprirà, Barak Obama ha invitato Teheran a partecipare alla conferenza sull`Afghanistan. Ha invitato gli avversari, i nemici. Con i quali si deve trattare. Con gli amici non ce ne è bisogno. Si parla. Lo stesso vale per la Siria, dove gli inviati di Obama sono già al lavoro. Siamo ancora ai primi passi. Ai primi approcci. Nulla è garantito. Ma si deve tentare. Anche perché le minacce, le scomuniche, le maledizioni, i morti hanno dato soltanto minacce, maledizioni, scomuniche e morti.

Gerusalemme, la città veramente globale

Enrico Molinaro is is founder, organizer, and fundraiser of the non-profit association Mediterranean Perspectives, and Primary Coordinator of international scholarly conferences with the participation of academic, diplomatic, religious and political authorities. He lectures at Luiss University’s Doctoral Program of Political Theory, and at La Sapienza University’s Master Program of International Protection of Human Rights in Rome, Italy. He has also authored the book Negotiating Jerusalem (Passia, 2002).

“A well-researched book that displays profound insight into the unique legal regime of the Status Quo at the Holy Places. Dr. Molinaro is to be congratulated for having written an authoritative and readable account. Courageously, he has not shrunk from rightly setting the question of the Holy Places into their wider context of diplomacy, philosophy, and politics. He has produced an outstanding legal-historical analysis with great relevance for the future of Jerusalem.” Professor Raymond Cohen (Chaim Weizmann Professor of International Relations, Hebrew University of Jerusalem, and Corcoran Visiting Professor of Christian–Jewish Learning, Boston College), author of Saving the Holy Sepulchre. “To forecast peace in the Palestinian territories may seem like a dream, but we, Europeans, are striving in all possible ways to see that dream realized. One of the best ways to do this is to conduct a thorough investigation of the details concerning Jerusalem’s Holy Places, where three religious faiths meet and too often collide. This is what Dr. Enrico Molinaro has done in a really outstanding book full of useful suggestions. This is a book which is strongly recommended for those seeking to fully understand the historical and legal specifics of the situation in and around Jerusalem.” Luigi Ferrari Bravo, Professor of International Law, University of Rome, Former Judge of the International Court of Justice. Throughout history, Jerusalem and its Holy Places have been the objects of fierce religious controversy over worship rights, such as the Holy Sepulchre inter-Christian disputes and the Har Ha Bait/Haram Al Sharif (Temple Mount/Noble Sanctuary) Israeli–Jewish/Palestinian-Muslim disputes. This multidisciplinary study offers two competing political ways of interpreting these disputes and the Arab–Israeli conflict in general: the state/national (territorial) perspective focuses on Israelis and Palestinians as the two main groups entitled to possession of and worship in Jerusalem’s Holy Places; the global/transnational perspective, on the other hand, entitles millions of Jews, Christians, Muslims and their respective clergy worldwide to raise claims to the city’s Holy Places as universal symbols of devotion and worship. This work provides international law practitioners and Middle East scholars with a thorough overview of the legal, historical and diplomatic interpretation of the provisions embodied in the international documents adopted in the Middle East Peace Process. In addition to applying the legal notion of international local custom, this study provides three alternative terms to express the three different meanings of sovereignty namely, independence, authority and title. Based on his work’s methodology and conclusions, the author has initiated second track meetings behind closed doors between Israelis and Palestinians, which have resulted in a political–diplomatic data-base. Those seeking a deeper understanding of the intricate legal terminology surrounding Jerusalem will find the main results produced by these meetings to be of particular interest, such as The Guidelines for a Jerusalem Statute, wherein both parties share cultural–religious principles towards building a better coexistence in Jerusalem (Annex III), and The Glossary of historically complex terms such as Status Quo and Holy Places (Annex IV).

Indonesia, unita' nella diversita'

Ho partecipato lo scorso 4 marzo alla Conferenza “Unita' nella diversita'. Il modello indonesiano per una societa' del convivere”, organizzata congiuntamente dal Ministero degli Esteri e dalla Comunita' di Sant’Egidio. E’ intervenuto anche il Ministro degli Esteri indonesiano, Wirajuda.
L’Indonesia – si legge nella sintesi predisposta dagli organizzatori - è un Paese di circa 240 milioni di abitanti, di cui 190 milioni sono di religione musulmana. E’ un tentativo di coniugare democrazia, Islam e modernizzazione. E il quarto Paese al mondo per peso demografico e la terza economia dell’Asia per PIL. L’Indonesia è considerata un esempio di convivenza interetnica e interreligiosa e un modello di Islam non integralista. Cio’ si spiega storicamente con le modalità pacifiche con le quali il credo musulmano, seguendo le rotte commerciali, approdò nel Paese, dando vita ad un processo di assimilazione non coercitivo e inclusivo; la sua originalità risiede anche nella tradizione secolare dello Stato indonesiano fondato sulla dottrina della Pancasila e nel ruolo svolto dalla società civile e dalle grandi organizzazioni islamiche moderate, profondamente radicate nella società (Nahdlatul Ulama e Muhammadiyah che raccolgono, insieme, circa 70 milioni di fedeli laici) nel veicolare il senso di appartenenza all’Islam, consentendo alla religione di compiere un cammino parallelo alle istituzioni, senza sostituirsi ad esse. Unita’ nella diversita’ (Bhinneka Tunggal Ika in lingua indonesiana), e’ il motto nazionale scelto sin dai giorni dell’indipendenza dell’Indonesia dal dominio olandese. Un motto che racchiude la principale sfida combattuta dal Paese negli ultimi sessanta anni: tenere unita una miriade di isole, opporre l’unita’ alle spinte centrifughe delle componenti assetate di liberta’. Un motto che pone la potenza e la necessita’ del valore del pluralismo al centro del futuro del Paese, un pluralismo inteso come mantenimento di una tradizione di rispetto della diversita’, di ricerca di un’armonia, di capacita’ di accoglienza per il patrimonio culturale, religioso, etnico delle sue componenti.

Tommaso d'Aquino e il dialogo con l'Islam

Segnalo un evento - di cui ho avuto notizia proprio grazie all'indicazione di un lettore di questo blog - dedicato a un precoce araldo del dialogo, tutt'altro che relativista, di nome Tommaso d'Aquino. Si tratta di un convegno su "Tommaso d'Aquino e il dialogo con l'Islam" (dettagli in fondo). Di stupefacente (e consolante) attualita'. Scrivono i promotori:

L'evento si inserisce nel quadro di un dibattito di grande attualità: il dialogo tra cristiani e musulmani nella società contemporanea. Un dialogo che a sua volta presuppone questioni più generali: Qual e' il ruolo della religione nella società? La religione e un fattore di unione o di divisione? Quale equilibrio tra fede e ragione? Quale equilibrio tra identità cristiana e dialogo? S. Tommaso offre un messaggio universale e sempre attuale: "Non guardare chi e colui che parla, ma tieni a mente ciò che di buono egli dice". E in queste parole che si può leggere fino in fondo a liberta' di spirito e di pensiero dell'Aquinate. Tommaso d'Aquino e' stato un tenace difensore delle verità di fede cristiana. Al tempo stesso, sul piano filosofico, l'Aquinate rappresenta un punto di riferimento del pensiero universale non solo "per il contenuto della sua dottrina, ma anche per il rapporto dialogico che egli seppe instaurare con il pensiero arabo ed ebreo del suo tempo" (Giovanni Paolo II, Lett. enc. Fides et ratio, 43). Un "rapporto dialogico" che rende Tommaso d'Aquino, non soltanto, il Doctor Communis Ecclesiae, ma il "Doctor Humanitatis, perché sempre pronto a recepire i valori di tutte le culture" (Discorso ai partecipanti all 'VIII Congresso Tomistico Internazionale, 13 settembre 1980). Tommaso d' Aquino seppe dialogare virtualmente con i pensatori arabi come Avicenna e Averroè in una fase storica molto concitata. Sempre fedele al Magistero della Chiesa, l’Aquinate ripropose il pensiero di Aristotele, creando perciò un ponte culturale tra oriente e occidente, tra Atene e Gerusalemme, tra la fede biblica e l'interrogarsi greco. Pur prendendo le distanze dall'averroismo latino - condannato dal Vescovo di Parigi Etienne Tempier nel 1270 -egli studiava con onestà intellettuale e citava Averroè e i commentatori arabi di Aristotele. L'Aquinate è perciò un Santo e Dottore della Chiesa, e al tempo stesso un uomo del dialogo tra Dio e l'uomo, tra fede e ragione, e tra le diverse culture.


CONFERENZA “TOMMASO D’AQUINO E IL DIALOGO CON L'ISLAM” (Aquino, 7 marzo 2009 - Chiesa di S. Maria della Libera, ore 15).Interviene P. Joseph Ellul, OP, della Pontificia Università San Tommaso d'Aquino (PUST) di Roma. Il dibattito sara' moderato da Mons. Lluís Clavell, già Rettore della Pontificia Università della Santa Croce (PUST) di Roma, Consigliere della Pontificia Accademia di San Tommaso d'Aquino e Membro della Società Internazionale Tommaso d'Aquino (SITA).L'evento e' promosso dal Circolo S. Tommaso d'Aquino, che ha sede ad Aquino e ha come scopo la promozione della figura e del pensiero di S. Tommaso mediante attività di natura culturale, tra le quali l'organizzazione di incontri e la pubblicazione di Quaderni Aquinati, e l'offerta di borse di studio a studenti di tutto il mondo per ricerche sulla vita e l'opera di Tommaso d'Aquino. L'incontro si svolge sotto l'alto patrocinio del ‘Progetto Culturale’ della Conferenza Episcopale Italiana, del Pontificio Istituto di Studi Arabi e d'Islamistica (PISAI), della Società Internazionale Tommaso d'Aquino (SITA) e della Banca Popolare del Cassinate.