Obama, l'Europa, la primavera araba

Quale “posto” occupa l’Europa nella politica estera americana? Il segretario di stato, Hillary Clinton, alla sua prima audizione in Senato, affermò che gli Stati Uniti sono senza dubbio una “potenza transatlantica”, ma questo non impedisce che essi siano anche una potenza “trans-pacifica” (intendendo la necessità di dedicare una nuova attenzione all’Asia ed alle sue potenze emergenti, India e Cina). Dunque, l’atteggiamento degli USA nei riguardi dell’Europa è cambiato? In un certo senso, si. Gli Americani non sono più troppo desiderosi di parlare dell’Europa, e nemmeno vogliono solo limitarsi a parlare agli Europei. In un mondo in veloce trasformazione, vorrebbero parlare delle cose da fare con l’Europa sul piano globale.
Dalla crisi finanziaria del 2008 ad oggi, il problema non è stato il rapporto tra Europa e Stati Uniti, ma la definizione di un’agenda comune. E dobbiamo ammettere che in molte circostanze l’Europa è rimasta un passo indietro. Come nel caso degli “stimoli” all’economia, fortemente voluti da Obama, ma visti dagli Europei – già troppo indebitati, come dimostra la crisi dell’Euro – come un pericolo per la stabilità finanziaria. In occasione del recente vertice G8 tenutosi in Francia, l’Europa è sembrata “inseguire” Obama nel suo programma di sostegno alla “primavera araba” che, almeno sulla carta, prevede 2 miliardi di dollari di sostegno allo sviluppo economico (settore privato, piccole e medie imprese) oltre alla cancellazione del debito egiziano verso gli Stati Uniti (1 miliardo di dollari). E pensare che il “nocciolo” politico delle iniziative che gli Stati Uniti intendono lanciare a sostegno delle transizioni democratiche nel mediterraneo e nel medio oriente riguarda un settore in cui l’Europa potrebbe eccellere: vale a dire, rapporti interuniversitari, tra centri di ricerca, tra intellettuali e tra organizzazioni della società civile. Obama dimostra di credere nell’apertura dei sistemi politici del mondo arabo; l’Europa pure, ma con troppe “note a pie’ pagina”. Bisogna passare dal “credere nell’apertura” ad una “apertura di credito”.

Osama e Obama

Non bisogna farsi illusioni. L’uccisione di Osama Bin Laden nel corso di un’incursione di forze USA ad Abbottabad, a nord di Islamabad, è un duro colpo ad Al Qaeda, ma non rappresenta certo la sconfitta definitiva del terrorismo transnazionale che fa capo a tale organizzazione. Nel corso del decennio successivo agli attentati dell’11 settembre 2001 Al Qaeda si è trasformata, è diventata un network di piccole cellule sparse sul globo, che fanno un uso spregiudicato di Internet. Il modello “occidentale” è quello del franchising. Si conferma, inoltre, quello che molti analisti e commentatori hanno sempre pensato, e cioè che la vasta area compresa tra i confini di Pakistan e Afghanistan (al di qua e al di la della famosa “Durand line”) è un territorio di coltura del terrorismo islamista e ove si compie la saldatura tra alcune frange dei Talebani e Al Qaeda. Come dire che le chiavi della stabilità e della transizione politica in Afghanistan stanno in Pakistan. L’uccisione di Bin Laden avrà ripercussioni profonde a livello globale. Da una parte, essa indubbiamente “scoraggia” le formazioni islamiste dedite al terrorismo (una sparuta e deleteria minoranza in tutto il vasto mondo islamico), dall’altro potrebbe fungere – ma speriamo non accada - da ulteriore elemento di polarizzazione e radicalizzazione contro l’Occidente. Dal punto di vista americano, è una vittoria di Obama. Qualcuno potrebbe cinicamente ritenere che si tratta di un enorme ed insperato aiuto alla campagna per la sua rielezione alla Casa Bianca. Ma Obama ha fatto bene, nelle ore successive all’incursione in Pakistan, ad evitare toni eccessivamente trionfalistici e a ribadire che l’America non è contro l’Islam, bensì contro le centrali del terrorismo internazionale. Non aiutano, tuttavia, le scene di giubilo che si sono viste nelle strade americane. Si comprende il dolore immenso dei familiari delle vittime dell’11 settembre, ma non bisogna oltrepassare il fragile confine tra la giustizia e la vendetta. La morte di un uomo, per quanto efferati i crimini commessi, non può mai essere motivo di celebrazione.