Una sola famiglia umana

Messaggio di Benedetto XVI per la Giornata del migrante 2011:
La Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato offre l'opportunità, per tutta la Chiesa, di riflettere su un tema legato al crescente fenomeno della migrazione, di pregare affinché i cuori si aprano all'accoglienza cristiana e di operare perché crescano nel mondo la giustizia e la carità, colonne per la costruzione di una pace autentica e duratura. "Come io ho amato voi, così amatevi anche voi gli uni gli altri" (Gv 13,34) è l'invito che il Signore ci rivolge con forza e ci rinnova costantemente: se il Padre ci chiama ad essere figli amati nel suo Figlio prediletto, ci chiama anche a riconoscerci tutti come fratelli in Cristo.
Da questo legame profondo tra tutti gli esseri umani nasce il tema che ho scelto quest'anno per la nostra riflessione: "Una sola famiglia umana", una sola famiglia di fratelli e sorelle in società che si fanno sempre più multietniche e interculturali, dove anche le persone di varie religioni sono spinte al dialogo, perché si possa trovare una serena e fruttuosa convivenza nel rispetto delle legittime differenze. Il Concilio Vaticano II afferma che "tutti i popoli costituiscono una sola comunità. Essi hanno una sola origine poiché Dio ha fatto abitare l'intero genere umano su tutta la faccia della terra (cfr At 17,26); essi hanno anche un solo fine ultimo, Dio, del quale la provvidenza, la testimonianza di bontà e il disegno di salvezza si estendono a tutti" (Dich. Nostra aetate, 1). Così, noi "non viviamo gli uni accanto agli altri per caso; stiamo tutti percorrendo uno stesso cammino come uomini e quindi come fratelli e sorelle" (Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2008, 6).
La strada è la stessa, quella della vita, ma le situazioni che attraversiamo in questo percorso sono diverse: molti devono affrontare la difficile esperienza della migrazione, nelle sue diverse espressioni: interne o internazionali, permanenti o stagionali, economiche o politiche, volontarie o forzate. In vari casi la partenza dal proprio Paese è spinta da diverse forme di persecuzione, così che la fuga diventa necessaria. Il fenomeno stesso della globalizzazione, poi, caratteristico della nostra epoca, non è solo un processo socio-economico, ma comporta anche "un'umanità che diviene sempre più interconnessa", superando confini geografici e culturali. A questo proposito, la Chiesa non cessa di ricordare che il senso profondo di questo processo epocale e il suo criterio etico fondamentale sono dati proprio dall'unità della famiglia umana e dal suo sviluppo nel bene (cfr Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 42). Tutti, dunque, fanno parte di una sola famiglia, migranti e popolazioni locali che li accolgono, e tutti hanno lo stesso diritto ad usufruire dei beni della terra, la cui destinazione è universale, come insegna la dottrina sociale della Chiesa. Qui trovano fondamento la solidarietà e la condivisione.
"In una società in via di globalizzazione, il bene comune e l'impegno per esso non possono non assumere le dimensioni dell'intera famiglia umana, vale a dire della comunità dei popoli e delle Nazioni, così da dare forma di unità e di pace alla città dell'uomo, e renderla in qualche misura anticipazione prefiguratrice della città senza barriere di Dio" (Benedetto XVI, Enc. Caritas in veritate, 7). È questa la prospettiva con cui guardare anche la realtà delle migrazioni. Infatti, come già osservava il Servo di Dio Paolo VI, "la mancanza di fraternità tra gli uomini e tra i popoli" è causa profonda del sottosviluppo (Enc. Populorum progressio, 66) e - possiamo aggiungere - incide fortemente sul fenomeno migratorio. La fraternità umana è l'esperienza, a volte sorprendente, di una relazione che accomuna, di un legame profondo con l'altro, differente da me, basato sul semplice fatto di essere uomini. Assunta e vissuta responsabilmente, essa alimenta una vita di comunione e condivisione con tutti, in particolare con i migranti; sostiene la donazione di sé agli altri, al loro bene, al bene di tutti, nella comunità politica locale, nazionale e mondiale.
Il Venerabile Giovanni Paolo II, in occasione di questa stessa Giornata celebrata nel 2001, sottolineò che "[il bene comune universale] abbraccia l'intera famiglia dei popoli, al di sopra di ogni egoismo nazionalista. È in questo contesto che va considerato il diritto ad emigrare. La Chiesa lo riconosce ad ogni uomo, nel duplice aspetto di possibilità di uscire dal proprio Paese e possibilità di entrare in un altro alla ricerca di migliori condizioni di vita" (Messaggio per la Giornata Mondiale delle Migrazioni 2001, 3; cfr Giovanni XXIII, Enc. Mater et Magistra, 30; Paolo VI, Enc. Octogesima adveniens, 17). Al tempo stesso, gli Stati hanno il diritto di regolare i flussi migratori e di difendere le proprie frontiere, sempre assicurando il rispetto dovuto alla dignità di ciascuna persona umana. Gli immigrati, inoltre, hanno il dovere di integrarsi nel Paese di accoglienza, rispettandone le leggi e l'identità nazionale. "Si tratterà allora di coniugare l'accoglienza che si deve a tutti gli esseri umani, specie se indigenti, con la valutazione delle condizioni indispensabili per una vita dignitosa e pacifica per gli abitanti originari e per quelli sopraggiunti" (Giovanni Paolo II, Messaggio per la Giornata Mondiale della Pace 2001, 13).
In questo contesto, la presenza della Chiesa, quale popolo di Dio in cammino nella storia in mezzo a tutti gli altri popoli, è fonte di fiducia e di speranza. La Chiesa, infatti, è "in Cristo sacramento, ossia segno e strumento dell'intima unione con Dio e dell'unità di tutto il genere umano" (Conc. Ecum. Vat. II, Cost. dogm. Lumen gentium, 1); e, grazie all'azione in essa dello Spirito Santo, "gli sforzi intesi a realizzare la fraternità universale non sono vani" (Idem, Cost. past. Gaudium et spes, 38). È in modo particolare la santa Eucaristia a costituire, nel cuore della Chiesa, una sorgente inesauribile di comunione per l'intera umanità. Grazie ad essa, il Popolo di Dio abbraccia "ogni nazione, tribù, popolo e lingua" (Ap 7,9) non con una sorta di potere sacro, ma con il superiore servizio della carità. In effetti, l'esercizio della carità, specialmente verso i più poveri e deboli, è criterio che prova l'autenticità delle celebrazioni eucaristiche (cfr Giovanni Paolo II, Lett. ap. Mane nobiscum Domine, 28).
Alla luce del tema "Una sola famiglia umana", va considerata specificamente la situazione dei rifugiati e degli altri migranti forzati, che sono una parte rilevante del fenomeno migratorio. Nei confronti di queste persone, che fuggono da violenze e persecuzioni, la Comunità internazionale ha assunto impegni precisi. Il rispetto dei loro diritti, come pure delle giuste preoccupazioni per la sicurezza e la coesione sociale, favoriscono una convivenza stabile ed armoniosa.
Anche nel caso dei migranti forzati la solidarietà si alimenta alla "riserva" di amore che nasce dal considerarci una sola famiglia umana e, per i fedeli cattolici, membri del Corpo Mistico di Cristo: ci troviamo infatti a dipendere gli uni dagli altri, tutti responsabili dei fratelli e delle sorelle in umanità e, per chi crede, nella fede. Come già ebbi occasione di dire, "accogliere i rifugiati e dare loro ospitalità è per tutti un doveroso gesto di umana solidarietà, affinché essi non si sentano isolati a causa dell’intolleranza e del disinteresse" (Udienza Generale del 20 giugno 2007: Insegnamenti II, 1 (2007), 1158). Ciò significa che quanti sono forzati a lasciare le loro case o la loro terra saranno aiutati a trovare un luogo dove vivere in pace e sicurezza, dove lavorare e assumere i diritti e doveri esistenti nel Paese che li accoglie, contribuendo al bene comune, senza dimenticare la dimensione religiosa della vita.
Un particolare pensiero, sempre accompagnato dalla preghiera, vorrei rivolgere infine agli studenti esteri e internazionali, che pure sono una realtà in crescita all’interno del grande fenomeno migratorio. Si tratta di una categoria anche socialmente rilevante in prospettiva del loro rientro, come futuri dirigenti, nei Paesi di origine. Essi costituiscono dei "ponti" culturali ed economici tra questi Paesi e quelli di accoglienza, e tutto ciò va proprio nella direzione di formare "una sola famiglia umana". È questa convinzione che deve sostenere l'impegno a favore degli studenti esteri e accompagnare l'attenzione per i loro problemi concreti, quali le ristrettezze economiche o il disagio di sentirsi soli nell'affrontare un ambiente sociale e universitario molto diverso, come pure le difficoltà di inserimento. A questo proposito, mi piace ricordare che "appartenere ad una comunità universitaria significa stare nel crocevia delle culture che hanno plasmato il mondo moderno" (Giovanni Paolo II, Ai Vescovi Statunitensi delle Provincie ecclesiastiche di Chicago, Indianapolis e Milwaukee in visita "ad limina", 30 maggio 1998, 6: Insegnamenti XXI,1 [1998], 1116). Nella scuola e nell'università si forma la cultura delle nuove generazioni: da queste istituzioni dipende in larga misura la loro capacità di guardare all'umanità come ad una famiglia chiamata ad essere unita nella diversità.
Cari fratelli e sorelle, il mondo dei migranti è vasto e diversificato. Conosce esperienze meravigliose e promettenti, come pure, purtroppo, tante altre drammatiche e indegne dell'uomo e di società che si dicono civili. Per la Chiesa, questa realtà costituisce un segno eloquente dei nostri tempi, che porta in maggiore evidenza la vocazione dell'umanità a formare una sola famiglia, e, al tempo stesso, le difficoltà che, invece di unirla, la dividono e la lacerano. Non perdiamo la speranza, e preghiamo insieme Dio, Padre di tutti, perché ci aiuti ad essere, ciascuno in prima persona, uomini e donne capaci di relazioni fraterne; e, sul piano sociale, politico ed istituzionale, si accrescano la comprensione e la stima reciproca tra i popoli e le culture. Con questi auspici, invocando l'intercessione di Maria Santissima Stella maris, invio di cuore a tutti la Benedizione Apostolica, in modo speciale ai migranti ed ai rifugiati e a quanti operano in questo importante ambito.
(Da Castel Gandolfo, 27 settembre 2010)

Sinodo per il Medio Oriente: una soluzione di pace giusta e definitiva

Dal Messaggio al Popolo di Dio (“Nuntius”) approvato a conclusione del Sinodo delle Chiese del Medio Oriente (23 ottobre 2010)
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3.2 Abbiamo analizzato quanto concerne la situazione sociale e la sicurezza nei nostri paesi del Medio Oriente. Abbiamo avuto coscienza dell’impatto del conflitto israelo-palestinese su tutta la regione, soprattutto sul popolo palestinese che soffre le conseguenze dell’occupazione israeliana: la mancanza di libertà di movimento, il muro di separazione e le barriere militari, i prigionieri politici, la demolizione delle case, la perturbazione della vita economica e sociale e le migliaia di rifugiati. Abbiamo riflettuto sulla sofferenza e l’insicurezza nelle quali vivono gli Israeliani. Abbiamo meditato sulla situazione di Gerusalemme, la Città Santa. Siamo preoccupati delle iniziative unilaterali che rischiano di mutare la sua demografia e il suo statuto. Di fronte a tutto questo, vediamo che una pace giusta e definitiva è l’unico mezzo di salvezza per tutti, per il bene della regione e dei suoi popoli.
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11. I cittadini dei paesi del Medio Oriente interpellano la comunità internazionale, in particolare l’O.N.U., perché essa lavori sinceramente ad una soluzione di pace giusta e definitiva nella regione, e questo attraverso l’applicazione delle risoluzioni del Consiglio di Sicurezza, e attraverso l’adozione delle misure giuridiche necessarie per mettere fine all’Occupazione dei differenti territori arabi.
Il popolo palestinese potrà così avere una patria indipendente e sovrana e vivervi nella dignità e nella stabilità. Lo Stato d’Israele potrà godere della pace e della sicurezza all’interno delle frontiere internazionalmente riconosciute. La Città Santa di Gerusalemme potrà trovare lo statuto giusto che rispetterà il suo carattere particolare, la sua santità, il suo patrimonio religioso per ciascuna delle tre religioni ebraica, cristiana e musulmana. Noi speriamo che la soluzione dei due Stati diventi realtà e non resti un semplice sogno.
L’Iraq potrà mettere fine alle conseguenze della guerra assassina e ristabilire la sicurezza che proteggerà tutti i suoi cittadini con tutte le loro componenti sociali, religiose e nazionali.
Il Libano potrà godere della sua sovranità su tutto il territorio, fortificare l’unità nazionale e continuare la vocazione a essere il modello della convivenza tra cristiani e musulmani, attraverso il dialogo delle culture e delle religioni e la promozione delle libertà pubbliche.
Noi condanniamo la violenza e il terrorismo, di qualunque origine, e qualsiasi estremismo religioso. Condanniamo ogni forma di razzismo, l’antisemitismo, l’anticristianesimo e l'islamofobia e chiamiamo le religioni ad assumere le loro responsabilità nella promozione del dialogo delle culture e delle civiltà nella nostra regione e nel mondo intero.

Trento: da citta' del Concilio a citta' della (ri)-conciliazione

La seconda edizione del seminario internazionale (Trento, 13-14 ottobre 2010), promosso dall’Unità di Analisi del Ministero degli Esteri (da me diretta), dall’ISPI e dalla Provincia di Trento, dedicata al ruolo delle religioni nel mondo globale, ha affrontato il tema del rapporto tra "Religioni e Global Governance". Due le declinazioni della tematica: le condizioni della “human security” come concretizzazione di ogni approccio alla sicurezza internazionale e la questione dei “beni pubblici globali”. Quanto al primo aspetto, il seminario ha consentito di enfatizzare la stretta relazione che intercorre tra “sicurezza umana” o decentrata e sicurezza intesa in senso tradizionale e stato-centrico. Non si può parlare di sicurezza a livello “macro” se non vi sono condizioni di sicurezza minimale per gli individui (micro-livello). Anche casi difficili come l’Afghanistan, affrontati all’inizio sulla base di una concezione di “hard security” non sfuggono a questa regola. In secondo luogo, la sicurezza umana è legata ad una precisa concezione dei diritti della persona (anche volendo tener conto del dibattito sulla origine "occidentale" di tali diritti). E’ questa la ragione che rende incompatibili, in determinati contesti autoritari, la dottrina della sicurezza nazionale con le esigenze imprescindibili della sicurezza umana. In entrambi i casi, le religioni offrono un contributo costruttivo nella misura in cui sottolineano la dimensione della dignità umana come elemento centrale del loro discorso di promozione di migliori condizioni di convivenza e di migliore assetto interno delle comunità. In termini evolutivi, le religioni consentono di arricchire di contenuti il concetto di sicurezza umana espandendo il set di diritti, in modo da operare una fusione tra l’idea di sviluppo in senso economico e quella di sviluppo umano nel senso delle potenzialità individuali in un contesto di libertà e di solidarietà. Rispetto all’idea delle “comunità di sicurezza”, introdotta da Karl Deutsch con riferimento alle alleanze con contenuti politici (come la NATO), le religioni sottolineano un aspetto altrettanto fondamentale, un diverso paradigma, costituito dalla “sicurezza comunitaria”. Rispetto alla “global governance”, le religioni sono chiamate a rendere più universale il “canone” del globalismo riequilibrando i suoi contenuti prevalentemente occidentali. Le grandi religioni mondiali sono portatrici di originali interpretazioni dell’etica sociale, che devono essere incorporate nella “struttura sociale” della nuova governance, se essa intende essere realmente rappresentativa e legittima. Rispetto alle questioni globali propriamente dette (cambiamenti climatici, sicurezza alimentare, migrazioni) il ruolo delle religioni non dovrebbe essere concettualizzato in termini di protagonismo sostitutivo rispetto alle funzioni della politica globale. Al contrario, le religioni dovrebbero integrare il loro ruolo di “providers” di beni pubblici (spesso a favore della sola comunità di appartenenza), come avviene talvolta in alcuni contesti socio-economici e politici interni (le associazioni assistenziali cattoliche, le donazioni nel contesto islamico) assumendo anche quello di “mobilizers” di risorse per porre rimedio a situazioni di sperequazione a livello globale. In questo contesto, la funzione di “advocacy” che i Leaders religiosi assumono in occasione di eventi o vertici internazionali (come il G8 ed il G20) appare estremamente utile e potrebbe essere meglio articolata, rifuggendo tuttavia da ogni tentazione di istituzionalizzazione. Non sono stati trascurati gli aspetti problematici del ruolo delle religioni nel contesto internazionale. Le religioni hanno talvolta preso il posto delle ideologie, non perché siano necessariamente divenute esse stesse “ideologiche”, ma perché chiamate a riempire un vuoto di pensiero “identitario”. Ad esempio, la locuzione di “civiltà giudaico-cristiana” è stata ripristinata con riferimento all’Europa ed all’Occidente in generale solo dopo la fine della Guerra Fredda, poiché gli elementi di identificazione presenti nello scenario bipolare erano di altra natura, e segnatamente di matrice politico-ideologica (mondo libero vs. collettivismo). le religioni sempre di più forniscono e forgiano identità collettive transnazionali, che tuttavia, purché restino "aperte", non necessariamente contrastano con il pluralismo delle opzioni di fede e la libertà religiosa. Tra i due estremi della Torre di Babele e di Cosmopolis deve esserci un ragionevole punto mediano nel quale identità particolari e universalismo dei valori possano incontrarsi. In generale, le religioni hanno mostrato di essere più dinamiche dell'evoluzione del sistema politico internazionale. Al riguardo, è stato osservato che mentre nel G8 non è presente alcun Paese a maggioranza islamica, del G20 fanno parte tre Paesi dell'area islamica, pur diversissimi tra loro quanto a storia, sistema politico-istituzionale e cultura politica, come Turchia, Indonesia e Arabia Saudita. La grande questione, al riguardo, è se la ricerca di una maggiore legittimità della governance informale debba o meno includere anche la diversità religiosa come criterio di definizione dei formati.
Un altro elemento di interesse riguarda il fondamentalismo ed il suo rapporto con le istituzioni. Le cosiddette “strong religions” assumono una preponderanza impropria quando operano nel quadro di “stati deboli”, quando cioè il contesto politico-istituzionale o la cultura politica sono assai fragili. In altri casi, “strong religions” (come il protestantesimo “fondamentalista” americano) possono convivere senza ripercussioni di rilievo con istituzioni forti. Pertanto una strategia per combattere le derive del radicalismo consiste nel rafforzare gradualmente la governance interna, che tuttavia in molti Paesi interessati dal fenomeno è tenuta sotto scacco da regimi politici illiberali. Istituzioni politiche forti, infatti, sono ben diverse da istituzioni politiche oppressive. Tale conclusione sembra sfatare la diffusa convinzione che le aperture democratiche in Paesi semi-autoritari dove vi è una marcata presenza di gruppi religiosi radicali siano inevitabilmente destinate ad aprire la strada a fenomeni di fondamentalismo politico-istituzionale "statalizzato" di tipo regressivo. Nel complesso, la partecipazione al seminario è stata di un livello accademico di assoluta eccellenza, essendo convenuti alcuni specialisti ed operatori che hanno offerto contributi di analisi e di esperienza articolati e profondi. Alla riunione ha preso parte, tra gli altri, Joseph Maila, già capo del "polo religioni" al Ministero degli Esteri francese ed ora direttore della pianificazione strategica. Si segnala inoltre Scott Thomas, autore di un importante articolo per "Foreign Affairs" ("A Globalized God") che sarà pubblicato sul prossimo numero della rivista intitolato "The World Ahead". Inoltre il seminario di Trento si inscrive ormai tra gli appuntamenti più rilevanti dedicati al tema delle religioni come fattori di politica internazionale. Significativa anche la presenza, nelle due edizioni del 2009 e del 2010, di organizzazioni operanti concretamente sul piano del dialogo interreligioso a livello internazionale, come la Comunità di Sant'Egidio, il Movimento dei Focolari, "Religions for Peace", la Fondazione "Oasis". La partecipazione di studiosi e specialisti provenienti da Medio Oriente, India, Turchia ha assicurato un'impostazione non euro-centrica della riflessione e della prospettiva analitica. Ovviamente il pluralismo delle professioni religiose dei partecipanti ( mondo cristiano-ortodosso, protestantesimo, ebraismo, buddismo, induismo, Islam) ha rappresentato, in sé, un valore aggiunto in entrambe le edizioni. Un ulteriore elemento che ha contribuito al successo dell'iniziativa è probabilmente la formula organizzativa utilizzata: vale a dire il formato "non governativo" e la discussione informale. Se è vero infatti che le religioni hanno crescente influenza nelle relazioni internazionali, è anche vero che il relativo dibattito va tenuto accuratamente lontano da prospettive "inter-governative" e politico-diplomatiche tradizionali, e lasciato prevalentemente alle espressioni della società civile (nel caso specifico del dialogo interreligioso, sono esclusivamente le stesse religioni a poterlo realizzare). Sul piano degli sviluppi futuri, va sottolineato che intorno al seminario si sta progressivamente consolidando una rete di giovani studiosi italiani che operano in Italia ed all'estero (come Fabio Petito, Sara Silvestri, Luca Ozzano, Valeria Giannotta, Cristiano Vezzoni, Paolo Frizzi). Incoraggianti, in tal senso, alcune valutazioni ricevute dai partecipanti: "una splendida esperienza, intensa e formativa; sarebbe bello riuscire a raccogliere un gruppo di studiosi che riesca a incontrarsi con una certa continuità e non solo in modo occasionale" ; "uno stimolante e professionale workshop: spero di aver modo di collaborare ancora in futuro, su questo tema”; ''excellent séminaire"; "far more productive than the meeting of the international relations theory association on that subject"; “un incontro che nelle persone, contenuti e modalita' ho trovato tra i migliori a cui ho partecipato negli ultimi anni”.

Guerra o missione di pace?

Afghanistan, guerra o missione di pace? E’ forse dal 2001, dall’inizio delle operazioni militari che molti si pongono questa domanda, trovando risposte spesso contraddittorie o ambigue. Quello che è certo, è che in Afghanistan si combatte. Tuttavia i conflitti di oggi sono molto diversi da quelli classici. Non ci sono in campo eserciti schierati. Spesso i contendenti non sono nemmeno Stati. In Afghanistan l’ONU ha autorizzato una missione tesa a rimuovere una minaccia alla sicurezza internazionale, costituita dal regime talebano, che pianificava e compiva azioni di terrorismo su vasta scala (come per le Torri Gemelle). Per la verità convivono in Afghanistan diverse «missioni»: quella americana («enduring freedom»), più di combattimento «attivo» nei confronti delle roccaforti talebane, e quella NATO-ISAF che, in teoria, dovrebbe rispondere più a criteri di stabilizzazione, di messa in sicurezza della popolazione, di protezione dei centri abitati. Siamo ora arrivati, dopo ben 9 anni di operazioni militari, ad una situazione nella quale è sempre più difficile distinguere i differenti livelli di impegno, anche perché i Talebani portano i loro attacchi verso zone che prima ne sembravano immuni. In questo contesto, ha senso parlare di «bombe» sugli aerei italiani impiegati in Afghanistan? Il punto è che i nostri militari (come tanti altri) sono vittime di azioni subdole, non di azioni di guerra propriamente dette; ad esempio, gli automezzi sono colpiti da ordigni, spesso rudimentali, posti ai lati delle strade e fatti esplodere al passaggio delle colonne. Aumentare il livello degli armamenti non è detto che serva. Anzi, sappiamo tutti che gli attacchi con armamenti pesanti contro piccoli gruppi senza scrupoli, che si nascondono in centri abitati, può produrre vittime innocenti, e dar luogo ad errori macroscopici (come colpire gli invitati ad un matrimonio o i partecipanti ad un funerale: è già accaduto nelle aree sotto responsabilità anglo-americana e nella zona ove operano i Tedeschi). In generale, elevare l’intensità delle operazioni militari mentre lo stesso governo Karzai avvia contatti negoziali con i Talebani corre il rischio di essere una mossa in controtendenza. Una cosa è certa: non esiste «vittoria» militare in Afghanistan. La via d’uscita, la famosa «exit strategy» (e anche la «strategia di transizione») non viene dall’esterno, ma dall’interno dell’Afghanistan, che non può essere lasciato a sé stesso proprio ora, se non altro per la responsabilità che la comunità internazionale ha assunto dopo nove anni di presenza, quale che sia il giudizio che se ne possa dare.

Il Sinodo per il Medio Oriente

A proposito dell'Assemblea Speciale per il Medio Oriente del Sinodo dei Vescovi (Roma, 10 - 24 ottobre 2010).
l crescente rilievo pubblico della religione, anche nel campo delle relazioni internazionali, rende desueto l’approccio fondato sulla rilevanza esclusivamente geo-politica delle chiese cristiane in Medio Oriente, sia latine che orientali.
Appare essenziale, infatti, saper identificare e valorizzare la funzione delle comunità cristiane nei contesti mediorientali, caratterizzati da una parte da conflitti irrisolti, dall’altra da un ritorno del senso religioso nella società che però si manifesta troppo spesso in senso esclusivo e intollerante.
Le comunità cristiane fronteggiano perciò una doppia sfida: quella derivante dalle fratture politiche interne e internazionali nella regione, e quella proveniente dalla nuova assertività di movimenti fondamentalisti e integristi, che spesso tendono a confondere la fede cristiana come una caratterizzazione culturale “dell’occidente”. Da questo punto di vista, in molti contesti le comunità cristiane vivono paradossalmente un’irreale condizione di “estraneità”, pur essendo state storicamente proprio le Chiese orientali i centri propulsori e di irradiazione del cristianesimo.
Le tre direttrici lungo le quali un’analisi politica della presenza cristiana in Medio Oriente dovrebbe articolarsi sono, quindi, la dimensione politico-internazionale (i conflitti aperti o latenti), la dimensione simbolico-identitaria (i caratteri prevalentemente religiosi dei nuovi movimenti sociali) la dimensione democratica (la questione dei diritti e, in particolare, il tema cruciale della libertà religiosa).
Non sono da trascurare anche le differenze di approccio e di sensibilità alle questioni appena elencate da parte delle diverse comunità cristiane, che sono spesso assai gelose delle proprie tradizioni storiche, sicuramente di valore, ma che in determinate situazioni possono rendere ancora più difficile il compito di influenzare positivamente il contesto politico e sociale locale.
Il grande obiettivo della pace non può essere perseguito, nella complessità della situazione mediorientale, se non promuovendo una sinergia tra queste molteplici dimensioni, e dunque articolando una visione complessiva delle sfide da superare e soprattutto del contributo da offrire per ricomporre un tessuto di rapporti interstatali, inter-comunitari e infra-comunitari che presenta gravi lacerazioni, alcune di origine antica, altre più recenti.
Tutti questi nodi sono affrontati con chiarezza e con lungimiranza nel documento di preparazione del Sinodo per il Medio Oriente.
Nell’«Instrumentum Laboris» predisposto per il Sinodo si afferma che «in una regione ove da secoli convivono fedeli di tre religioni monoteiste, per i cristiani è essenziale conoscere bene gli ebrei e i musulmani, per poter collaborare con loro nel campo religioso, sociale e culturale per il bene dell’intera società. La religione, soprattutto di quanti professano un unico Dio, deve diventare sempre di più motivo di pace, di concordia e di comune impegno nella promozione dei valori spirituali e materiali dell’uomo e della comunità.» [4]
Il Sinodo intende «fornire ai cristiani le ragioni della loro presenza in una società prevalentemente musulmana, sia essa araba, turca, iraniana, o ebrea nello Stato d’Israele» [6].
Inoltre, si sviluppa il concetto di «laicità positiva»: «i cattolici devono poter dare il migliore apporto nell’approfondire, insieme agli altri cittadini cristiani ma anche musulmani intellettuali riformisti, il concetto di “laicità positiva” dello Stato. In tal modo, aiuterebbero ad alleviare il carattere teocratico del governo e permetterebbero più uguaglianza tra i cittadini di religioni differenti favorendo così la promozione di una democrazia sana, positivamente laica, che riconosca pienamente il ruolo della religione, anche nella vita pubblica, nel pieno rispetto della distinzione tra gli ordini religioso e temporale.» [25]

Il documento affronta anche «i conflitti politici nella regione», analizzando in particolare alcuni contesti di crisi:
• «L’occupazione israeliana dei territori Palestinesi rende difficile la vita quotidiana per la libertà di movimento, l’economia e la vita sociale e religiosa (accesso ai Luoghi Santi, condizionato da permessi militari accordati agli uni e rifiutati agli altri, per ragioni di sicurezza). Inoltre, alcuni gruppi fondamentalisti cristiani giustificano, basandosi sulle Sacre Scritture, l’ingiustizia politica imposta ai palestinesi, il che rende ancor più delicata la posizione dei cristiani arabi.» [32]
• «In Iraq, la guerra ha scatenato le forze del male nel Paese, all’interno delle correnti politiche e delle confessioni religiose. Essa ha mietuto vittime tra tutti gli iracheni, ma i cristiani sono stati tra i colpiti principali in quanto rappresentano la comunità irachena più esigua e debole. Ancor’oggi la politica mondiale non ne tiene sufficiente conto.» [33]
• «In Libano, i cristiani sono divisi sul piano politico e confessionale e nessuno ha un progetto che possa essere accetto a tutti». [34]
• «In Egitto, la crescita dell’Islam politico, da una parte, e il disimpegno, in parte forzato, dei cristiani nei confronti della società civile, dall’altra, rendono la loro vita esposta a serie difficoltà. Inoltre, questa islamizzazione penetra nelle famiglie anche mediante i mass media e la scuola, modificando le mentalità che, inconsapevolmente, si islamizzano.» [34]
• «In altri Paesi, l’autoritarismo, cioè la dittatura, spinge la popolazione, compresi i cristiani, a sopportare tutto in silenzio per salvare l’essenziale.» [34]
• «In Turchia, il concetto attuale di laicità pone ancora problemi alla piena libertà religiosa del Paese.» [34]

Il dialogo con gli ebrei è definito «essenziale, benché non facile» risentendo del conflitto israelo-palestinese. La Chiesa auspica che «ambedue i popoli possano vivere in pace in una patria che sia la loro, all’interno di confini sicuri ed internazionalmente riconosciuti». Si ribadisce la ferma condanna dell’antisemitismo, sottolineando che «gli attuali atteggiamenti negativi tra popoli arabi e popolo ebreo sembrano piuttosto di carattere politico» e dunque estranei ad ogni discorso ecclesiale.
I cristiani sono chiamati «a portare uno spirito di riconciliazione basata sulla giustizia e l’equità per le due parti. D’altra parte, le Chiese nel Medio Oriente invitano a mantenere la distinzione tra la realtà religiosa e quella politica» [85-94].
Per quanto riguarda i rapporti l’Islam, il documento ribadisce le parole di Benedetto XVI: «Il dialogo interreligioso e interculturale fra cristiani e musulmani non può ridursi ad una scelta stagionale. Esso è infatti una necessità vitale, da cui dipende in gran parte il nostro futuro». Si rileva che «è importante da una parte avere i dialoghi bilaterali – con gli ebrei e con l’Islam – e poi anche il dialogo trilaterale». «Le relazioni tra cristiani e musulmani sono, più o meno spesso, difficili – si legge nel documento - soprattutto per il fatto che i musulmani non fanno distinzione tra religione e politica, il che mette i cristiani nella situazione delicata di non-cittadini, mentre essi sono cittadini di questi Paesi già da ben prima dell’arrivo dell’Islam. La chiave del successo della coesistenza tra cristiani e musulmani dipende dal riconoscere la libertà religiosa e i diritti dell’uomo». «I cristiani sono chiamati … a non isolarsi in ghetti, in atteggiamenti difensivi e di ripiegamento su di sé tipici delle minoranze. Molti fedeli insistono sul fatto che cristiani e musulmani sono chiamati a lavorare assieme per promuovere la giustizia sociale, la pace e la libertà, e difendere i diritti umani e i valori della vita e della famiglia». [95-99].
Nella situazione conflittuale della regione i cristiani sono esortati a promuovere «la pedagogia della pace»: si tratta di una via «realistica, anche se rischia di essere respinta dai più; essa ha anche più possibilità di essere accolta, visto che la violenza tanto dei forti quanto dei deboli ha condotto, nella regione del Medio Oriente, unicamente a fallimenti e a uno stallo generale». Si tratta di una situazione «sfruttata dal terrorismo mondiale più radicale». Il contributo dei cristiani « esige molto coraggio, è indispensabile» anche se «troppo spesso» i Paesi mediorientali «identificano l’Occidente con il Cristianesimo» recando grande danno alle Chiese cristiane [100-102].
Il documento analizza anche il forte impatto della modernità che al musulmano credente «si presenta con un volto ateo e immorale. Egli la vive come un’invasione culturale che lo minaccia, turbando il suo sistema di valori». «La modernità, del resto, è anche lotta per la giustizia e l’uguaglianza, difesa dei diritti». Ma «la modernità è anche un rischio per i cristiani»: le società della regione sono infatti anch’esse «minacciate dall’assenza di Dio, dall’ateismo e dal materialismo, e più ancora dal relativismo e dall’indifferentismo … Tali rischi, al pari dell’estremismo, possono facilmente distruggere … famiglie, società e Chiese ». [103-105]. «Da questo punto di vista, musulmani e cristiani devono percorrere un cammino comune».
I cristiani, da parte loro, devono essere consapevoli di appartenere al Medio Oriente e di esserne «una componente essenziale come cittadini»: anzi, «sono stati i pionieri della rinascita della Nazione araba» e «il loro ruolo è riconosciuto nella società» [106-108] anche se «con la crescita dell’integralismo islamico, aumentano un po’ ovunque gli attacchi contro i cristiani» [110]. «Il cristiano ha un contributo speciale da apportare nell’ambito della giustizia e della pace»; ha il dovere di «denunciare con coraggio la violenza da qualunque parte essa provenga, e suggerire una soluzione, che non può passare che per il dialogo», la riconciliazione e il perdono. [111-114].

Cosa succede agli Europei?

Cosa succede agli Europei? E’ questa la domanda che al di fuori del continente europeo si sente con maggior frequenza. Desta sorpresa, infatti, che l ‘Europa, che per decenni si è proposta al mondo come la terra della tolleranza, dell’inclusione, dello stato sociale, mostri oggi quasi di non credere più ai propri ideali fondativi. Naturalmente è questa una versione semplificata e forse caricaturale di ciò che accade ai sistemi politici e sociali del vecchio continente, ma ciò non toglie che vi sia un fondo di verità. Se la Francia, considerata, dalla Rivoluzione francese in poi, come “terra d’asilo” per i perseguitati e i rifugiati, tratta con durezza i Rom, tanto da provocare una procedura d’infrazione dell’Unione Europea; se l’Olanda ridiscute i termini dell’immigrazione e della società multi-culturale; se in Svezia, patria di un modello social-democratico di successo, cominciano a manifestarsi tentazioni di chiusura nel benessere “nazionale”; se in Germania cresce il dibattito sull’integrazione dei Turchi; se in Italia l’immigrazione viene troppo spesso trattata solo come un problema di sicurezza e vengono compiuti respingimenti verso Paesi non firmatari delle convenzioni internazionali sulla protezione dei rifugiati; allora è innegabile che un problema esiste e riguarda, in varia misura, tutte le società europee.
Occorre però sgombrare il campo da alcuni facili luoghi comuni. E’ un errore classificare la grande varietà di queste reazioni che potremmo definire “identitarie” in termini di avanzata delle “destre xenofobe”. Nella condizione attuale dell’Europa, queste etichette sbrigative hanno poco senso. Quello che è vero è che un po’ ovunque si diffonde un senso di incertezza per il futuro (e persino per il presente) e prende corpo la percezione di una “minaccia” indistinta al nostro modo di vivere. Questo fenomeno va al di là degli steccati classici della politica e delle affiliazioni partitiche. Per dirla con il sociologo Bauman, è la “paura liquida” che pervade le nostre società e progressivamente “riempie” l’agenda politica degli Europei.
Se questa è la situazione, le reazioni in senso lato “xenofobe” sono il sintomo, non la malattia. Un sintomo grave e talvolta odioso, che però richiede si indagare sulle cause profonde di queste reazioni e di questo malessere. La ragione vera dell’insicurezza generalizzata risiede, come spesso si dice, nella “globalizzazione”. Ma perché questo non diventi un alibi o un luogo comune, è necessario qualificare questa affermazione con qualcosa di più preciso. A ben guardare, le nostre paure crescono in modo proporzionale man mano che ci rendiamo conto che i nostri riferimenti comunitari, quella “rete di sicurezza” fatta di legami, rapporti, relazioni informali, progressivamente si sgretola nelle maglie di un individualismo e di un isolamento crescente delle persone. Abbiamo più paura perché ci sentiamo più soli. Non è una conclusione banale: la trasformazione aggredisce, infatti, la struttura portante delle società. In questi processi di cambiamento la politica rischia di essere latitante o semplicemente di inseguire le stesse paure che si dovrebbero, invece, comprendere e “governare” con intelligenza e lungimiranza. Perché è evidente che una società impaurita è anche una società bloccata, ferma, sulla difensiva. E’ proprio nei momenti più difficili della società che la politica dovrebbe, al contrario, svolgere un ruolo non tanto di rassicurazione, quanto di valorizzazione di ciò che unisce, di ciò che fa della società dispersa e frammentata una comunità al tempo stesso salda ed aperta. Siamo dinanzi ad un paradosso: più la politica si limita a riflettere le ansie e le paure, più queste ultime, invece di scomparire, aumentano a dismisura. In questo modo la politica diventa un moltiplicatore dell’insicurezza, proprio il contrario di quanto proclama. E’ come nelle nostre città: la sicurezza migliora certamente migliorando l’ordine pubblico (più polizia, più controlli), ma migliora in modo assai più sostanziale illuminando le strade, promuovendo attività e partecipazione proprio nei quartieri più degradati. La sicurezza non scende dall’alto, si costruisce dal basso; non scaturisce da una muscolare dimostrazione di forza, ma dalla consapevole e serena condivisione delle nostre debolezze.

Active oblivion

Forgiveness tends to break the vicious circle of violence
By Pasquale Ferrara ("Living City", october 2010)

Authentic forgiveness in its core is unrestricted and unconditional. That is why the Gospel speaks of forgiving “seventy times seven times.” It is not the quantity but the quality (we would say the depth) of forgiveness that makes up one of the foundational prerequisites at the birth of most human societies.
A moment of breach or division (sometimes a homicide or a fratricide), to which people feel called to respond with a wave of equal social revenge, is often present in the history of various cultures. It’s enough to think of the outline of many Greek tragedies.
Yet, already in the Old Testament there is the story of the "sign" that God placed on the forehead of Cain. Abel's murderer should not, in turn, be killed by others. Forgiveness, therefore, tends to break the vicious circle of violence, including the less evident, daily violence such as the act of avoiding greeting a neighbor, colleague or friend who has betrayed us. Denying the other of the ordinary ritual of greeting is something more serious than what may seem at first glance. It is a way to expel the other from the circle of relationships; it is a kind of arbitrary exclusion of the other from the community.
In addition to the personal level, there is the broader level of the "wounds" produced by social, inter-ethnic and intercultural conflicts. Consider, for example, the various "commissions for truth and reconciliation" that were created in many Latin American and African countries as a result of serious political and institutional crisis or civil wars. Some of these committees have focused not only on the restoration of responsibilities, but also on two basic concepts: “healing” and “reconciliation.” In other words, it is like saying that the part of society which was the victim or the author of crimes against human rights is ill, and therefore requires social healing.
The perspective of conflict resolution is somehow different from that of forgiveness. Forgiveness is primarily a private, personal matter, but without forgiveness there can be no real reconciliation. Any conflict resolution should take place between individuals who “forgive” each other. The act of forgiving does not negate the memory of facts and circumstances (including historical and political). The philosopher Paul Ricoeur spoke of “active oblivion” — the past of division and conflict should never affect our present efforts to be (re)builders of unity.

Il nuovo mappamondo

FEDERICO RAMPINI, “Repubblica” 1.10.2010
L'idea di uno studioso che riscrive i confini attraverso gli interessi comuni e i legami "tribali". Niente più Eurozona e Medioriente. E l'Italia fa parte delle "Repubbliche dell'Olivo"

NEW YORK - Addio illusioni di appartenere all'Eurozona, o a qualcosa di ancora più vasto come l'Occidente. Più modestamente l'Italia deve rassegnarsi a far parte delle Repubbliche dell'Olivo, per affinità storico-culturali con Grecia e Bulgaria, Macedonia e Portogallo. Mentre la Germania guida una nuova Lega anseatica che si spinge fino al Baltico. Per l'America sette anni di guerra in Iraq non sono bastati a impedire che questo paese finisca risucchiato nell'Iranistan, com'era suo destino, insieme a Libano Siria e striscia di Gaza. I Nuovi Ottomani dilagano da Istanbul fino a riprendersi l'Uzbekistan e il Turkmenistan. È questa la mappa del mondo reale, non quello immaginario costruito attraverso guerre e trattati, diplomazie e accordi tra governi. Lo colora a tinte forti un'autorità della materia. Joel Kotkin è il più celebre geografo-economista-demografo degli Stati Uniti. Ha pubblicato opere di riferimento sul ruolo delle metropoli nell'era post-moderna, e sull'impatto dell'immigrazione nel futuro dell'America. Oggi è Distinguished Presidential Fellow alla Chapman University in California. Originale, visionario, oggi Kotkin lancia molto più di una provocazione. La sua nuova mappa del mondo assomiglia alla rivoluzione del cinema 3-D. I rapporti tra le nazioni acquistano una rilievo tridimensionale, si ricongiungono con il Dna dei loro popoli. Per disegnarla Kotkin ha messo al lavoro il Legatum Institute di Londra. Con risultati sconcertanti e controversi. È ora di liberarci delle visioni convenzionali, quelle secondo cui i confini sono decisi solo dalla politica. "Nel mondo intero - sostiene Kotkin in un saggio su Newsweek - una rinascita di legami tribali sta creando nuove reti di alleanze globali, più complesse. Se una volta la diplomazia aveva l'ultima parola nel tracciare le frontiere, oggi sono la storia, la razza, la religione e la cultura a dividere l'umanità in nuovi gruppi in movimento". C'entra qualcosa il declino delle ideologie, che avevano funzionato da collante transnazionale. Ambientalisti, progressisti, liberisti: questi sono valori che possono animare le élite, ma per i popoli il concetto di "tribù" è decisamente più potente. Lo sosteneva il grande storico arabo Ibn Khaldun: "Nel deserto sopravvivono solo le tribù, tenute insieme da un forte senso di appartenenza". Storia antica, e sorprendentemente moderna. Torna di attualità adesso che il pianeta cerca un'identità dopo il secolo delle grandi ideologie, dei totalitarismi. Non appena finita la guerra fredda hanno iniziato a disgregarsi i blocchi tradizionali: non solo quello sovietico ma anche quello occidentale, e perfino l'idea di Terzo mondo che era nata per definire il movimento dei "non allineati". Gli economisti della Goldman Sachs oltre dieci anni fa coniarono con successo l'abbreviazione Bric, per designare le quattro potenze emergenti Brasile Russia India Cina. Ma è ovvio che quei quattro giganti hanno pochi valori in comune. Metterli nello stesso paniere è un'operazione astratta, da speculatori di Borsa, non descrive le dinamiche geopolitiche in azione. I veri confini del nuovo mondo sono altri. Tra le tendenze trainanti c'è la rinascita delle città-Stato: non solo Singapore che è davvero un'entità politica autonoma, ma anche Londra e Parigi sono "metropoli globali", i cui interessi si separano da quelli delle loro provincie. Il Nordamerica è molto più di un'espressione geografica: tra Stati Uniti e Canada non c'è soluzione di continuità nei sistemi economici, nella cultura. E poi ecco un altro fattore in comune tra Usa e Canada: è l'immensa riserva di terre arabili e di acqua, quattro volte più risorse idriche di Europa e Asia, un punto di forza nelle "guerre alimentari" del futuro. La Cina da parte sua ha già di fatto ricostituito la Terra di Mezzo come ai tempi dell'Impero celeste: Taiwan è sempre meno un'isola ribelle, viene attirata nell'orbita economica della madrepatria. La Terra di Mezzo cinese rappresenta "il più vasto insieme mondiale popolato da un ceppo etnico omogeneo, gli Han". Questo dà alla Cina e ai suoi satelliti "una straordinaria coesione" ma ne fa anche un mercato di difficile penetrazione per gli stranieri. La Grande India sta risucchiando nel suo dinamismo economico il Bangladesh e così chiude un pezzo della lacerazione post-coloniale del 1947. La Cintura del Caucciù tiene insieme nazioni del sudest asiatico che hanno ricche dotazioni di risorse naturali: dalla penisola indocinese a Indonesia, Malesia e Filippine. The Wild East, l'Oriente selvaggio che include Afganistan, Pakistan e le vicine repubbliche ex-sovietiche, "resta una posta in palio nello scontro di potere tra Cina, India, Nordamerica". La Grande Arabia spazia dal Golfo Persico fino a includere Egitto e Giordania: un'area resa compatta dal collante religioso ma per la stessa ragione "destinata a un rapporto problematico con il resto del mondo". L'Arco del Maghreb corre dall'Algeria alla Libia lungo le coste atlantico-mediterranee. L'impero sudafricano unisce paesi che hanno simili storie coloniali, dotazioni di infrastrutture migliori rispetto al resto dell'area subsahariana, e la prevalenza della religione cristiana. Anche in America latina è possibile trovare delle faglie negli orientamenti culturali che dividono due grandi famiglie. Da una parte ci sono i Liberalisti, campioni di una versione locale dell'economia di mercato e del pluralismo: dal Messico al Cile. Dall'altra le Repubbliche di Bolivar, dove i populismi in versione marxista o peronista hanno messo radici profonde: Cuba e Bolivia, Argentina e Venezuela. In mezzo a queste grandi famiglie spiccano anche gli isolati. Sono quelle nazioni che per un forte senso d'identità non possono "sciogliersi" in un'appartenenza più vasta: a titoli diversi questo è il destino del Brasile in Sudamerica, della Francia in Europa, del Giappone in Asia. Ci sono gruppi in bilico: per esempio le due Lucky Countries, nazioni fortunate, Australia e Nuova Zelanda, che hanno un Dna etnico-culturale anglosassone ma sentono l'attrazione economica dell'Asia con cui le loro economie sono complementari. L'Unione europea, vivisezionata da Kotkin e dagli esperti del Legatum Institute, ne esce letteralmente a pezzi. La Lega anseatica germanico-nordica ritrova "quel comune destino creato dal commercio" che lo storico Fernand Braudel le attribuì datandolo al XIII secolo; oggi rinasce in una proiezione globale, perché sono quelli i paesi che si sono meglio inseriti nei mercati asiatici. Le Aree di Confine sono Belgio e Repubblica Ceca, Irlanda e Paesi baltici, Polonia e Romania, più il Regno Unito senza Londra: sono paesi intrinsecamente instabili, in bilico tra zone d'influenza rivali, esposti talvolta alla disunione. In quanto alle nostre Repubbliche dell'Olivo, hanno nobili radici in comune nell'antichità greco-romana. "Ma sono nettamente distanziate dall'Europa settentrionale in ogni categoria: i tassi di povertà sono due volte più alti, la popolazione attiva dal 10% al 20% inferiore, i debiti pubblici più elevati, e i tassi di natalità più bassi del pianeta". Per quanto l'Italia possa progettare barriere per fermare i flussi migratori dalle nazioni "affini", vista da un geografo americano la sua collocazione è chiara. Non c'è verso che l'Italia possa integrarsi con una Lega anseatica proiettata a distanze stratosferiche: non solo nell'Indice di Prosperità, ma anche su altri terreni perfino più importanti per il futuro. "Istruzione e innovazione tecnologica" nell'Europa tedesco-scandinava hanno raggiunto "punte avanzate impressionanti". È un altro pianeta, i cui ambasciatori occasionalmente s'incontrano a Bruxelles. Che forse non sarà più a lungo la capitale del Belgio.