Il "duplice viaggio" di Francesco

Ci sono eventi che, per la loro densità, sono destinati a produrre i loro effetti sul medio e lungo termine. Ci sono gesti che, per la loro intensità, continuano a produrre e riprodurre senza posa il loro significato simbolico. È presto per sapere se la visita di Papa Francesco in Terra Santa (24-26 Maggio 2014)  e il successivo incontro tra Abu Mazen e Shimon Peres in Vaticano (8 Giugno 2014) si iscrivano nella categoria dei cosiddetti "game changer", degli snodi della storia che segnano una discontinuità sul piano politico-diplomatico. È certo però che il primo impegno realmente internazionale (e non solo pastorale) di Papa Francesco è dello stesso spessore, ad esempio, della preghiera universale di Assisi per la pace, convocata da Giovanni Paolo II nel 1986. La prospettiva profetica e la prospettiva simbolica non sono affatto estranee alla politica, al contrario. È proprio quella che gli analisti politici chiamano la "vision", la visione, cioè il disegno complessivo che permette di comprendere anche il presente per poterlo trasformare, unitamente alle componenti evocative (e non semplicemente emotive) dell'agire politico a rappresentare la miscela per innescare il cambiamento e demolire paradigmi rocciosi, come quello della prevalenza (illusoria e instabile nel tempo) delle soluzioni di forza su quelle negoziate, del dominio della paura sulla fiducia. Immettere nel circuito politico internazionale una narrazione radicalmente diversa, e cioè che i conflitti, anche quelli più intrattabili, sono in fondo fenomeni umani e sociali e in quanto tali risolvibili, non significa rifugiarsi nella prospettiva dell’utopia; al contrario, implica un esercizio di realismo che paradossalmente la realpolitik, prigioniera com’è del mito della violenza, non riesce a compiere.  Tutto questo ha evidenziato il viaggio mediorientale-vaticano di Francesco, al di là delle esaltazioni idealistiche o metafisiche, da una parte, o delle stroncature, pur benevole, degli “specialisti”, cultori della strategia e della geopolitica.  Le interpretazioni di quello che potremmo definire nei termini di un “duplice viaggio”, considerando in modo unitario e inscindibile sia quello di Francesco in Terra Santa come pellegrino che quello dei suoi illustri ospiti alla Santa Sede, oscillano tra dimensione essenzialmente politica e quella esclusivamente religiosa, come se fosse davvero possibile, in un mondo in cui le identità si compongono di appartenenze multiple, territoriali, politiche, spirituali, culturali, distinguere in modo netto o anche solo approssimato i due ambiti. D’altra parte, il conflitto israelo-palestinese non ha mai assunto in modo caratterizzante – se non a tratti e in alcuni segmenti delle rispettive società - la dimensione dello scontro religioso, trattandosi piuttosto di ripartizione o condivisione di territori. Al tempo stesso, la stessa natura dei luoghi contesi, per il loro significato esplicito, ancestrale e identitario, rimette continuamente il gioco la questione religiosa, che rimanda ai fondamenti di antiche civiltà mediterranee, che hanno però definitivamente proiettato il loro orizzonte di senso su scala universale, ben oltre i confini politici, etnici, linguistici di un minuscolo lembo del Vicino Oriente. Dinanzi a tale complessità di rimandi e di implicazioni, Francesco ha scelto la strada più diretta, più semplice (anche se tutt’altro che semplicistica): ritrovarsi assieme, attorno a questo misterioso groviglio storico-politico e al contempo spiritualmente fondativo, per un’anamnesi possibilmente condivisa, nella consapevolezza, tuttavia, che ciò non possa giustificare alcuna amnesia.
Il momento storico in cui si colloca questo gesto inclusivo, senza pretese di essere conclusivo, è quello che nella migliore delle ipotesi si potrebbe definire come stallo diplomatico, e nella peggiore come conservazione (armata) dello status quo. Sembra estremamente difficile che le parti – Israeliani e Palestinesi – possano trovare una soluzione concordata sulla base delle varie formule sinora escogitate, a cominciare da quella “due popoli, due stati”, che dovrebbe affrontare la questione, grande come un macigno, dei confini realistici di un nuovo Stato palestinese indipendente, fornendo al contempo solide garanzie di sicurezza ad Israele. L’esaurirsi, ormai prossimo, delle ipotesi ancora praticabili richiede un profondo mutamento di prospettiva, e di immaginare soluzioni forse originali e inesplorate, a cominciare da quel vero e proprio intricato reticolo di micro-governance civile, religiosa, securitaria e comunitaria e di fratture e ricomposizioni intersecantesi e sovrapposte che è Gerusalemme. La profezia, spesso ripetuta dal Cardinale Martini, che la pace a Gerusalemme condurrà alla pace su tutta la terra ha un risvolto forse di minore portata, ma non meno rilevante, e che cioè una riconfigurazione degli spazi vitali e sociali di Gerusalemme appare una pre-condizione o comunque un elemento imprescindibile della soluzione complessiva del conflitto israelo-palestinese e in cui la comune radice delle religioni del Libro ha senza dubbio ancora molto da offrire.
Inoltre, il panorama complessivo del Medio Oriente e del Nordafrica è cambiato radicalmente in pochi anni, e in particolare a partire dal 2011 con le transizioni politiche nel mondo arabo-islamico (tutt’altro che concluse, e con preoccupanti segnali di involuzione, tranne forse per la Tunisia), con il virtuale disfacimento di un attore importante come la Siria, la contrapposizione faziosa in Libia, il sorgere di una entità pseudo-statale e dagli inquietanti tratti neo-imperiali come l’ISIS e la sua ossessione antistorica del Califfato. Mentre i confini tra Israele e (futuro) stato palestinese non sono stati ancora definiti, e quelli derivanti dalla guerra arabo-israeliana del 1967 profondamente contestati, sono di fatto messi in discussione per la prima volta altri confini esistenti, tracciati frettolosamente già alla fine della prima guerra mondiale con l’accordo Sykes-Picot del 1916 tra Gran Bretagna e Francia che sancirono divisioni arbitrarie, di matrice coloniale, in Medio Oriente e la successiva nascita di numerosi stati indipendenti dopo il secondo conflitto mondiale. A ciò si aggiunga la mobilitazione degli attori regionali nel conflitto siriano, con l’interventismo indiretto, di opposta matrice, degli stati del Golfo (in particolare i due “giganti” dell’Arabia Saudita e dell’Iran).
In questo ribollire di tensioni antiche e nuove, il “segno” di Francesco, così compiutamente, pazientemente e saggiamente ricostruito, descritto e contestualizzato in questo scritto di Paolo Loriga, appare molto più che un messaggio di speranza; è piuttosto un appello “proattivo”, un’irruzione, ma in punta di piedi, una voce orante e ragionante dal deserto più che una voce che grida nel deserto, e che interpreta il disagio profondo dell’umanità periferica proprio nel cuore di un conflitto così centrale e così lacerante come quello mediorientale.

Sicurezza, democrazia, partecipazione. Intervista a Pasquale Ferrara

(di Aldo Liga - 5.7.2012)
Pasquale Ferrara, diplomatico di carriera e professore universitario, dirige dal luglio del 2011 lo European University Institute di Fiesole. Il nostro incontro prende spunto dalla lettura del libro “Lo stato preventivo. Democrazia securitaria e sicurezza democratica” (Rubbettino, 2010). In questo testo Ferrara si concentra sull’analisi della reazione delle democrazie alle minacce esterne. Ad essere indagata è la relazione fra libertà e sicurezza, fra democrazia e terrore. Fondamentale per la nascita del volume l’esperienza del Segretario a Washington come Primo Consigliere nel settore politico presso l’Ambasciata d’Italia.
Nel descrivere la relazione fra civiltà e barbarie all’indomani dell’11 settembre Lei utilizza l’interessante immagine di San Giorgio che combatte il drago: “la giostra agonale assume ritmi sempre più incalzanti ed incontrollabili, tanto che il profilo del santo e del drago si mostrano sfuggenti e difficilmente distinguibili, fino al paradosso di divenire addirittura intercambiabili”.
È una riflessione basata sugli archetipi della civiltà occidentale, il bene contro il male. Non è solo una figura mitologica, ma ha anche una certa attualità politica, penso a Reagan, che definiva l’URSS “impero del male”, o a George W. Bush, che ha parlato di “asse del male”. Il libro si riferisce alla cosidetta “Global War on Terror”, che, definendo distintamente San Giorgio e il drago, trasmetteva l’illusione che si potesse derivarne una polarità. Oggi al contrario le figure non so no più così distinte. La perdita di credibilità dell’Occidente nella lotta al terrorismo avviene nel momento stesso in cui esso nega i suoi valori fondamentali. Tale operazione, veicolata anche dal mito della paura globale, panica, in un mondo in cui non si comprendono da dove provengono le minacce ha avuto una forte premialità politica. Il libro nasce dall’esperienza presso l’Ambasciata italiana a Washington, fra il 2002 e il 2006. Durante questa esperienza ho avuto modo di vivere sul campo la rielezione di Bush proprio intorno al tema della difesa dell’America. In quel caso il termine “terror” non era riferito soltanto al terrorismo ma anche alla globalizzazione, alla migrazione… Una sorta di passepartout che veicolava significati diversi. Oggi la situazione è molto cambiata, mi trovo concorde con Ulrich Beck quando parla di “società globale del rischio”: tutti i rischi vengono declinati dal potere secondo le convenienze del momento. L’insicurezza globale viene “sequestrata” dal potere per scopi puramente strumentali. La partecipazione politica oggi si gioca sulla capacità di riuscire a distinguere le caratteristiche funzionali del potere dal tema dell’insicurezza globale. La politica non può dare sicurezza, è anzi il principale fattore di insicurezza. Oggi lo stesso stato westfaliano è fonte di insicurezza, la sua permanenza crea insicurezza: oggi in Europa, ad esempio, gli investitori non credono più nello stato nazionale.
In particolare Lei parla di “deinocrazia”, governo del terrificante, condizione di precarietà assoluta, di pericolo permanente, di minaccia persistente ed incombente. Molti regimi occidentali si sono quindi progressivamente trasformati in “democrazie securitarie”.
Il terrore ha assunto il ruolo di formula politica per ridurre la complessità, per ricondurre le società ad un modello standard. Ha assunto la funzione di programma politico, di normalizzatore. Il “terrificante” è un fenomeno diverso. La nozione stessa di insicurezza indistinta è stata incorporata negli assetti del potere, è l’azione stessa che è improntata sul terrore che rimane sullo sfondo, non è palese, si intravede in controluce. Al contempo, è come se lo Stato, in antitesi rispetto al pensiero di Hobbes, fosse divenuto una sorta di “agenzia delle assicurazioni” da cui devono arrivare tutte le certezze che la società civile vuole. Viene delegata al potere la prospettiva del futuro. Questo è un problema che più che i sistemi politici in sé riguarda le società stesse che hanno abdicato e appaltato allo stato le proprie prerogative. Con i regimi di welfare si è parlato di overload di domande nei confronti degli stati. Ora si è giunti a richieste di sicurezza esistenziale. I governi non riescono a tenere il passo: l’antipolitica nasce anche da questa disillusione. Va pertanto ripensato il rapporto fra società e politica.
Un’esperienza di società minacciata dal suo stesso governo è quella da Lei vissuta personalmente in Cile, durante la fase di transizione dei primi anni ’90.
Tramite l’impiego di strumenti tecnologici lo stato era effettivamente il principale elemento di insicurezza. Nei regimi dittatoriali sudamericani esistevano meccanismi di difesa preventiva messi in atto allo scopo di esercitare un potere pervasivo. Nel Cile di Pinochet vennero adottati decreti-legge segreti e leggi segrete, trascritte in una sorta di gazzetta ufficiale, anch’essa segreta. Queste leggi nascondevano che il regime si appropriava di grosse fette del reddito per finanziare la repressione interna.
Per circa un decennio il terrorismo è stato percepito dalla maggioranza degli europei come un rischio presente, reale, imminente. Oggi sembra che il tema sia passato in secondo piano, o almeno sia stato ridimensionato. In che modo viene percepito oggi il terrorismo?
La “Global War on Terror” è un triste capitolo della sudditanza dell’Europa agli Stati Uniti. Per circa un decennio alla lotta contro il terrorismo è stato dato un posto centrale e fondamentale in quasi tutti i vertici internazionali, anche quando le delegazioni statunitensi non erano presenti. Ma il terrorismo era “il” problema  fondamentale dell’umanità? E le malattie endemiche? Il cambiamento climatico? La sicurezza alimentare? Ora la situazione sembra mutata, anche perché l’amministrazione Obama si è focalizzata su tematiche interne: un ripiegamento sostanzialmente giustificato dall’insostenibilità di gestire in termini securitari l’assetto globale. Con Obama si è assistito ad una virata: al centro vi è oggi il multilateralismo efficace, quindi una maggiore apertura alle organizzazioni internazionali. Questo non è ancora però segno di una svolta radicale, ma è sintomo eloquente di un’insostenibilità del ruolo globale degli USA e quindi, conseguentemente, di debolezza.
La caratteristica principale della reazione delle democrazie all’11 settembre 2001 è stato l’aver reso intermittente e condizionale la validità dei codici. La creazione quindi di uno spazio politico privo di legge tramite l’imposizione di uno stato di eccezione o di un regime emergenziale. Lei critica fortemente l’abdicazione dei principi democratici per l’autodifesa degli stessi. La ritiene un’involuzione della democrazia. Alle luce delle sue considerazioni vorrei però un commento su episodi eticamente riprovevoli ma in parte efficaci: mi riferisco alle azioni del BOPE (Batalhão de Operações Policiais Especiais), i cui interventi sono stati particolarmente incisivi nel contrasto alla criminalità all’interno delle favelas brasiliane. Ne “Lo Stato preventivo” Lei cita la teoria del “male minore” (lesser evil) di Ignatieff, ovvero “l’ammissibilità di eccezioni mirate e temporanee al principio di legalità”.
La deinocrazia prevede uno stato di eccezione non dichiarato, non identificabile come tale, insidioso, ubiquo. Per rispondere alla sua domanda vanno prese in considerazione due dimensioni. La prima: vi sono punti non negoziabili. Il rispetto della dignità umana – violarlo compromette la stessa sicurezza dello stato nel lungo periodo. Utilizzando l’opposizione fra il pensiero di Bentham (l’azione eticamente giusta è quella che massimizza la felicità totale aggregata) e quello di Kant (l’uomo come fine, mai come mezzo), credo che in caso di dubbio e conflitto debba prevalere quello kantiano. Mi definisco un realista etico: conseguire risultati sì, ma non a qualsiasi costo. Bisogna chiedersi se gli effetti di breve periodo possono essere visibili, ma anche cosa questa azione produce strutturalmente nel lungo periodo. La seconda dimensione è quella della pubblicità degli atti: qualsiasi misura può essere adottata ma va sottoposta a controllo democratico tramite il Parlamento o gli organi giudiziari.
Sintomo dello stato di eccezione e della “riduzione dell’universalità dei diritti” sono le cosiddette “consegne extragiudiziarie”. In Italia il caso Abu Omar è stato seguito con notevole interesse dall’opinione pubblica e su di esso è stato posto il segreto di stato. Fra “democrazia securitaria” e “sicurezza democratica”, dove si colloca tale istituto?
Il segreto di stato è più congeniale alla democrazia securitaria ed è un istituto che va rivisitato. In Italia è in corso una corposa revisione dei meccanismi per la verifica dei requisiti di sussistenza della necessità di imporre il segreto. La vera sicurezza comunitaria non ha bisogno del segreto di stato. La paura viene dal fatto che viviamo isolati nel mondo, costituiamo una “folla solitaria”. La sicurezza comunitaria si fonda sul rafforzamento del vincolo comunitario per non sentirsi schiacciati dalla globalizzazione. Ad esempio, nel caso dell’insicurezza dei cittadini dovuta alla percezione di crescente criminalità, la riappropriazione degli spazi urbani è più efficace dell’istituzione di ronde.
Proprio nella sicurezza comunitaria Lei intravede una via d’uscita.
La vera via d’uscita da uno stato di eccezione non dichiarato si potrà avere soltanto ripartendo dalla quotidianità, dal confronto, dal dialogo sulle scelte della politica. La via d’uscita non si trova in nuove richieste allo stato ma nel riappropriarsi della dimensione comunitaria, del futuro, del territorio in una dimensione partecipativa. Solo su questo processo di inclusione e corresponsabilizzazione può basarsi la sicurezza democratica.

La nuova Commissione Europea tra ambizioni ed emergenze

Le sfide della nuova Commissione Europea, che avvia concretamente il suo mandato in Novembre, sono fondamentalmente di due tipi. Da una parte, l’assetto interno, non privo di conseguenze sulle modalità di operare del nuovo Collegio e anche sulla sua capacità di ottenere risultati tangibili; dall'altra, il varo di politiche rese necessarie e urgenti da un contesto europeo e mondiale che si presenta con caratteri che non pare esagerato definire emergenziali.
Jean-Claude Juncker è certamente un europeista, ma è anche e soprattutto un politico pragmatico e di grande esperienza. A parte le circostanze particolarmente innovative che lo hanno portato a essere designato Presidente della Commissione a seguito di una sorta di investitura “elettorale” al contempo informale e indiretta, Juncker ha sin dall’inizio dedicato una speciale attenzione al funzionamento della Commissione, un organo collegiale di 28 membri che nel tempo, anche in ragione della frammentazione interna, ha perso di mordente rispetto al processo integrativo e soprattutto nei confronti della “rivincita” dei governi nazionali sulle istituzioni comuni. La struttura della nuova Commissione cerca di rimediare, in qualche modo, alla dispersione delle competenze, istituendo nei fatti una sorta di inner cabinet formato, oltre che dal Presidente, da sette commissari con forti funzioni di coordinamento rispetto ai portafogli distribuiti agli altri Commissari. Sarà – ha detto Juncker – una Commissione certamente “politica”, ma non “politicizzata”. I commissari-coordinatori provengono, comprendendo anche lo stesso Presidente, da tre delle famiglie politiche europee: quattro popolari (Juncker, Georgieva, Katainen, Dombrovskis), tre socialisti (Timmermans, Sefcovic e Mogherini), un liberale (Ansip). Tuttavia, nella visione di Juncker, la Commissione deve anche rimanere un’istituzione di garanzia, in grado di rappresentare l’interesse dell’Unione in quanto tale e non divenire né una cassa di risonanza dei gruppi del Parlamento Europeo, né una replica delle delegazioni nazionali al Consiglio; compito, quest’ultimo, divenuto assai complesso, da quando è stato cancellato il principio, affermatosi nel corso del negoziato che portò al Trattato di Nizza, che il numero dei Commissari dovesse essere inferiore al numero degli Stati membri dell’Unione.
Nella ristrutturazione della Commissione, operata senza introdurre riforme epocali e sfruttando il principio della libertà di auto-organizzazione delle istituzioni, spicca la novità della creazione della carica di un primo Vice-Presidente unico, assegnata all’olandese Frans Timmermans. Il suo portafoglio comprende questioni “orizzontali” di grande rilievo, come le relazioni inter-istituzionali (con il Parlamento e con il Consiglio), la Carta dei diritti fondamentali, e soprattutto il tema strategico dei negoziati per il TTIP (Transatlantic Trade and Investment Partnership) nei suoi risvolti per le competenze nazionali in materia di contenziosi con investitori esteri. In pratica, la nomina di Timmermans crea, si direbbe, una categoria di Commissario a parte, con funzioni reali di deputy rispetto allo stesso Juncker, e in posizione chiaramente differenziata rispetto agli altri sei Vice-Presidenti. Resta da capire se questa disseminazione di ruoli integrativi delle diverse politiche si rivelerà un ridimensionamento della funzione di indirizzo politico del Presidente della Commissione (“sono troppo anziano per iniziare una nuova carriera come dittatore”, come ha detto Juncker, tra il serio e il faceto), oppure, al contrario, rafforzerà i caratteri più marcatamente strategici della sua missione.
Nel complesso, si tratta di un riaggiustamento di competenze a seguito delle audizioni dei Commissari da parte del Parlamento Europeo, che hanno portato, tra l’altro, a un “rimpasto” complesso e dagli esiti non scontati. In primo luogo, la sostituzione della Commissaria slovena (auto-nominatasi!), l’ex Primo Ministro Alenka Bratušek, con Violeta Bulc e la conseguente riconfigurazione del corrispondente portafoglio (trasporti). In secondo luogo, la conferma sofferta (a causa delle politiche del governo di Budapest in materia di libertà di espressione e pluralismo, fortemente contestate da buona parte del Parlamento Europeo) del Commissario ungherese Tibor Navracsics dopo la sottrazione delle questioni della cittadinanza europea alle sue responsabilità originarie (istruzione, cultura, gioventù). Si è avuta poi la riassegnazione della gestione della stessa cittadinanza al greco Dimitris Avramopoulos nel contesto di un ampio e sensibilissimo dossier, che comprende migrazioni e affari interni. 
Tutta la vicenda della nomina della Commissione e della sua approvazione da parte del Parlamento Europeo si è svolta con una spiccata (per taluni, velleitaria) caratterizzazione politico-parlamentare, quasi a voler segnare, almeno nell’intenzione dell’Assemblea di Strasburgo, una nuova fase nell’equilibrio inter-istituzionale. L’ex Premier belga e europarlamentare Guy Verhofstadt ha non a caso evocato in chiave critica il ruolo della Commissione nell’ultimo quinquennio, accusata di essersi ridotta a un “Segretariato del Consiglio”.
Oltre agli aspetti strutturali del nuovo Esecutivo dell’Unione, ben più impegnative si prospettano le sfide delle politiche, quasi tutte legate, direttamente o indirettamente, alla capacità (o incapacità) dell’Unione di trovare un nuovo passo rispetto alla riconfigurazione del potere mondiale e all’emergere non solo di crisi, ma di veri e propri conflitti ai suoi confini (Ucraina, ISIS, Libia). Lo stesso obiettivo di Juncker di ottenere una “tripla A” per l’Europa non solo nel campo finanziario ed economico, ma anche in quello delle politiche sociali, dipende da come l’Unione riuscirà ad attrezzarsi per far fronte a quella che potrebbe essere considerata come una nuova fase della globalizzazione, meno cosmopolita e più conflittuale. Il neo-Presidente della Commissione ha utilizzato toni per molti versi drammatici, caratterizzando questa legislatura europea come una sorta di “ultima spiaggia” per risollevare le sorti dell’Europa.
Come la Commissione, anche e soprattutto il Consiglio dovrà compiere uno sforzo di integrazione delle politiche, anche se sinora i segnali continuano ad andare nella direzione della frammentazione e della ri-nazionalizzazione (in termini persino rivendicativi della sovranità “ceduta”) del discorso politico sull’Unione e dell’Unione. Da questo punto di vista, la nuova Commissione si troverà nel bel mezzo della frattura tra le diverse e talvolta incompatibili concezioni di Europa, a cominciare dal Patto di stabilità (e le sue interpretazioni “flessibili” invocate da Francia e Italia) per finire alla questione sociale, politica ed economica - ancor prima che umanitaria - delle migrazioni. Senza trascurare, ovviamente, il peso del “fronte interno”, in un momento in cui l’euro-scetticismo (o, meglio, un vero e proprio anti-europeismo) diviene una forza politica più o meno coesa e organizzata, ma in ogni caso espressa da almeno un quarto dei componenti del nuovo Parlamento Europeo. Si capisce, a questo riguardo, come in questo ambiente tendenzialmente ostile sia difficile persino pronunciare la parola “allargamento” dell’Unione a nuovi Stati, a cominciare dai Balcani ma anche rispetto alla deriva di disimpegno assunta, purtroppo, dall’Europa nei rapporti con la Turchia, e viceversa. Tuttavia, prima o poi, come tragicamente insegna il centenario della prima guerra mondiale commemorato nel 2014, i conti con la storia e con il futuro bisognerà farli. O l’Unione pensa in questi termini strategici, oppure si trasformerà in un’area ininfluente, basata sulla gestione tecnica di questioni tecniche: un destino a cui la condannerebbe l’asfittica pseudo-politica nazional-europea, condotta (si fa per dire) da 28 governi.