L'arcipelago Palestina

Il nuovo atlante geo-politico della rivista "Le Monde diplomatique" contiene, tra le altre mappe interessanti, questa cartina immaginifica della Palestina, nella quale tutti gli insediamenti israeliani in Cisgiordania (a qualunque titolo e di varia natura) sono stati trasformati in mare, proprio per evidenziare la drammatica discontinuita' del territorio palestinese e per mettere in luce quanto sia impervia la creazione di uno Stato palestinese nell'attuale situazione sul terreno. L'ideatore della mappa, il francese Julien Bousac, l'ha battezzata, con amara e geniale ironia, "arcipelago Palestina", adottando anche la toponomastica di uno stato-arcipelago [cliccare sul titolo del post per visualizzare la mappa ingrandita].

Identita' ed appartenenze

Alain Gresh, nel suo libro - pubblicato in Italia nel 2004 - Israele, Palestina. La verita’ su un conflitto , ricorda la figura di Chehata Haroun.
Era egiziano ed ebreo. Giovanissimo, negli anni Quaranta, questo avvocato si era unito alla lotta comunista. Si rifiuto’ con ostinazione di emigrare in Israele o in Europa, come fece la maggior parte dei suoi correligionari. Sulla sua tomba sono state lette queste righe, che egli stesso aveva scritto: "Ogni essere umano ha numerose identita’. Io sono un essere umano. Sono egiziano quando gli Egiziani sono oppressi. Sono nero quando i neri sono oppressi. Sono ebreo quando gli ebrei sono oppressi e sono palestinese quando i palestinesi sono oppressi".

L’identità non va intesa oggi, in un mondo sempre più interconnesso, come un fatto monolitico. Una cosa infatti è l’identità, un’altra cosa sono le appartenenze. L’identità è data da diverse appartenenze, che rendono «declinabile» il concetto di identità. Ad esempio, cercando di definire me stesso, la mia identità dal punto di vista antropologico, come mi potrei definire oggi? Forse come un indoeuropeo che parla un tardo dialetto latino, l’italiano; come un seguace di una religione di origine medio-orientale, il cristianesimo; come un individuo o «animale politico» - secondo la definizione di Aristotele - che vive in un’istituzione sociale di matrice gallo-germanica, lo stato moderno; come un essere umano o «homo oeconomicus» che trae il suo sostentamento da un sistema di scambi di tipo anglo-americano, il capitalismo. Anche solo considerando in modo statico quello che ciascuno di noi è, nel presente, emerge una serie di diverse appartenenze. Le appartenenze sono quelle date, ma sono anche quelle elettive. Da questo crogiolo nasce l’identità, che tuttavia, in misura minore o maggiore, muta in continuazione, non solo per l’emergere e il prevalere, a seconda delle situazioni, dei diversi «segmenti» di appartenenza, ma anche per l’interazione con le altre identità, a loro volta composte da variegati elementi costituenti. Una bellissima pagina di Amin Maalouf illustra in modo esemplare questa verità, che crea anche il rischio di uno spaesamento o di inquietudini identitarie, assieme ad una nuova consapevolezza sociologica e politica:
«Non è tipico della nostra epoca aver fatto di tutti gli uomini, in certo qual modo, degli emigranti e degli appartenenti a minoranze? Siamo tutti costretti a vivere in un universo che non somiglia molto al nostro Paese d’origine; dobbiamo tutti imparare altre lingue, altri ‘linguaggi’, altri codici; e abbiamo tutti l’impressione che la nostra identità, come l’immaginavamo sin dall’infanzia, sia minacciata. Molti hanno abbandonato la loro terra natale e molti altri, senza averla abbandonata, non la riconoscono(…..) Quando si concepisce la propria identità come la risultante di molteplici appartenenze, alcune legate a una storia etnica e altre no, alcune legate a una tradizione religiosa e altre no, quando si vedono dentro di sé, nelle proprie origini, nel proprio percorso, diverse confluenze, diversi contributi, diversi meticciati, diversi influssi sottili e contraddittori, si crea un rapporto differente con gli altri, come con la propria “tribù”. Non si tratta più semplicemente di “noi” e di “loro” – due eserciti in ordine di battaglia che si preparano al prossimo scontro, alla prossima rivincita. Ci sono ormai, dalla “nostra” parte, delle persone con cui non ho in definitiva che pochissime cose in comune, e ci sono, dalla “loro” parte, delle persone cui posso sentirmi estremamente vicino.» [Maalouf A. (2005), L'identità, Milano, Bompiani, pp.44-45 e 37-38]

La barca e la torre


Bruno Forte, noto teologo, ha svolto un intervento molto bello e "inspiring"- come dicono gli americani - al Convegno organizzato all'Accademia di Francia a Roma sul tema impegnativo "pensare la crisi". Trovo grande consonanza con l'affermazione di Forte secondo cui "non sarà l'omologazione delle differenze il futuro dell'umanità, ma la loro convivialità, il loro reciproco riconoscersi e accettarsi, sul fondamento comune della dignità assoluta di ogni persona umana e del diritto di ciascuno all'uguaglianza, formale e sostanziale."
La Torre di Babele del nostro tempo
È attraverso la via della metafora che vorrei tentare di pensare la crisi in cui si trova oggi il "villaggio globale". Con la sua eccedenza di senso, la metafora si presta a evocare i volti di quanto sta avvenendo, senza pretendere di ridurre a diagnosi facile la complessità magmatica di ciò che è in corso. Quattro metafore fluide – naufragio, liquidità, assemblaggio e navigazione – approderanno a una finale metafora solida, di sicuro Autore: Babele e la sua torre. A far uso della metafora del naufragio è Hans Blumenberg (Naufragio con spettatore. Paradigma di una metafora dell'esistenza, Bologna 1985). L'immagine rinvia a un testo di Lucrezio, voce della "condition humaine" nell'età classica: «Bello, quando sul mare si scontrano i venti e la cupa vastità delle acque si turba, guardare da terra il naufragio lontano: non ti rallegra lo spettacolo dell'altrui rovina, ma la distanza da una simile sorte» (De rerum natura, II, 1-4). Lo spettatore dell'età di Lucrezio osserva la scena del naufragio al sicuro, sul solido terreno delle sue certezze. Lo spettatore dell'età moderna, invece, sperimenta l'evidenza della frase di Pascal: «Siete tutti imbarcati» («Vous êtes embarqués». Pensées, 451). Blumenberg commenta: «Non c'è più lo stabile punto di vista a partire dal quale lo storico potrebbe essere lo spettatore distaccato» (99). La novità - dal "secolo dei lumi" in poi - è che lo spettatore s'identifica sempre più col naufrago: «Ci piacerebbe conoscere l'onda sulla quale andiamo alla deriva nell'oceano; solo, quell'onda siamo noi stessi» (99). Perdute le certezze che le ideologie ci avevano offerto, siamo diventati noi stessi i naufraghi. Si coglie qui una non marginale differenza fra la crisi del 1929 e l'attuale: allora il mondo delle certezze ideologiche si presentava come possibilità alternativa, rampante, come un sole nascente. Oggi, dopo la crisi delle ideologie, non è più così: «Siamo come dei marinai che devono ricostruire la loro nave in mare aperto, che non possono smantellarla sulla terraferma e ricostruirla usando i migliori materiali» (109). Non resta che una possibilità sola: «Farsi una nave con i resti del naufragio» (105), poiché «è chiaro che il mare contiene altro materiale rispetto a quello già impiegato nella costruzione. Da dove può venire, per far coraggio a chi ricomincia daccapo? Forse da precedenti naufragi?» (110s). Sul grande mare della storia continuano ad arrivare tavole cui aggrapparsi: da dove? Da altri naufragi? O da un possibile, totalmente altro, "altrove"? Lo scenario del naufragio, in cui spettatore e naufrago si identificano, si apre sull'orizzonte di un'attesa, forse persino di un'invocazione inespressa. Questa domanda che nasce dal naufragio è forse la cifra più profonda della crisi attuale. La metafora della liquidità è quella di cui si serve con singolare flessibilità il sociologo e filosofo britannico di origini ebraico-polacche Zygmunt Bauman (Modernità liquida, Roma-Bari 2002). Nel nostro tempo «modelli e configurazioni non sono più "dati", e tanto meno "assiomatici"; ce ne sono semplicemente troppi, in contrasto tra loro e in contraddizione dei rispettivi comandamenti, cosicché ciascuno di essi è stato spogliato di buona parte dei propri poteri di coercizione... Sarebbe incauto negare, o finanche minimizzare, il profondo mutamento che l'avvento della modernità fluida ha introdotto nella condizione umana» (XIIIs). Mancando punti di riferimento certi, tutto appare fluido, giustificato o giustificabile in rapporto all'onda che passa. Gli stessi parametri etici che il "grande Codice" della Bibbia aveva affidato all'Occidente, sembrano diluiti, poco reperibili ed evidenti. Si parla di "relativismo", di "nichilismo", di "pensiero debole", di "ontologia del declino". La fiducia assoluta nell'autonomia dell'uomo porta alla perdita di ogni riferimento trascendente: la persona finisce con l'annegare nella propria solitudine, e il sogno dell'emancipazione si infrange nei rivoli del totalitarismo. Col sangue delle vittime, si dissolve anche la consistenza della macchina di distruzione e di morte che l'ideologia aveva prodotto: tutto diventa fluido, sospeso sul nulla, in caduta. Questa fluidità si manifesta anche nell'estrema volatilità delle sicurezze promesse dall'«economia virtuale» della finanza internazionale, sempre più separata dall'economia reale. Trovare punti di riferimento, indicare linee guida affidabili è la sfida titanica per governanti e amministratori, che vogliano ancora galleggiare sulla liquidità derivata dalla dissoluzione di tutti i valori. Eppure, sul mare della storia si affacciano tavole cui aggrapparsi, improvvisate scialuppe di salvataggio, con cui forse assemblare una nave comune: queste tavole sono di forme e dimensioni disparate e metterle insieme, sospesi sull'onda, è impresa non facile. La metafora, che potrebbe esprimere questo tentativo è quella dell'assemblaggio, dello sforzo di costruire un battello con assi dalle più svariate provenienze. C'è chi chiama questa condizione, caratteristica della crisi attuale, "meticciato" e giunge a vedervi l'alternativa alla barbarie dissolvitrice (René Duboux, Métissage ou Barbarie, Paris 1994): si tratta della confluenza d'identità molteplici, dovuta ai flussi migratori in atto, ma anche al ravvicinarsi delle lontananze grazie al mondo comunicativo della rete. È l'esperienza, inedita per i più, dell'incontro fra identità diversissime, fino al configurarsi d'identità plurali, nomadi, al tempo stesso assertive e flessibili, meticce. Il succedersi degli eventi - dal fatidico 1989 all'11 settembre 2001 e a quel che ne è seguito - mostra il volto drammatico di questa sfida: «Siamo passati da un mondo in cui gli attriti erano fondamentalmente ideologici a un mondo in cui gli attriti sono fondamentalmente identitari... Per molti anni ancora il problema dell'identità avvelenerà la storia, indebolirà il dibattito intellettuale, diffondendo ovunque l'odio, la violenza e la distruzione» (Amin Maalouf, Identità, Bompiani, Milano 2007, 7s). S'impone una scelta di fondo, che parta dalla constatazione che il meticciato, come processo di incontro e di fusione di culture diverse, è stato sempre presente nella storia. L'illusione di una purezza dell'identità o della razza è follia ideologica. Se una cultura è viva e vitale, essa è anche in grado di avviare un processo di mutuo scambio e di reciproca comprensione con l'identità altrui che venga ad abitarla. Ciò che risulta decisivo è che fra persone e culture si costruiscano relazioni di reciproco rispetto, di riconoscimento dell'altro e di dialogo. I luoghi in cui questo riconoscimento può generarsi sono la società civile e la famiglia: la fecondazione reciproca delle identità avviene per maturazione delle coscienze attraverso laboratori di convivenza e di compartecipazione. Decisive sono però le condizioni oggettive e strutturali in cui simili laboratori divengano possibili: le garanzie di rispetto della dignità di ogni persona, qualunque sia lo status dell'immigrato, l'educazione alla solidarietà e alla multiculturalità, la scuola, il servizio sanitario, il dialogo fra esperienze religiose diverse, il sostegno alle mediazioni culturali e identitarie. «La società civile, senza una politica (e un'economia) che si faccia carico di proteggere e promuovere il senso di coappartenenza, diventerebbe... il liquefarsi della vita degna dell'uomo» (Paolo Gomarasca, Meticciato: convivenza o confusione?, Venezia 2009, 183). L'"assemblaggio", coinvolgendo tutti, richiede regole certe, che lo rendano possibile e fruttuoso. A quali parametri dovranno ispirarsi queste regole per superare la crisi verso un futuro migliore? È la metafora della navigazione che può forse descrivere la possibilità di un tale superamento: come dovrà essere la barca, risultante dall'assemblaggio delle tavole fornite dal mare? Verso dove guidarla? Un progetto, un codice etico e spirituale, risulta indispensabile. Per l'Italia questo codice è raccolto nella Costituzione Repubblicana, approvata il 22 dicembre 1947, nata dalla confluenza delle anime culturali, che avrebbero cooperato alla ricostruzione fisica e morale del Paese dopo la tragedia della guerra e della dittatura: l'anima cattolica, quella liberale e quella socialista. È in particolare, però, al personalismo d'ispirazione cristiana che la legge fondamentale dello Stato repubblicano deve la sua fonte più ricca in materia di valori, compendiata nel cosiddetto Codice di Camaldoli, elaborato al termine di una settimana di studio (18-23 luglio 1943), tenutasi nel monastero di Camaldoli, presso Arezzo, da un gruppo di giovani cristiani desiderosi di pensare la crisi e il suo domani. Vi emergeva l'idea della centralità della persona nella futura organizzazione dello Stato e della sua economia nel quadro della corresponsabilità e della solidarietà nazionale. Un pensatore francese, Emmanuel Mounier, era andato raccogliendo intorno alla dignità dell'essere personale un'analoga visione del mondo: «La persona non è un oggetto: essa anzi è proprio ciò che in ogni uomo non può essere trattato come un oggetto...» (E. Mounier, Il personalismo, Roma 1964, 11s: orig. Paris 1949). La Costituzione Italiana afferma il principio della dignità assoluta della persona nell'articolo 2, dove afferma che «la Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell'uomo». Questi diritti sono considerati naturali, non creati giuridicamente dallo Stato, come fa intendere l'uso del verbo "riconoscere", che implica la preesistenza di essi rispetto alla loro formulazione giuridica. Al principio di singolarità si connette quello di uguaglianza, affermato nell'articolo 3 del testo costituzionale, secondo cui tutti i cittadini, senza distinzione di sesso, di razza, di lingua, di religione, di opinioni politiche, di condizioni sociali e personali, sono uguali davanti alla legge (uguaglianza formale) e devono essere in grado di sviluppare pienamente la loro personalità sul piano economico, sociale e culturale (uguaglianza sostanziale). L'importanza di questi due principi è evidente nel campo della tutela delle minoranze, dei lavoratori, dei sessi, dei diversamente abili, e oggi in modo speciale nel rispetto dovuto alla persona degli immigrati, quale che sia il loro stato giuridico di cittadinanza. Rispettare la dignità di ogni essere personale è il primo impegno cui chiama la Costituzione, in piena sintonia con l'idea cristiana dell'assolutezza, singolarità e pari dignità di ogni uomo o donna davanti a Dio e alla storia. È muovendosi con assoluta fedeltà a questo principio che la barca potrà essere costruita in modo da navigare sul mare della storia. La crisi non si supera se la persona, la sua dignità, il suo lavoro, la realtà dei suoi rapporti, non torna ad essere centro e misura dell'economia e della politica. Vorrei chiudere questa carrellata di metafore liquide con una metafora solida, tratta dal "grande codice" dell'ethos occidentale, la Bibbia. Si tratta del racconto della "torre di Babele", che il capitolo 11 della Genesi presenta come l'immagine della confusione disgregante, origine di tutte le crisi nate dalla scissione fra il virtuale - immaginato o preteso - e il reale, vissuto e pagato di persona. C'è però un senso, che sfugge per lo più ai commentatori e che già Voltaire aveva richiamato, sottolineando come il nome "Babele" voglia dire che "el" - il Dio - è padre. Jacques Derrida ne ricava la conclusione che Dio punisce i costruttori della torre per aver voluto in questo modo farsi un nome, costruire da sé il proprio nome, riunirsi in esso: «Li punisce per aver voluto così assicurarsi autonomamente una genealogia unica e universale» (Des tours de Babel, in Aut Aut 189-190, 1982, 70). Non sarà l'omologazione delle differenze il futuro dell'umanità, ma la loro convivialità, il loro reciproco riconoscersi e accettarsi, sul fondamento comune della dignità assoluta di ogni persona umana e del diritto di ciascuno all'uguaglianza, formale e sostanziale. Davanti al Dio della storia, Padre-Madre di tutti, nessun uomo è un'isola: oltre il naufragio, sulle onde della modernità liquida, la barca va costruita insieme, nel rispetto di ognuno, consentendo tutti e ciascuno a regole comuni, certe e affidabili, per navigare insieme sul vasto tratto di mare verso il porto – intravisto nella speranza e mai pienamente posseduto nella realtà – della pace universale e della giustizia per tutti.

Una governance per la crisi. Politiche di fraternità universale

Ho partecipato un mesetto fa a un seminario di studi multidisciplinare, tenutosi alla Camera dei Deputati, ad un anno di distanza dalla scomparsa di Chiara Lubich, per onorare in particolare il suo impegno concretamente universalista ed inclusivo. Riporto qui di seguito il mio intervento, dedicato al tema "fraternità politica e mutamento internazionale".
Ci troviamo in una situazione di portata storica. Il futuro socio-economico e politico-internazionale della vicenda mondiale dipendono dalle scelte che saranno compiute oggi. La crisi economico-finanziaria è esplosa in un momento in cui erano già in atto profonde trasformazioni sullo scenario mondiale. Il mondo in pochi decenni è radicalmente cambiato. Nuovi protagonisti, nuovi Paesi, nuove aree del mondo si affacciano sulla scena, provocando una traslazione o diffusione di potere ed una riconfigurazione di ruoli su scala globale, un global shift of power. Dalla caduta del Muro di Berlino al vacillare del Muro di Wall Street, il sistema internazionale si è trasformato da bipolare in unipolare (anche se forse bisognerebbe precisare che si è trattato di una breve stagione unilaterale), tornando poi ad essere confusamente multipolare, senza necessariamente essere multilaterale, fino alla situazione attuale, che potremmo chiamare multicentrica o persino non-polare. Nonostante tutti questi cambiamenti, le strutture internazionali sono ancora quelle forgiate dopo la Seconda Guerra Mondiale. E’ forse ora di ripensarne la struttura e soprattutto la mission, cioè gli obiettivi che esse devono perseguire. La crisi globale, da questo punto di vista, pur con i suoi risvolti drammatici per intere nazioni e per tante persone e famiglie, può essere anche un’opportunità. Questo è lo sfondo sul quale si staglia la proposta di un cambio di paradigma insito nel pensiero e nell’opera di Chiara Lubich; un nuovo paradigma che mira a sostituire con la dimensione e la consapevolezza della fraternità gli assiomi dominanti della forza da un lato e degli interessi dall’altro; entrambi rivelatisi miopi, improduttivi e persino controproducenti. Certo, non è facile, e può apparire persino naïf, proporre la fraternità come categoria politica anche di natura internazionalistica nel momento in cui sembrano riapparire spinte protezionistiche, tentazioni di scorciatoie che seguono il modello beggar-my-neighbor e che invitano in sostanza ad un buy national ed a chiusure identitarie, mentre su scala planetaria assistiamo ai primi segnali di quella che è stata definita de-globalizzazione o sglobalizzazione. Tuttavia, rileggendo gli interventi e gli scritti di Chiara Lubich su questi temi emerge con chiarezza che non si tratta affatto di un'ennesima «utopia planetaria», ma di un programma di azione che punta alle radici, alla stessa ragion d'essere della comunità internazionale. Direi che la prospettiva che ne emerge, per quanto possa apparire paradossale, è una «teoria pragmatica» della fraternità universale. Una teoria che potremmo oggi definire anticiclica rispetto alla crisi. Tenterò di mettere alla prova l’idea delle fraternità come principio politico su scala globale confrontandolo proprio con due passaggi critici della fase attuale del mondo: da una parte, il tema della governance sia nel senso di riforma delle istituzioni che di revisione delle politiche; dall’altra, il problema che può essere sinteticamente (sebbene impropriamente) definito come lo “scontro di civiltà”, l’affermazione dell’identità e le tensioni che spesso ne derivano.
La globalizzazione – e ne abbiamo la prova con la crisi attuale - ha finito per rimettere in causa, in modo spesso disarmonico e disordinato, la distinzione tra politica nazionale (e sub-nazionale) e politica internazionale. E’ l’intera dimensione spazio-temporale della politica (interna e internazionale) che ne è stata investita. Ed è così paradossalmente accaduto che la condizione attuale di crisi ed il dibattito sulla governance abbiano in qualche misura riabilitato teorie e proposte che fino a poco tempo fa erano considerate velleitarie, eccentriche o irrilevanti per i rapporti internazionali. Basti pensare al filone della “democrazia globale” (David Held, Daniele Archibugi) che affronta alcune incongruenze dello scenario internazionale: democrazia all’interno degli stati e le relazioni non-democratiche tra gli stati; uno stretto legame tra responsabilità e legittimità democratica all’interno dei confini statali e perseguimento della ragion di stato (ed il massimo vantaggio politico possibile) al di fuori di tali confini; democrazia e diritti dei cittadini sulla base di appartenenze e la ricorrente negazione degli stessi diritti per quanti si trovino al di là del confine o che non siano protetti dalle garanzie derivanti dalla comune cittadinanza. Un’altra prospettiva, in vista di una governance democratica globale, propone di verificare se sia possibile proiettare al di là della comunità politica «nazionale» i principi considerati fondanti della struttura politica interna, come la libertà, l’uguaglianza e soprattutto il principio politico della fraternità. Si consideri, ad esempio, l’idea di Rawls, secondo il quale le ineguaglianze e le diversità di ruolo o asimmetrie all’interno della società possono essere giustificate solo se si rivelano più favorevoli per il membro più svantaggiato di essa. Come può tradursi questo principio a livello di politiche delle istituzioni economiche e finanziarie multilaterali? Un altro approccio, quello che fa capo al «welfare internationalism» (Wilfred Jenks), afferma che il benessere degli individui, le condizioni di vita dei singoli esseri umani, dovrebbero essere sempre al centro del sistema della relazioni internazionali e dovrebbero costituire un criterio di giudizio e di valutazione delle performaces delle istituzioni internazionali.
E se applicassimo questo metro al Fondo Monetario Internazionale, alla Banca Mondiale ed agli stessi Vertici che si susseguono freneticamente da diversi mesi per fronteggiare la crisi?
In un suo intervento, la Lubich affermava che nel mondo contemporaneo «si esige più parità, più solidarietà, soprattutto una più equa condivisione dei beni. Ma – aggiungeva – come si sa, i beni non si muovono da soli, non camminano da sé.» Non è un caso se uno dei più importanti ed autorevoli quotidiani del mondo, il Financial Times, abbia parlato proprio dell’«audacia dell’aiuto» (audacity of help). Se questi sono i termini della questione, è evidente che limitarsi alla riconfigurazione – pur importante e per molti versi indispensabile - della governance solo nel senso di un allargamento degli attuali organismi o degli attuali «formati» (dal G8 al G13/G14, al G16 o al G20) risponderebbe solo ad una parte del problema, ed in particolare assegnerebbe, sulla carta, maggiore rappresentatività a questi consessi. Ma il tema, come abbiamo visto, non è solo quello delle strutture e dei processi, quanto piuttosto quello delle politiche, e ancor più quello della formazione della stessa «agenda mondiale». Questo è un punto nodale, che va ben oltre la governance economica. Oggi si parla di una nuova Bretton Woods, cioè della necessità di rifondare le istituzioni finanziarie multilaterali; ma si parla assai meno di una nuova Dumbarton Oaks, cioè dell’esigenza di rivedere profondamente anche le Nazioni Unite ed il loro sistema di governo, in senso più paritario, rappresentativo, democratico. Se è ormai insufficiente l’idea di una governance without government, questo non vuole dire che si debba necessariamente prospettare un vero e proprio governo mondiale. Il mondo ha però bisogno di ampliare i canali di partecipazione e di responsabilità, a livello di istituzioni internazionali, a livello di governi, a livello di una cittadinanza attiva che non resti confinata negli ambiti nazionali. La fraternità ci suggerisce un progetto di unità nella distinzione, l’idea cioè di un’Autorità mondiale a carattere pluralista e a diversi livelli di sussidiarità, che porti ad un grado di maggior avanzamento il progetto appena abbozzato nell'impianto multilaterale delle Nazioni Unite. L’inizio del XXI secolo è stato caratterizzato dal grande tema dello «scontro delle civiltà», che ci ha persino spinti talvolta verso la deriva di una «civiltà dello scontro». Si sono manifestate forme di reazione alla globalizzazione, che è stata vissuta spesso come un fenomeno uniformante senza essere affatto unificante. Da questo punto di vista, è chiaro che la globalizzazione non è un fenomeno Universale, in quanto non consente a tutti di potervisi riconoscere o di sentirsene espressi. A ben guardare, oggi forse la categoria più importante nelle relazioni internazionali è quella dell’identità. Ma l’identità non va intesa come un fatto monolitico. Una cosa infatti è l’identità, un’altra cosa sono le appartenenze. L’identità è data da diverse appartenenze, che rendono «declinabile» il concetto di identità. Tuttavia le identita’ – come sostiene Alexander Wendt - non dovrebbero essere definite in termini sostantivi, cioè come date ed immutabili, poiché esse sono prevalentemente relazionali. Il progressivo sviluppo di un maggior numero di «identità collettive» – che tuttavia rispettino le identità originarie – tra contesti socio-politici diversi è pertanto uno dei processi centrali della politica internazionale. La grande sfida oggi è quella della ricerca e «messa in valore» di un’identità «collettiva» e dialogica più ampia, a livello globale, che tuttavia non distrugga il sistema delle appartenenze, ma che proprio a partire da esse costruisca una comune identità molteplice. Dalla visione della Lubich – fondatrice di un Movimento strutturalmente e direi persino geneticamente multiculturale, multietnico, multireligioso, diffuso in tutto il mondo – emerge il disegno di una ricchissima «identità collettiva», anzi di un’identità mutualmente comunicata, offerta e partecipata. “La più alta dignità per l’umanità – afferma la Lubich – sarebbe, infatti, quella di non sentirsi un insieme di popoli spesso in lotta fra loro”, ma, proprio grazie alla fraternità, “un solo popolo, arricchito dalla diversità di ognuno e per questo custode nell’unità delle differenti identità.” Si tratta, pertanto, di un concetto di mondialità più che di globalità, con un carattere davvero universale. E che ha una dimensione molto concreta: è l’idea di una «interdipendenza fraterna», concepita come «mutua dipendenza», perché essa implica che l’affermazione dell’identità «non può avvenire né per difesa, né per opposizione, ma si raggiunge attraverso la comunione delle risorse, delle virtù civiche, delle caratteristiche culturali, delle esperienze politico-istituzionali.» La cifra fondamentale di questa prospettiva è riassumibile nel celebre detto della Lubich: «Amare la patria altrui come la propria». Un capovolgimento di prospettiva radicale, dove la messa in valore delle identità nazionali, al riparo dal rischio sempre presente del nazionalismo e del particolarismo, non è in contraddizione con il riconoscimento sereno e costruttivo delle identità altrui. Lungi dal configurare contrapposizioni e frammentazioni, questa identità «dialogica» è il fondamento di una comunità mondiale arricchita proprio dall'incontro delle diversità. Inoltre, è un universalismo che non ha una natura astratta, perché parte dalle persone e dalle varie articolazioni della società e non si lascia confinare negli spazi spesso angusti dei rapporti tra governi e nei rigidi canoni delle relazioni diplomatiche. L'universalismo dell'unità è infatti anzitutto una prassi sociale, un modulo partecipativo, un modo di guardare al mondo dal punto di vista della fraternità e della reciproca appartenenza, come interdipendenza attiva e positiva, che ben poco ha in comune con la dimensione impersonale, con le macro-dinamiche della globalizzazione o l'istinto difensivo delle piccole patrie e di chiusura auto-referenziale che essa talvolta provoca. Concludo. Benedict Anderson ha scritto, a proposito delle identità nazionali, che esse, in fondo, sono tutte immaginate; ma ciò non significa affatto che esse siano anche immaginarie. Analogamente, la proiezione transnazionale della fraternità come principio politico implica la necessità di ampliare i margini dell’immaginazione politica, concependo le comunità nazionali non giustapposte ad altre ma limitrofe, tutte confinanti con l’umanità in quanto tale. Anche in questo caso, l’immaginazione politica rappresenta in realtà un esercizio di realismo politico, perché questa visione oggi è assai più aderente alla effettiva configurazione del mondo rispetto alle concezioni che privilegiano la politica di potenza o le varie versioni di egemonia. Un brano della Lubich fa stato di inquietudini e speranze nelle quali mi pare molti di noi si possano riconoscere in una situazione, come quella attuale, in rapida trasformazione, ricca di incognite ma anche di potenzialità: «In molti ci chiediamo oggi, a New York come a Bogotà, a Roma come a Nairobi, a Londra come a Bagdad, se sia possibile vivere in un mondo di popoli liberi, uguali, uniti, non solo rispettosi l’uno delle necessità dell’altro, ma anche solleciti alle rispettive necessità. La risposta è una sola: non solo è possibile, ma è l’essenza del progetto politico dell’umanità».

Il seme da nutrire


Riporto qui di seguito alcuni passaggi, riguardanti temi affrontati in questo blog, della bella ed articolata relazione fattami pervenire da Silvio Daneo sul simposio "Il seme da nutrire", a 50 anni dall’annuncio del Concilio Vaticano II (1959 - 2009). L'incontro, promosso da Paolo Masini, Consigliere del Comune di Roma, e da Claudio Cecchini, assessore alle politiche sociali e per la famiglia della Provincia di Roma, si e' svolto il 6 aprile 2009 nella Sala della Protomoteca del Campidoglio, a Roma (moderatore: David Sassoli; relatori: Camillo Reynaud Bersanino, Angelo Bertani, Mussi Bollini, Claudio Cecchini, Luigina Di Liegro, Giuseppe Ecca, Claudio Giambelli, Gian Mario Gillio, Paolo Masini, Padre Venanzio Milani, Carlo Mosca, Fabio Perroni, Ernesto Preziosi, Massimo Rendina, Vittorio Sammarco, Massimo Vallati, Giancarlo Zizola). Scrive, tra le altre cose, Silvio Daneo:
Sono rimasto impressionato dall’intervento di Gian Mario Gillio, direttore della prestigiosa rivista “Incontri” (mensile di politica, società, dialogo,tra culture e religioni edito dalla Chiesa Valdese). Ha offerto una incoraggiante testimonianza circa il dialogo ecumenico, descrivendo, fra l’altro, la incredibile svolta che il Vaticano Secondo provocò in questo campo che fino ad allora si limitava a timide preghiere per l’unità dei cristiani. Ha citato una recente affermazione del cardinale Kasper, nel grande incontro ecumenico di Sibiu in Romania, che invitava tutti coloro che sono impegnati nel dialogo ecumenico a guardare in faccia anche le “differenze”, ed affermando che il dialogo deve diventare “teologico”, se si vuole progredire, e che occorre perseverare nella stima reciproca e nello sforzo comune di conoscere meglio le diversità fra le varie confessioni cristiane , valorizzandole (Giovanni Paolo II aveva già detto chiaramente che ogni Chiesa ha sviluppato al suo interno un “modo” di vivere il Vangelo, vari carismi, che dovranno essere sempre di più patrimonio comune di tutti i cristiani, man mano che progredirà la comunione fra essi). Oggi rimane il documento straordinario del Concilio vaticano II sull’ecumenismo “Unitatis redintegratio” che si può considerare non più solamente un seme, ma che potrà raggiungere le dimensioni di un grande albero carico di frutti se si metterà in pratica la dottrina che lo Spirito ha donato alla Chiesa di oggi. Basta pensare al numero impressionante di iniziative ecumeniche, promosse ed animate soprattutto dai Movimenti ecclesiali sia cattolici, che di altre Chiese, che sono seriamente impegnati in questo campo. Cito ancora il breve ma incisivo tema svolto dall’ Ing. Camillo Reynaud Bersanino, per anni Presidente della Sezione italiana della Conferenza Mondiale “Religioni per la Pace”. Ha ricordato come fosse, in pratica, inesistente il dialogo interreligioso prima del vaticano II. Il Concilio vi ha dedicato un intero documento, celeberrimo ormai, “Nostra Aetate”, in cui viene affermato il sacrosanto diritto alla libertà religiosa. Giovanni Paolo II ne fu un instancabile apostolo. Chi non ricorda i due suoi incontri ad Assisi con i capi di tutte le Religioni del pianeta ( 1986 e 2002), incontri di preghiera per la pace! Una delle innumerevoli sue affermazioni, alla gente più comune, in una udienza generale del mercoledì, papa Woytila diceva che i cattolici devono essere consapevoli che il cammino verso la pienezza della verità (cfr Gv 16,13) richiede l'umiltà dell'ascolto per cogliere e valorizzare ogni raggio di luce, sempre frutto dello Spirito di Cristo, da qualunque parte venga! ( citava appunto il documento conciliare “Nostra Aetate”). Da quando è tornato dal suo primo viaggio in Africa, Papa Benedetto XVI non perde occasione per sottolineare ed elencare i tanti valori e ricchezze che dovremmo “importare” dalla cultura e dalle tradizioni africane). Certo, il dialogo interreligioso non solo è affascinante ed è una costante gioiosa scoperta che arricchisce tutti coloro che vi si coinvolgono, ma è diventato ormai un “must”, una urgente necessità ovunque, in modo del tutto particolare in Europa! E’ consolante sapere quante persone “qualificate” ed anche semplici membri delle più varie religioni, in ogni angolo del pianeta, sono impegnati in questo “dialogo”! Di tale enorme enorme importanza che la Chiesa Cattolica, dopo il Vaticano II, ha costituito un apposito “Pontificio Consiglio per il dialogo interreligioso” oggi presieduto dal Cardinale Jean-Louis Touran. Se poi si dovesse descrivere l’operato di alcuni Movimenti cattolici in questo campo ed altre prestigiose Organizzazioni, come la WCRP (Religioni per la Pace), di Associazioni e gruppi ebraici, musulmani, buddhisti, induisti, ed altri ancora, occorrerebbero fitte pagine. Ciò stimola a proseguire sempre più “preparati” e con una crescente consapevolezza su questa “via” per un mondo unito.

Dialogare con il nemico? (parte quinta)

Continuando la rassegna (più o meno meditata) di commenti sulle ipotesi di dialogo con i nemici, riporto qui di seguito il commento pubblicato di Bob Kaplan pubblicato sul "Corriere della sera" l'11 aprile 2009 (originalmente su "The Atlantic" on-line il 6 aprile 2009). Kaplan non è certo un pacifista ad oltranza, né è uno che appare molto incline al cosiddetto "appeasement", tutt'altro. Rientra piuttosto nel filone del cosiddetto neo-realismo in politica estera. Per Kaplan, la vicenda afghana è strettamente collegata a quella pachistana, anche attraverso filoni meno evidenti, "carsici". La complessità di quella regione non consente semplificazioni pregiudiziali come quelle che ci capita spesso di sentire nei commenti più ideologizzati - regolarmente erronei e potenzialmente persino dannosi per la causa della pace.
Per quanto sia forte l`influenza esercitata su un dato Paese, è raro che si possa indurlo ad agire contro i suoi interessi vitali. Gli Stati Uniti si scontrano ormai da decenni con questo dilemma, nell`ambito dei loro rapporti con Israele e Corea del Sud. E l`interesse basato su fattori geografici a rendere i rapporti dell`America con questi due stretti alleati particolarmente incrinabili. Israele si ostina da lungo tempo -a rifiutare di ridurre gli insediamenti nei territori occupati, vanificando così gli sforzi di pacificazione `orchestrati dagli Usa, proprio mentre i loro soldati muoiono in Iraq e in Afghanistan. La Corea del Sud, viceversa, ha teso in particolari circostanze un ramoscello d`olivo ai comunisti nordcoreani, frustrando in tal modo i tentativi statunitensi di erigere un fronte solido e compatto contro il regime di Pyongyang. Oggi l`America si trova a fronteggiare questo stesso problema con un altro dei suoi presunti alleati: il Pakistan. Gli Usa pretendono che la direzione dell`Inter-services intelligence (Isi), l`agenzia di spionaggio del Pakistan, tronchi ogni rapporto con i talebani. In ragione della configurazione geografica del loro Paese, agli occhi dei pachistani tutto ciò appare insensato. Innanzi tutto, mantenere linee di comunicazione e canali informali con il nemico rientra tra le attività delle agenzie di intelligence. Se l`Isi non intrattenesse alcun contatto con uno degli attori chiave che concorreranno a determinare il futuro del suo Paese vicino, che genere di servizio spionistico sarebbe? Ciò appare particolarmente evidente se si considera il lungo e turbolento confine territoriale tra Pakistan e Afghanistan, e come i due Paesi formino un`unica, organica regione. A dir la verità, Sugata Bose, professore di Storia ad Harvard, nel 2003 ha sostenuto che la zona frontaliera tra Pakistan e Afghanistan «storicamente non è mai stata una frontiera», bensì il «cuore» stesso di un «bacino economico, culturale e politico indo-persiano e indo-islamico che aveva stretto a sé Afghanistan e Punjab per due millenni». Il fatto, come ormai tutti ribadiscono, che non può esservi una soluzione per l`Afghanistan senza una soluzione per il Pakistan, è di per sé rivelatore di quanto sia forte il legame che unisce i due Paesi. Per questo è ancor più importante che l`Isi mantenga contatti e reti informative sofisticate con tutti i principali gruppi politici e di guerriglieri afghani. Anche gli Stati Uniti hanno seguito la stessa strada. Nel 1976, l`inviato speciale Talcott Seelye poté dar corso all`evacuazione dei diplomatici americani e delle loro famiglie da una Beirut devastata dalla guerra soltanto grazie ai contatti con l`Organizzazione per la liberazione della Palestina (Olp), un gruppo con cui all`epoca, teoricamente, non si sarebbe dovuto trattare. E tutti concordano nel sostenere che fu un grave errore, da parte dell`America, abbandonare in modo repentino la regione di confine tra Pakistan e Afghanistan dopo la caduta del Muro di Berlino, buttando alle ortiche i contatti meticolosamente costruiti in loco. E bene ricordare che non furono gli integralisti infiltrati nei ranghi dell`lsi a decidere, nella metà degli anni '80,di favorire l`ascesa al potere dei talebani: fu il governo democraticamente eletto di Benazir Bhutto, leader politico formatosi in Occidente, a imboccare quella strada, nella convinzione che i talebani avrebbero contribuito alla stabilizzazione dell`Afghanistan. Questo retroterra indica quanto sia forte il sostegno all`opzione del dialogo con i talebani da parte della classe politica pachistana. L`establishment politico e militare pachistano osserva l`Afghanistan attraverso la lente del conflitto con l`India. Quando guarda a Ovest, prefigura un «Islamistan» conl`Afghanistan e altri Paesi dell`Asia centrale, da mettere in diretta contrapposizione all`India a maggioranza indù, a est del Pakistan. Il presidente afghano Hamid Karzai, di orientamento filo-occidentale e filo-indiano, si pone come intralcio alle mire pachistane. Anche qualora raggiungessero un`intesa con Karzai, tuttavia, le autorità di Islamabad avrebbero pur sempre bisogno di intrattenere contatti con tutti i gruppi afghani, compresi i talebani. Ovviamente, gli Stati Uniti possono e devono pretendere che il Pakistan rinunci ad aiutare i talebani a pianificare ed eseguire le loro operazioni. Ma troncare completamente i rapporti è un`ipotesi che i pachistani, molto semplicemente, non possono attuare, e tentare di insistere su questo punto significherebbe soltanto esacerbare le tensioni tra Pakistan e America. Che cosa fare, dunque? C`è chi sostiene che l`America dovrebbe abbandonare tout court l`impegno in Afghanistan, con l`eccezione degli attacchi mirati contro Al Qaeda. Ma il presidente Barack Obama ha già deciso in senso opposto, e sta rafforzando la campagna con l`invio di nuove truppe e personale civile, dando corso di fatto l "nation-building" dell`Afghanistan. La speranza è che, dirottando il corso della guerra a nostro favore, i pachistani possano, in virtù dei loro stessi interessi, raggiungere un miglior accordo con il filo-occidentale Karzai, pur mantenendo contatti meno pregiudizievoli e di basso livello con i talebani. Il meglio che possiamo augurarci. Come in Iraq, potremmo scoprire che per mettere a segno progressi e delineare una strategia d`uscita, sarà necessario intavolare negoziati con alcuni degli elementi stessi contro cui ci battiamo. E, a un dato momento, potremmo anche ritrovarci a trattare direttamente con esponenti dei talebani. L`unica cosa che gli Stati Uniti non possono permettersi, in una situazione così intricata, è lanciare coram populo secchi ultimatum a quelli che dovrebbero essere i suoi alleati.

Dialogare con il nemico? (parte quarta)

Torna il tema dell'analogia (ardua, quanto meno) tra la vicenda del Sinn Fein in Irlanda del Nord e quella di Hamas nella Striscia di Gaza. Umberto De Giovannangeli, sulle pagine dell'Unita', riporta oggi un'intervista a Gerry Adams, leader del Sinn Fein, il più importante partito cattolico nordirlandese, gia' braccio politico dell`Ira. Nei giorni scorsi, Adams ha visitato la Striscia di Gaza. Per la verita', le sue risposte a De Giovannangeli sono improntate, tutto sommato, ad una sufficiente dose di realismo.

Lei ha visitato Gaza. Quali impressioni ne ha ricavato?
«Sconvolgenti. I segni della guerra sono ovunque. Nelle case distrutte, nell`emergenza umanitaria che riguarda centinaia di migliaia di persone, in maggioranza bambini e adolescenti. Su quelle macerie non può crescere la speranza, ma solo rabbia, disperazione. Gaza resta ancor oggi una enorme prigione a cielo aperto da dove è impossibile uscire. La mancanza di qualsiasi libertà di movimento rappresenta una odiosa, iniqua, inaccettabile punizione collettiva. Ma la gente di Gaza è anche gente orgogliosa, che desidera vivere libera e in pace. Non è vero che Gaza è un covo di estremisti fanatici. Ognuno di noi ha l`obbligo morale, prima che politico, di fare tutto il possibile perché ciò che è accaduto non si ripeta».
Ricercare la pace. Nobile intendimento. Ma come concretizzarlo?
«Non esiste altra via che quella del negoziato. Negoziato diretto tra la leadership israeliana e quella palestinese. Con il supporto attivo della comunità internazionale, in particolare degli Stati Uniti. Le prese di posizione del presidente Obama sono in questo senso incoraggianti. Non esistono scorciatoie militariste per veder riconosciuti i propri diritti. E questo vale sia per gli israeliani che per i palestinesi. A volte ci vuole più coraggio a deporre le armi che a utilizzarle. E un primo passo nella giusta direzione è una completa cessazione di ogni ostilità e la libertà di circolazione per tutti».
Lei parla della necessità di un negoziato diretto tra tutte le parti in conflitto. Anche Hamas?
«Su questo punto il mio pensiero coincide pienamente con quello di Jimmy Carter: Hamas è un movimento complesso, con diverse sfaccettature al suo interno, comunque fortemente radicato nella società palestinese. Escluderlo da un negoziato finisce per favorire le frange più estreme. Questo non giova a nessuno, neanche a Israele. La pace si fa con i nemici».
Usa e Ue pongono il riconoscimento di Israele da parte di Hamas come precondizione di un possibile negoziato.
«Penso che il riconoscimento di Israele debba essere lo sbocco di un dialogo tra le parti. Quel che conta è che le armi tacciano da parte di tutti. Questa sarebbe la vera svolta».
II governo israeliano ha rifiutato di incontrarla.
«Mi dispiace di questo perché evidentemente non si è compreso lo spirito di questa mia visita. Una cosa posso dirle, partendo dalla mia esperienza di vita: come leader di un partito che per anni è stato censurato e demonizzato; un partito che ha visto uccisi molti dei suoi membri, ho maturato la consapevolezza che solo il dialogo tra tutte le parti può essere la chiave di successo per la costruzione di un processo di pace».
Un processo che in Irlanda del Nord si è inverato con gli «Accordi del Venerdì santo» del 1998. È uno schema esportabile anche in Medio Oriente?
«Alcune affinità possono essere riscontrate ma esistono anche differenze significative. Ma è chiaro - e ciò è valso in Irlanda del Nord come vale per il conflitto israelo-palestinese - che la pace è possibile solo se le leadership in campo, in ambedue le parti, sono pronte ad assumersi rischi e accettare un compromesso».

Alleanza delle civilta'


Ho partecipato al secondo Forum dell'iniziativa "Alleanza delle civilta'" , tenutasi ad Istanbul e nata da un'iniziativa congiunta tra Spagna e Turchia fin dal 2004. Appoggiata dalle Nazioni Unite, l'"Alleanza delle civilta'" pone all'attenzione degli analisti internazionali un fattore che sta divenendo centrale nello scenario mondiale, ed e' importante direi almeno quanto il tema del disarmo nucleare. Il genuino e sereno convincimento religioso, ad esempio, viene concepito - ovviamente al di fuori di ogni deriva di radicalizzazione e di estremismo - come un elemento della cultura in senso ampio, che puo' condurre al dialogo ed alla pace, invece di rappresentare un ostacolo per relazioni internazionali cooperative. Inoltre l'iniziativa sottolinea la centralita' di un approccio "bottom-up", basato sull'apporto della societa' civile e soprattutto dei giovani. In questa circostanza sono state avviate due iniziative: una "clearing house" per favorire lo scambio di esperienze nel sostegno al dialogo tra le culture, ed un meccanismo di "risposta rapida", anche in termini di informazione responsabile, rispetto al montare di tensioni interculturali. Sarebbe un grave errore considerare questa prospettiva come velleitaria, irrilevante o genericamente buonista: al contrario, essa affronta alle radici fenomeni di grande rilevanza e gravita', che possono perfino alimentare il terrorismo transnazionale, puntando alle cause profonde, che risiedono spesso nello stereotipo, nel pregiudizio, nella difesa identitaria "aggressiva" e tendenzialmente distruttiva. Per la cronaca, anche Obama ci ha fatto una capatina. Un tema da sviluppare ed approfondire.

La guerra "incivile"


Ci sono le guerre "internazionali" o trans-nazionali, ma ci sono anche guerre "interne", che tuttavia non sono affatto "civili". Quelle generate dalle "forze di occupazione" endogene delle grandi organizzazioni criminali, dalla mafia alla camorra alla 'ndrangheta alla nuova corona unita al cartello di Medellin. In realta', anche queste forme di criminalita' hanno sempre piu' una chiara caratterizzazione internazionalistica: basti considerare che gli Stati Uniti hanno inserito la 'ndrangheda tra le organizzazioni delinquenziali piu' pericolose del pianeta. E' interessante notare il parallelismo che viene proposto tra i processi di risoluzione dei conflitti e quelli di "debellatio" della criminalita' transnazionale, che vanno pero' accompagnati da iniziative di ricomposizione del tessuto sociale, di riattivazione della fiducia ("confidence-building"), di riconciliazione. Tutti questi percorsi si ricompongono nella categoria piu' ampia di "legalita'", un concetto forse piu' profondo di quello (pur imprescinfibile) del rispetto della "rule of law". E' tenendo presente questo quadro complesso che segnalo il libro di Roberto Mazzarella, "L'uomo d'onore non paga il pizzo" (Citta' Nuova, Roma 2009), nel quale l'autore, che conosco da vecchia data, da' conto con realismo, senza enfasi, ma con una irriducibile "forza tranquilla", di una maturazione progressiva di un coscienza sociale piu' responsabile, la sola in grado di estirpare le radici delle mafie. Ed e' fondamentale che siano sempre piu' i giovani a condurre il cammino verso una "exit strategy" da un conflitto che, considerati i numeri di morti, solo in senso "tecnico" puo' essere definito "a bassa intensita'". Per connessione, ricordo anche, come ulteriore segnale di questo incipiente risveglio, che speriamo si consolidi progressivamente, la recente manifestazione svoltasi a Napoli a favore della legalita' dall'associazione "Libera" di don Ciotti, all'insegna del “No alla mafia, il No alla camorra, il No alla ‘ndrangheta, il No alla sacra corona, il No a tutte le mafie del mondo”! E' anche questo un modo per manifestare e soprattutto per impegnarsi pro-attivamente a favore della pace.

Diaogare con il nemico? (parte terza)

Segnalo una ricerca di un paio di anni fa, ma tuttora validissima, di Dalia Dassa Kaye, della Rand Corporation, sul tema del dialogo con il nemico, che prende in considerazione non già l'ottica politico-diplomatica o governativa, ma il cosiddetto "secondo binario" ("track two diplomacy") in chiave regionale e multilaterale. L'approccio politico non-ufficiale sta diventando, in questo difficile ambito, pieno di rischi ed incognite, una componente sempre più rilevante in un panorama internazionale in profondo mutamento, anche nel settore della sicurezza in senso lato. Ed in effetti il lavoro si concentra sulle tematiche del controllo degli armamenti e su altre misure di "sicurezza cooperativa" in Medio Oriente ed in Asia meridionale. Kaye non teme di affrontare in questo contesto anche tematiche estremamente delicate, quali ad esempio la non-proliferazione nucleare in un auspicabile quadro di sicurezza regionale, mettendo in luce il contributo che la diplomazia del secondo binario può offrire al riguardo. Questo a riprova che l'approccio del secondo binario non è di tipo vagamente "solidaristico" o residuale rispetto alla politica in termini di "potenza". Il secondo binario, in effetti, ha la potenzialità di poter far emergere idee nuove e nuove prospettive di soluzione dei conflitti che, nel corso del tempo, possono influenzare le scelte politiche "ufficiali". Nello studio in questione si mette in evidenza come l'impegno per una diplomazia di secondo binario (non mi piace la definizione, talvolta usata, di "diplomazia parallela") in Asia Meridionale e nel Medio Oriente abbia indotto i partecipanti a "pensare" il tema della sicurezza in termini più cooperativi, prospettando anche una verifica dell'impatto che le idee sorte nel corso di tale esercizio hanno avuto a livello della società in sempo ampio e se ed in che modo esse abbiano influenzato anche le scelte politiche dei governi e degli apparati ufficiali. Nel comparare le due regioni studiate, Kaye giunge alla conclusione che gli incontri riguardanti l'Asia meridionale, relativi ad esempio al Kashmir e ad altre aree problematiche, sono stati nel complesso più efficaci rispetto ai risultati riscontrati per il Medio Oriente, dove l'assenza di progressi sostanziali nei colloqui di pace ufficiali arabo-israeliani hanno negativamente influenzato anche gli approcci regionali di secondo binario. Questa constatazione sembra dunque suggerire una "complementarità" più che una sostitutività o alternatività tra la diplomazia ufficiale e la diplomazia informale (o "sociale") del secondo binario.