Una sconfitta del sogno europeista

Condivido la seguente analisi di Paolo Pombeni pubblicata sul "Mattino" di oggi 20 Novembre 2009 riguardo alla vicenda della nomina del nuovo Alto Rappresentante della politica estera e di difesa europea. Al di la' dei nomi e delle qualita' delle persone scelte per i due alti incarichi istituiti dal Trattato di Lisbona (entrambe piu' che rispettabili), la tendenza miope e potenzialmente auto-distruttiva alla ri-nazionalizzazione delle politiche degli Stati membri dell'UE non rendera' certamente grande nessuno degli attuali "nani politici" che pretendono di avere un qualche peso, "uti singuli", nel processo di traslazione del potere mondiale verso i cosiddetti "Paesi emergenti" (in realta' emersi da tempo) come Cina, India, Brasile. E' una scelta anti-storica; un passo avanti verso la "disintegrazione dell'Europa", considerata ormai a Parigi, a Londra e a Berlino come una sorta di "segretariato esecutivo" delle ex-grandi potenze che non si rassegnano a pensare il mondo in termini realistici, e cioe' come un network complesso dove contano le macro-regioni e dove avra' sempre piu' peso concreto (altro che utopia!) la capacita' di immaginare soluzioni innovative, inclusive, trans-nazionali.
Diciamolo francamente: un`Europa così ci piace poco. Non è questione di nazionalismo, ma di senso degli obiettivi che ci si vogliono porre. L`Europa ha un problema grosso ed è quello dì contare sulla scena internazionale. Basta guardare a quello che è successo in questi giorni con la missione di Obama in Estremo Oriente, per capire quali rischi di irrilevanza corre la UE nella nuova strategia globale. Romano Prodi lo va ripetendo da tempo. Consapevole che ci sarebbe bisogno del classico colpo di reni se non si vuole essere tagliati fuori dal ridisegno della geografia politica mondiale. Ebbene, a fronte di questo cosa avviene? Ventisette capi di stato, nell`antistorica illusione di salvare il peso autonomo di ciascuno dei loro paesi, affossano le potenzialità che mette loro in mano il Trattato di Lisbona faticosamente varato dopo un lungo tira e molla. Come altrimenti si potrebbe definire la scelta di avere come Presidente della Unione il premier belga Roumpuy, figura non certo carismatica, ma almeno un capo di governo, ma soprattutto di
mettere alla testa della politica estera europea Catherine Ashton, una figura più che pallida, mai stata neppure ministro, arrivata da poco nel meccanismo di Bruxelles? Il famoso numero di telefono che cercava Kissinger temiamo continuerà a suonare a vuoto, perché da quel che è stato deciso emerge con tutta evidenza che il Trattato di Lisbona non rilancia la governance di una "Unione", ma ripiega su una pallida confederazione in cui nessuno deve disturbare i poteri dei vecchi capi di stato europei, ancora illusi di poter pesare alla testa non più di "potenze", ma di stati-nazione che non hanno il peso né fisico né morale per dettare una qualche linea sul fronte delle relazioni internazionali. Come si è giunti a bruciare candidature ben più prestigiose? I retroscenisti si sbizzarriranno a darci notizie su questa politichetta dei Sarkozy, Merkel, Brown e compagnia, abili nel montare gli umori dei paesi minori, nel fingere di essere lungimiranti perché si va dietro alle mode di turno (ci vuole la donna, bisogna tenere dentro la Gran Bretagna, ecc.), ma ciechi nel non vedere che il consenso all`Europa è in netto calo dentro e fuori la UE. Emblematico di come si ragiona a Bruxelles era già stato nei giorni scorsi il discorso del verde Cohn Bendit su D`Alema: "non si è molto occupato di diritti umani". Eccoli, espressi in bella forma, i cascami della politica come utopia. Certo gente come D`Alema o Milliband (l`altro candidato forte) o Giuliano Amato (nome che pure era emerso per brevi attimi) sono gente che fa politica piuttosto che prediche e appelli. Però di questo aveva bisogno l`Europa, proprio nel momento in cui dobbiamo confrontarci con una crisi internazionale che minaccia di non essere solo economica. Qualcuno fra i 27 ascoltava le notizie sulle esternazioni di Obama a proposito del nucleare iraniano e del gioco allo sfinimento che ha messo in piedi la Corea del Nord? Qualcuno pensa cosa ci potrebbe toccare in una fase in cui i grandi paesi avranno da misurarsi con crisi interne non facilmente gestibili, cioè con le condizioni che storicamente sono più propizie per scaricare all`esterno questo genere di problemi? I maligni diranno che uno deí vincitori di questa modesta partita è stato Barroso, che era colui che rischiava di più dalla presenza di un "ministro degli esteri" e vicepresidente della Commissione che fosse dotato di una rilevante personalità. Può darsi, ma in fondo ciò farebbe parte delle normali dinamiche della politica. La cosa incomprensibile è invece l`incapacità del parlamento europeo, cioè dei nostri rappresentanti, di capire che assecondando questo giochetto, come pare abbiano fatto, si è castrato con le sue mani. Il Presidente da un lato, ma lo stesso Alto rappresentante dall`altro dovevano essere, nella architettura di chi aveva pensato prima il Trattato costituzionale e poi la sua versione ridotta approvata a Lisbona, le colonne di una nuova capacità di incidere dell`Europa proprio in quanto "Unione". Ciò avrebbe significato anche per il Parlamento poter fare "politica" (e non solo dibattiti a vuoto sui massimi sistemi o leggine per regolamentare materie in fondo minori) e dimostrare agli scettici cittadini della UE, i quali per più di metà non vanno neppure a votarli, che l`Europa c`era e che valeva la pena di impegnarsi a farla crescere. Diciamolo francamente: oggi, per tutti gli europeisti veri è una giornata triste.

Un trattato sul commercio delle armi

I Ministri degli esteri britannico e francese, rispettivamente David Miliband e Bernard Kouchner, hanno scritto l'articolo riprodotto qui di seguito, pubblicato sull'"Osservatore romano" dell'11 novembre, per presentare la loro iniziativa a favore della negoziazione e firma di un trattato internazionale per regolamentare il commercio internazionale di armi. Lodevole iniziativa, che pero' si presta ad alcune osservazioni critiche non secondarie. Non si tratta, in primo luogo, di una sorta di "conversione" al pacifismo di due tra i Paesi piu' rilevanti sotto il profilo degli arsenali militari mondiali. La proposta si propone di estendere i controlli sul mercato degli armamenti (convenzionali), di ridurre lo smercio illegale, ma non dice nulla sulla necessita' di diminuire la produzione degli armamenti, che, in base a considerazioni di "costo-opportunita'" inevitabilmete dreano risorse umane, intellettuali ed economiche dagli usi civili. Le industrie nazionali, in questo settore, hanno un notevole potere di influenza e condizionamento, e certamente non solo in Francia ed in Germania. Fu il Presidente degli Stati Uniti, Dwight D. Eisenhower, nel discorso d'addio alla nazione del 17 gennaio 1961, a mettere in guardia contro il pericolo di connivenze fra potere politico, industria bellica e vertici militari.
Un elemento vitale nel mantenimento della pace - disse Eisenhower - sono le nostre istituzioni militari. Le nostre armi devono essere poderose, pronte all'azione istantanea, in modo che nessun aggressore potenziale possa essere tentato dal rischiare la propria distruzione...Questa congiunzione tra un immenso corpo di istituzioni militari ed un'enorme industria di armamenti è nuovo nell'esperienza americana. L'influenza totale nell'economia, nella politica, anche nella spiritualità; viene sentita in ogni città, in ogni organismo statale, in ogni ufficio del governo federale. Noi riconosciamo il bisogno imperativo di questo sviluppo. Ma tuttavia non dobbiamo mancare di comprendere le sue gravi implicazioni. La nostra filosofia ed etica, le nostre risorse ed il nostro stile di vita vengono coinvolti; la struttura portante della nostra società. Nei concili di governo, dobbiamo guardarci le spalle contro l'acquisizione di influenze che non danno garanzie, sia palesi che occulte, esercitate dal complesso militare-industriale. Il potenziale per l'ascesa disastrosa di poteri che scavalcano la loro sede e le loro prerogative esiste ora e persisterà in futuro. Non dobbiamo mai permettere che il peso di questa combinazione di poteri metta in pericolo le nostre libertà o processi democratici. Non dobbiamo presumere che nessun diritto sia dato per garantito. Soltanto un popolo di cittadini allerta e consapevole può esercitare un adeguato compromesso tra l'enorme macchina industriale e militare di difesa ed i nostri metodi pacifici ed obiettivi a lungo termine in modo che sia la sicurezza che la libertà possano prosperare assieme..

In secondo luogo, la proposta Miliband-Kouchner non menziona (ne' poteva farlo, in verita', trattandosi di un ambito profondamente diverso) la questione delle armi nucleari. Viene il sospetto che l'iniziativa intenda rispondere alla "fuga in avanti" di Obama sul disarmo nucleare, la cosiddetta "opzione zero" (eliminazione di tutte le armi nucleari) che non e' gradita ne' a Parigi ne' a Londra, essendo i due Paesi potenze nucleari militari, il cui status e' stato sancito dal Trattato di non proliferazione. Come dire: non solo Obama puo' esibire credenziali per il disarmo e il controllo degli armamenti. Anzi, come si evince dal testo dell'articolo, gli Stati Uniti, in questo ambito, sembrano essere "al traino" dei due Paesi europei proponenti. L'ideale sarebbe coniugare disarmo nucleare e drastica riduzione nella produzione industriale degli armamenti convenzionali; la proposta ne guadagnerebbe in credibilita'. In ogni caso, meglio di niente!
Una delle grandi tragedie dei nostri tempi è la diffusione incontrollata di armi, spesso provenienti da mercati illegali, a volte in violazione di embarghi internazionali. Fino a mille persone al giorno, per lo più donne e bambini, vengono uccise da queste armi, la maggior parte nei Paesi più poveri del mondo. Queste armi alimentano il conflitto, disgregano le società e impediscono alle famiglie di emergere dalla povertà. È urgente imperativo morale affrontare un problema globale di cui si sta perdendo il controllo. Un passo cruciale sarà quello di negoziare un trattato sul commercio delle armi a livello mondiale. Dal 2006 Gran Bretagna e Francia cooperano strettamente per promuovere l'idea di un trattato di questo genere alle Nazioni Unite. Un trattato sul commercio delle armi riunirebbe le tessere dell'attuale mosaico di sistemi nazionali e regionali che regolano le esportazioni di armi. Sono le lacune in questi sistemi e la loro mancanza di coesione e di coerenza ad avere permesso il sorgere di mercati illegali di armi. Stiamo facendo buoni progressi. Nel luglio di quest'anno, per la prima volta, alcuni Paesi hanno concordato formalmente sul fatto che il commercio internazionale di armi convenzionali senza regole stava causando un problema globale. E il 30 ottobre, una schiacciante maggioranza di Paesi ha votato a favore dell'adozione di un chiaro scadenzario per elaborare un trattato. In particolare, accogliamo con favore l'annuncio fatto il 14 ottobre da Hillary Clinton che gli Stati Uniti sosterranno un trattato. È la prima volta che gli Stati Uniti prendono una simile posizione. Secondo il piano concordato presso le Nazioni Unite il 30 ottobre, i Governi hanno stabilito di incontrarsi nel 2010 e nel 2011 per preparare un'importante conferenza diplomatica nel 2012 che, speriamo, definirà un trattato. Negoziare le disposizioni precise di un trattato sul commercio delle armi è probabilmente un processo complesso. Sappiamo bene di volere un trattato dagli standard più alti possibili, per garantire la tutela della vita e della dignità, e lo vogliamo il prima possibile. Ma le questioni sono tecnicamente difficili e bisogna soddisfare le esigenze di tutti i 197 Stati membri delle Nazioni Unite. I Governi avranno inevitabilmente un ruolo guida nel negoziare il contenuto del nuovo trattato. Ma la diplomazia moderna non riguarda soltanto funzionari che lavorano all'interno di organizzazioni internazionali. Essa deve anche garantire che il processo decisionale rifletta le opinioni di una società globale sempre più interdipendente e ben informata. Per questo i gruppi della società civile devono svolgere un ruolo vitale se dobbiamo davvero raggiungere l'obiettivo di un trattato sul commercio delle armi che sia universale ed efficace. Nel corso della storia le considerazioni morali hanno spesso modificato l'orientamento verso un'azione politica e sociale e sono state l'impulso al cambiamento. Oggi non è diverso. Nei tre anni che ci separano dalla conferenza diplomatica dobbiamo mantenere il nostro slancio e persuadere quanti nutrono dubbi sul trattato sul commercio delle armi. È vitale per quanti hanno a cuore la questione morale assicurarsi che questo processo abbia successo. Collaboreremo con una vasta gamma di ong, gruppi religiosi e attivisti indipendenti, che hanno tutti espresso il proprio sostegno al trattato, per garantire che le loro voci vengano opportunamente ascoltate. Questi gruppi hanno reti di base mondiali, che parlano in modo unico al di là delle culture, delle lingue e delle Nazioni. Sono stati importanti nel mettere la riduzione del debito in cima all'agenda del g8, attraverso le campagne Make Poverty History e Jubilee Debt. Il Regno Unito e la Francia hanno collaborato a stretto contatto con le ong, con i gruppi religiosi e con gli attivisti per garantire la Convenzione sulle munizioni a grappolo dello scorso anno, sottoscritta ormai da più di cento Paesi. Gli stessi gruppi possono svolgere ora un ruolo importante per rendere il trattato sul commercio delle armi una priorità internazionale. La Santa Sede ha svolto un ruolo vitale nel contribuire a creare il consenso per arrivare alla convenzione sulle munizioni a grappolo ed è stata tra i primissimi firmatari. Ora speriamo di poter collaborare a stretto contatto con la Santa Sede per questo nuovo trattato. Non dovremmo lasciarci sfuggire questa opportunità.

A vent’anni dal Muro, una «nuova alleanza» globale


Se la crisi globale ha un merito – ammesso che ve ne sia uno – e’ che, dopo vent’anni, e’ venuto meno il “trionfalismo della guerra fredda”. Che suonava piu’ o meno cosi’: il capitalismo e la democrazia liberale hanno vinto, il comunismo ed il socialismo reale hanno perso, c’e’ dunque un solo modello sociale, economico e politico, ed e’ quello liberale e liberista. E’ la retorica della “fine della storia”. Ma a due decenni dalla caduta del Muro di Berlino, non e’ forse caduto anche il “Muro di Wall Street”? Il punto e’ che un evento storico di tale portata non puo’ essere ridotto a formule semplicistiche. Il Muro di Berlino cadde (anzi, per essere precisi, fu “abbattuto”) per una serie di concause, dal fallimento economico del modello dirigista e statalista dell’Est (una sorta di “implosione”) all’insostenibilita’ anzitutto economica di una folle corsa agli armamenti tra Stati Uniti e Unione Sovietica, all’operare di “forze profonde” di matrice sociale, culturale e spirituale che i regimi comunisti non sono mai riusciti a sopire. Guardando all’attuale “disordine mondiale”, alcuni commentatori sono persino arrivati a rimpiagere la “stabilita’” prodotta dalla Guerra Fredda. E’ un’opinione che non si puo’ condividere, per diverse ragioni. Anzitutto perche’ si dimentica che quella terminata nel 1989, ancorche’ “fredda”, e’ pur sempre stata una guerra. In quasi tutti gli angoli del mondo, e in quasi tutte le attivita’ umane, possiamo riscontrare ancora oggi l’impatto negativo di un confronto durato ben 45 anni. In secondo luogo, perche’ se la caduta del Muro ha portato all’esplosione di conflitti a lungo sopiti (basti pensare alla ex-Jugoslavia), questo evento epocale ha anche liberato forze prigioniere della logica bipolare, consentendo, ad esempio, la “riunificazione” – come diceva Giovanni Paolo II - dei due “polmoni” dell’Europa (oltre che della Germania). L’attuale instabilita’ non e’ un effetto diretto della caduta del Muro, ma dell’incapacita’ (o di mancanza di volonta’ politica) della comunita’ internazionale (e dei Paesi che ne sono leader indiscussi) di creare strutture e funzioni per una nuova governance mondiale, pluralista e multilateralista. Da questo punto di vista, il ventennio che ci lasciamo dietro e’ fatto in buona misura di occasioni perdute. Ci siamo concentrati su uno stucchevole dibattito sullo “scontro di civilta’” e non abbiamo affrontato per tempo i “nodi della civilta’”, vale a dire i grandi problemi globali come le sperequazioni economiche a livello mondiale, il cambiamento climatico, il grande tema “bio-politico” della fame e delle malattie endemiche. Ci siamo interrogati a lungo se il mondo fosse diventato “unipolare”, “multipolare”, “unipolare” o “interpolare”. Nel frattempo, non solo il polo (quello geografico e climatico) cominciava a sciogliersi, ma anche l’idea stessa di “polarita’” in campo internazionale, tanto che si e’ parlato di un mondo “non-polare”. Ma in che mondo ci troviamo vent’anni dopo il Muro? Un politologo francese, Dominique Moïsi, ha recentemente scritto un libro sulla “geo-politica delle emozioni”. Ed ha abbinato alcune fondamentali “emozioni” umane, quali la paura, la speranza e l’umiliazione a determinate regioni del globo. Cosi’, l’Occidente appare oggi dominato dalla «paura» e dall’ossessione della sicurezza, mentre e’ l’Asia a nutrire la «speranza» nel futuro, pur nelle sue profonde contraddizioni e divisioni. Altre regioni, quali ad esempio il Medio Oriente inteso in senso ampio e la stessa Africa, soffrono ancora delle conseguenze di «umiliazioni» subite nel corso della loro storia. Sappiamo che la realta’ e’ molto piu’ complessa, e che questi sentimenti sono compresenti nelle diverse aree del mondo, pur con una mistura diversa. Per fare della speranza una «emozione» universale, c’e’ bisogno di un nuovo progetto politico internazionale, un «new deal» globale, una nuova alleanza piu’ inclusiva e paritaria, che vada ben oltre le alleanze economiche e militari esistenti. Non e’ per nulla un progetto utopico; basti guardare allo stato del mondo per comprendere che non solo e’ realistico, ma anche urgente e necessario. La nuova “governance globale” di cui tanto si parla, ma di cui sinora poco si e’ visto, puo’ rappresentare un’occasione unica. Non lasciamola passare invano.

J Street


Una nuova organizzazione ha fatto da qualche tempo la sua apparizione a Washington: e' la "J Street", che si definisce contemporaneamente come "pro-Israele" e "pro-pace". Leggiamo nella mission:
J Street is the political arm of the pro-Israel, pro-peace movement. J Street was founded to promote meaningful American leadership to end the Arab-Israeli and Israeli-Palestinian conflicts peacefully and diplomatically. We support a new direction for American policy in the Middle East and a broad public and policy debate about the U.S. role in the region. J Street represents Americans, primarily but not exclusively Jewish, who support Israel and its desire for security as the Jewish homeland, as well as the right of the Palestinians to a sovereign state of their own - two states living side-by-side in peace and security. We believe ending the Israeli-Palestinian conflict is in the best interests of Israel, the United States, the Palestinians, and the region as a whole. J Street supports diplomatic solutions over military ones, including in Iran; multilateral over unilateral approaches to conflict resolution; and dialogue over confrontation with a wide range of countries and actors when conflicts do arise. J Street will advocate forcefully in the policy process, in Congress, in the media, and in the Jewish community to make sure public officials and community leaders clearly see the depth and breadth of support for our views on Middle East policy among voters and supporters in their states and districts. We seek to complement the work of existing organizations and individuals that share our agenda. In our lobbying and advocacy efforts, we will enlist individual supporters of other efforts as partners.


[Stralci del lungo articolo di Christian Rocca pubblicato su “Il Foglio” del 28.10.2009, come sempre molto ben informato, anche se non ne condivido alcune valutazioni piu' squisitamente politiche]:
A Washington è scoppiata un’altra guerra, quella tra le lobby pro Israele. Un anno e mezzo fa è nato “J street”, un gruppo di pressione politica con l’obiettivo di rappresentare gli ebrei americani di sinistra e controbilanciare l’influenza sulla politica estera americana dell’Aipac, l’American Israel Public Affairs Committee. L’Aipac è da anni la più potente tra le tante associazioni americane filo israeliane, certamente la più efficace nel convincere i politici di Washington, di destra e di sinistra, che il problema della sicurezza dello stato ebraico coincide perfettamente con gli interessi nazionali degli Stati Uniti. I critici dell’Aipac sostengono che l’organizzazione in realtà abbia a cuore gli interessi israeliani più che quelli americani e denunciano le proposte troppo muscolari, se non proprio guerrafondaie, suggerite al Congresso e alla Casa Bianca per difendere le ragioni di Israele. Con queste ricette, sostengono gli anti Aipac, la politica estera americana viene vincolata a una visione internazionale che non sempre rientra nei veri interessi nazionali degli Stati Uniti. Ora però c’è J street, organizzazione sionista progressista nata per contestare il sostegno automatico che l’establishment ebraico americano assicura ai vari governi israeliani. L’idea è di coinvolgere le giovani generazioni di ebrei americani e di sostenere le ragioni di Israele e della pace in modo diverso da quello del passato, ma a poco a poco J street è stata anche usata come piattaforma pubblica da chi non sopporta la specificità dello stato ebraico. La “j” di J street sta per “jewish” e la pronuncia del nome suona simile a “K street”, ovvero la strada di Washington dove storicamente hanno sede le grandi lobby americane (le strade del centro di Washington, inoltre, hanno i nomi delle lettere dell’alfabeto, ma la “j” non c’è e passano dalla “i” direttamente alla “k”). Domenica (25.10.2009) si è aperta la prima conferenza annuale di J street e l’evento ha creato un mezzo terremoto a Washington, in particolare tra i politici del Partito democratico, e una forte spaccatura nel mondo ebraico che in America è largamente di sinistra. Tra i partecipanti alla conferenza ci sono centocinquanta tra deputati e senatori e anche il consigliere per la Sicurezza nazionale di Barack Obama, Jim Jones. (...) L’ambasciatore israeliano a Washington, Michael Oren, stimato saggista e storico con doppio passaporto americano e israeliano, non solo ha rifiutato di partecipare alla conferenza di J street, ma non ha mai voluto incontrare i capi dell’organizzazione. Il premier israeliano, Benjamin Netanyahu, ha usato parole dure, mentre la leader dell’opposizione di Gerusalemme, Tzipi Livni, pur declinando l’invito ha inviato una lettera molto cortese. Presente, invece, tutta la sinistra pacifista israeliana. “Il governo di Israele ha perso l’opportunità di incontrare più di 1.200 militanti pro Israele”, hanno detto quelli di J street. (...) L’ultimo sondaggio svela infatti che soltanto il sei per cento degli israeliani considera il nuovo presidente americano filo israeliano. Obama, tra l’altro, nei mesi scorsi ha invitato alla Casa Bianca i leader del mondo ebraico, compresi i rappresentanti di J street, escludendo però lo storico gruppo “Zionist Organization of America” guidato per anni dal leggendario presidente della Corte Suprema Louis D. Brandeis. In un’intervista a Newsweek pubblicata lunedì, il premier israeliano Netanyahu però ha liquidato le indiscrezioni sui cattivi rapporti con la Casa Bianca: “Tra l’Amministrazione Obama e il mio governo c’è una cooperazione molto più ampia di quanto la gente sappia. Parliamo apertamente e ho apprezzato enormemente i passi intrapresi da Obama contro il rapporto Goldstone, la sua pressione sull’Iran affinché fermi il programma nucleare militare così come l’impegno continuo per rilanciare i negoziati di pace tra noi e i palestinesi”. I leader di J street sostengono esplicitamente di essere a favore di Israele, ma anche a favore della pace in medio oriente, “pro Israel and pro peace”, quasi a dire che le due cose spesso non coincidono, ma la sua ala universitaria ha appena deciso di cancellare la parte “pro Israel” dallo slogan, in modo da non disturbare i potenziali studenti che non si trovano a proprio agio con una chiara identificazione filo israeliana dell’istituzione. L’approccio non può essere più diverso da quello dell’Aipac. I dirigenti dell’Aipac sono orgogliosi della loro influenza sulla politica americana e alle loro conferenze annuali sfila sempre la crema politica di Washington, da Barack Obama in giù. Sono loro stessi a definirsi “lobby pro Israele”. Gli avversari più spericolati non hanno remore a definirla “lobby ebraica” e gli studiosi Stephen Walt e John Mearsheimer pensavano innanzitutto all’Aipac quando hanno scritto il controverso saggio “The Israel Lobby” che ha creato grande imbarazzo nei circoli culturali, accademici e politici americani. (....) Ma nell’aprile del 2008 è nato J street per offrire agli americani di religione ebraica, e non solo, un gruppo di pressione meno radicale, più pacifico e in realtà non molto distante dalle posizioni di Walt e Mearsheimer, lunedì salutati come eroi dai partecipanti alla conferenza di Washington. Walt, in un’intervista al mensile di sinistra Mother Jones, ha detto che la politica americana su Israele può essere decisa da questa battaglia intrapresa da J street: “Per Obama sarà decisivo avere una copertura sufficiente da J Street e dall’Israel Policy Forum in modo da poter dire che l’Aipac non è rappresentativa della comunità ebraica americana. Ma devo dire che non sono molto ottimista. Non sono sicuro che Obama sia davvero pronto a dargli una regolata”. (...) La nascita di J street ha creato subito scompiglio, un anno e mezzo fa, non solo per le posizioni non sempre coincidenti con quelle ufficiali di Israele, ma soprattutto perché l’obiettivo dichiarato era quello di intercettare la grande maggioranza degli ebrei americani che tradizionalmente vota Partito democratico e sulle questioni mediorientali non si trova sempre in sintonia con le ragioni del sionismo a senso unico dell’Aipac. J street, infatti, si batte contro le sanzioni internazionali all’Iran, una posizione assolutamente minoritaria tra i deputati e i senatori del Partito democratico, tanto che ora ne parla sempre di meno. J street critica le operazioni militari di Israele a Gaza come “sproporzionate”, è favorevole a una trattativa diretta con Hamas, non ha accettato ma nemmeno condannato il famigerato rapporto Goldstone.

Bedouin School


Vento di Terra Onlus ha promosso la costruzione di un edificio scolastico in un villaggio Beduino Jahalin situato a sud di Gerusalemme, nei Territori Occupati Palestinesi.Giovedì 10 settembre 2009 è stato il primo giorno di scuola per i bambini beduini Jahalin della comunità di Al Akhmar. Grazie allo staff locale e al lavoro dell'equipe di architetti e ingenieri di VdT la scuola è stata completata in tempi record. L'Autorità Nazionale Palestinese ha dotato la struttura di 1 direttrice e 4 insegnanti. L'intervento è stato sviluppato in collaborazione con il Jerusalem Bedouins Cooperative Committee di Anata (Gerusalemme) allo scopo di dotare il villaggio beduino di una scuola primaria, di cui era sprovvisto. A causa delle problematiche legate al conflitto in corso e all’occupazione militare israeliana, 300 bambini e bambine non riuscivano ad accedere all’istruzione primaria. VdT, in collaborazione con un equipe di architetti ed ingegnieri ha realizzato una struttura utilizzando materiali di riciclo (pneumatici usati) che non necessita di fondamenta.
2.000 gomme usate sono state utilizzate per la costruzione dei muri. Riempite di terriccio e ricoperte da un intonaco di argilla, costituiscono i muri della scuola, termoisolanti e larghi circa 80 cm. Il tetto, un pannello sandwich di lamiera e polistirolo, ne completa l’isolamento. Il posizionamento di finestre in luoghi strategici dell'edificio ne garantisce una continua ventilazione. Il grande impegno della comunità Jahalin ha garantito la mano d’opera gratuita ed il recupero dei pneumatici, ed ha contribuito a mantenere i costi estremamente bassi.